lunedì 31 dicembre 2018

L’ignoto ignoto


Ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose che non sappiamo di sapere. Ma c’è l’ignoto ignoto, cioè le cose che non sappiamo di non sapere”.
Dopo aver letto Marco Malvaldi ho ripreso l’e-reader proseguendo nella lettura del chilometrico romanzo storico nel quale mi sono impelagato, ma per Natale mi è arrivata questa strenna inaspettata e ci ho messo mano subito.
Un libricino minuscolo ma prezioso, dal sottotitolo Le librerie e il piacere di non trovare quello che cercavi.
Anche se sarebbe più giusto modificarlo: Le librerie e il piacere di trovare ciò che non sapevi affatto di non stare cercando.



In questo minuscolo volumetto edito da Laterza e in vendita al costo di soli 2 euro, l’autore britannico Mark Forsyth esplora il concetto di quanto sia appagante trovare ciò di cui non immaginavi nemmeno l’esistenza.
In quest’era dominata da internet riusciamo a trovare tutto ciò che ci interessa in pochi minuti, ma come possiamo trovare quello che non conosciamo?
L’autore riporta questo esempio: “Io so che Parigi è la capitale della Francia, io so di non saper qual è la capitale dell’Azerbaigian, pur essendo certo che ce n’è una. il tipo di cosa che devo controllare. Ma io non so... e qui la faccenda si complica. Tu non sai qual è la capitale dell’Erewhon, perché non sospetti neppure lontanamente l’esistenza di un paese chiamato ‘Erewhon’ e quindi non ti rendi conto di questo buco nelle tue conoscenze. Non sai di non sapere. Per i libri funziona esattamente allo stesso modo.”
Io so di aver letto Anna Karenina, e so di non aver letto Guerra e pace (tanto per restare a Lev Tolstoj). Questo è un tipo di conoscenza nota, e mi posso benissimo immaginare l’entità potenziale di quello che non ho fatto, ma ci sono un’infinità di libri di cui non ho mai sentito parlare, per i quali non mi rendo neanche conto di ciò che ho perso non avendoli letti.
Quando sei in una libreria che non conosci e ti diverti a curiosare tra gli scaffali più nascosti, con la mente aperta a qualsiasi cosa stimoli la tua curiosità, se sei fortunato ti potrebbe capitare di imbatterti in una qualche perla della quale non sospettavi minimamente l’esistenza. E della quale, per lo stesso motivo, non ti saresti mai messo alla ricerca.
L’autore sostiene di essersi imbattuto spesso in libri di questo genere, e dal momento che anche a me questo caso fortuito è capitato diverse volte, capisco bene quanto possa fare piacere.  
Libretto carino e interessante che invita a essere sempre pronti a cogliere l’occasione, soprattutto quando non te l’aspetti. E soprattutto non sai cosa ti potresti aspettare.
Internet accoglie i tuoi desideri e te li risputa addosso, soddisfatti. Fai la ricerca, inserisci le parole che già conosci, le cose che già avevi in mente e la Rete ti restituisce un libro, un’immagine, una voce di Wikipedia. Ma questo è tutto. Le cose che non sai di non sapere le trovi altrove.
Con l'ultimo post dell'anno vi faccio gli Auguri per un buon 2019!
Il Lettore 



lunedì 24 dicembre 2018

La misura dell’uomo


Stavolta Marco Malvaldi è incappato nella sfortuna di essere letto subito dopo aver finito Murakami e, mi dispiace dirlo, non ha retto il confronto.
Dopo la scrittura semplice e cristallina del giapponese, ritrovare le complicazioni dello scrittore toscano, per di più trasposte in pieno Rinascimento (quasi millecinque… avrebbe detto Massimo Troisi), non ha giovato al chimico nostrano che inizia questo romanzo mettendo in campo troppi personaggi, utilizzando il linguaggio dell’epoca e inserendovi a ripetizione le sue battute, moderne e mordaci, con continui e anacronistici riferimenti ai giorni nostri e i suoi consueti e martellanti calembour da scrittore ormai navigato.
Marca male, sta a vedere che questa è la volta che mi tocca piantarlo, ho pensato dopo le prime pagine.
Poi, per fortuna, è migliorato.



Destreggiandosi tra le mille insidie politiche che minacciano la Signoria di Milano, tra i primi criminali tentativi di mettere in crisi il nascente e moderno sistema bancario, tra numerose relazioni eterosessuali (Ludovico il Moro) e omosessuali (Leonardo da Vinci), tra frecciate non così tanto nascoste all’attuale situazione politica e rigorose ricostruzioni storiche, Malvaldi mette in campo quello che alla fine risulta essere un buon romanzo storico, la cui facilità di lettura è però ostacolata soprattutto dal linguaggio adoperato, che in molti passaggi è l’italiano volgare dell’epoca, e dal vizio dell’autore di inserire a ripetizione quel trucchetto che avevo già descritto qui, cioè di iniziare i capitoli o i capoversi mettendo le stesse parole o gli stessi concetti con cui termina il precedente, cambiando il contesto in cui sono inseriti.

