Veramente perfetto questo romanzo di Antonio Scurati che è stato tra i
finalisti nel Premio Strega 2014: Il padre infedele esibisce ortografia e sintassi perfette, ricerca
lessicale perfetta, introspezione psicologica più che perfetta.
Talmente perfettino che l’ho piantato
dopo ottanta pagine: non ne potevo proprio più!
Una perfezione che sfocia fin
dalle prime pagine in una noia
mortale: una masturbazione mentale continua di questo protagonista
che racconta la sua storia banale come tante altre, con le problematiche di
laureato, lavoratore, fidanzato, marito, padre uguali a quelle di tanti altri
uomini ma rese insopportabili dalla saccenteria
con cui Scurati ha costellato ogni riga di questa sua opera.
Alla faccia della famosa casalinga di Voghera l’autore ha
scritto un romanzo per pochi letterati (e si annoiano anche loro, prima o poi…)
infarcendolo di termini ricercatissimi
e dall’arcano concetto, dei quali qualche volta devi anche cercare il
significato sul dizionario (eeehhhh… che vuoi, colpa mia che sono ignorante,
leggo troppo poco!). Nichilismo maturo, idiosincrasia, intemperanza cosmica,
infecondità ambientale, culinaria di un’epoca esangue (che cazzo vuol dire
qualcuno me lo dovrebbe spiegare), intronazione, murmure polmonare, discepolanza
sono solo alcuni dei termini quantomeno inusuali che si incontrano quasi a ogni
paragrafo, per culminare con l’orgiastico “eudaimonia” (lo sapete tutti cosa
significa, vero?), volendo usare il quale Scurati non si è limitato alla forma corretta della lingua italiana “eudemonìa” (dal vocabolario
Treccani: nel pensiero filosofico, la felicità intesa come scopo fondamentale
della vita), ma ha preferito inserire nientepopodimenoché l’originale radice
derivante dal greco antico. Tanto per rendere le cose più semplici alla
casalinga di Voghera.
Ma già, dimenticavo, un libro
del genere non è scritto per costei:
un libro del genere è costruito ad hoc
per la giuria del Premio Strega, ai cui giurati devi far vedere quanto sei
colto ed erudito, anche se poi del loro parere quelle quattro case editrici che
ogni anno si spartiscono il premio se ne fottono
del tutto.
Continuando sulla stessa
scia, nelle prime ottanta pagine (dopo non so, e non lo saprò mai, e mi
crogiolerò in questa ignoranza) Scurati inserisce una dopo l’altra citazioni di
Hegel, Hemingway, Nietzsche, Tolstoj, Neruda e Stendhal, tanto per citarne
alcuni e scusa se sono pochi, non dimenticandosi di nominare anche il Noma di Copenhagen, nel quale il
protagonista si vanta di aver mangiato pure senza prenotazione (a proposito, è
notizia dell’altro giorno che anche
quest’anno il locale è assurto al ruolo di miglior ristorante del mondo).
Come dicevo, dopo ottanta
pagine ne avevo i marroni pieni.
Oltretutto, leggendo una
storia attraverso la quale io, come la quasi totalità degli altri maschietti
maturi, sono già passato; esperienza già fatta, con poco di diverso, e senza
alcuna voglia di sentire qualcun altro che me la ripete cercando di far vedere
quant’è bravo. Oh, sì, Scurati bravo lo è senz’altro e ha fatto di tutto per
metterlo in bella mostra.
Un bravo per pochi.
Leggo in rete che oltre ai
vari titoli accademici è anche un insegnante di scrittura creativa. Lo sono
anch’io. Anche se non così dotto e acculturato come lui. Ai miei “alunni” io
cerco di far capire il valore della sobrietà
nella scrittura: l’uso di un linguaggio semplice, di termini accessibili a
tutti, di una sintassi lineare. Il lettore devi prenderlo, non stupirlo col tuo
sapere.
Chissà se nei suoi corsi
anche lui divulga lo stesso concetto. E nel caso, sarei curioso di conoscere la
giustificazione per questa discrepanza tra operato del discente e insegnamento
ai discepoli: predicare bene e razzolare male?
Il Lettore nauseato dalla perfezione
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