Un esempio:
– Dovremmo sapere qualcosa di più sulle intenzioni dei francesi – disse il Moro, dopo una lunga pausa. – È troppo tempo che aspettiamo, ormai.

– Certo che è troppo tempo che aspetto! – disse l’omino in calze e camicia da letto. – Dov’è la mia colazione? (in tutt’altra situazione e con altri personaggi).

E il bello è che quasi in ogni cambio di scena è usata questa tecnica. Se all’inizio può sembrare una cosa curiosa e anche piacevole per averla riconosciuta, alla lunga diventa ridondante e anche piuttosto fastidiosa. Il troppo stroppia, caro Marco, non l’hai ancora imparato?

L’inizio del romanzo, a causa del linguaggio non consueto e dell’introduzione dei numerosi personaggi con una minima descrizione per caratterizzare ognuno, non risulta né agevole né piacevole, ma da quando la vicenda entra nel vivo con un omicidio le cose migliorano per poi concludersi in maniera del tutto plausibile e dare la soddisfazione di aver letto un romanzo che merita.
Ma resta sempre il convincimento che leggere Murakami abbia fatto più piacere.
Ah, dimenticavo, buon Natale a tutti.
Il Lettore

martedì 18 dicembre 2018

L’assassinio del commendatore


Anche per me, con tutto che odio la bicicletta (e soprattutto i ciclisti), leggere Haruki Murakami è come andare in bicicletta su una leggera discesa, in una giornata di sole e con il vento tra i capelli. Piacevole, rilassante, nessuna fatica, divertimento puro.





Perché ha una scrittura superlativa, pulitissima, senza fronzoli, il massimo di semplicità e chiarezza. La ricerca della semplicità è uno dei suoi punti di forza, e Murakami in questo riesce benissimo senza annoiare minimamente.
Il giapponese ripete l’exploit di 1q84 facendo uscire un romanzo in due volumi: come si evince anche dal sottotitolo (Libro primo: idee che affiorano). Questo L’assassinio del commendatore è diviso in due parti delle quali la seconda uscirà a fine gennaio 2019. Non che ciò faccia stare con l’ansia di conoscere come andrà a finire: è come averne interrotta a metà la lettura per poi riprenderlo dopo un paio di mesi: non c’è una vicenda piena di pathos interrotta nel bel mezzo di un’azione entusiasmante, il tutto è molto tranquillo e le cose succedono consequenzialmente.
La vicenda: un pittore di ritratti su commissione viene lasciato dalla moglie. Dapprima si imbarca in un viaggio solitario in auto senza meta, quindi un amico gli offre di andare ad abitare nella villa che era stata di suo padre, ora fuori di testa in un ospizio, per controllarla e non permettere che la costruzione vada in malora. Dal momento che il padre del suo amico è un pittore famoso il protagonista accetta, e una volta arrivato nella casa gli accadono dei fatti che daranno una svolta non preventivata alla sua vita: il ritrovamento di un quadro nascosto dal proprietario dell’abitazione e il risiedente di una villa vicina che gli chiede di fargli un ritratto.
Da qui una concatenazione di fatti che modificheranno sostanzialmente la vita e il modo di pensare del protagonista.
Murakami ritorna alle dimensioni oniriche e alle atmosfere irreali che lo hanno reso famoso, sia pure trattate in modo molto blando, oserei dire molto realistico. Quale forma concreta può assumere una “idea”?
Libro bellissimo che fa paragonare l’autore a quei vini che invecchiando migliorano: la scrittura di Murakami è un’opera d’arte, al pari delle idee che gli affollano la mente. Il libro non ha nemmeno una parvenza di finale, questo è vero, ma si tratterà solamente di passare al prossimo volume invece che al prossimo capitolo e di aspettare poco meno di un paio di mesi.
Nulla di più.
Il Lettore

martedì 11 dicembre 2018

Il baco da seta


Un altro libro che ho preso da mia nipote è questo Il baco da seta, che non è un manuale sull’allevamento di vermiciattoli ma la seconda puntata delle avventure di Cormoran Strike, l’investigatore ideato dalla creatrice di Harry Potter sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith (per la prima puntata vedi qui).
J. K. Rowling è una manna per chi dovesse soffrire di insonnia.



Per questa seconda avventura del detective senza una gamba la Rowling scomoda l’ambiente letterario: Strike viene chiamato a indagare sulla sparizione di uno scrittore e ben presto le sue si trasformano in indagini per un omicidio.
Se ciò fosse possibile, questo romanzo è ancora più lento del primo. Ancora una volta la Rowling non risparmia la sua logorrea cercando di ritardare il più possibile il momento della rivelazione dell’assassino. Con infiniti interrogatori, la discesa in campo di personaggi nuovi, il ritrovamento di personaggi vecchi, qualsiasi scusa è buona per allungare il brodo e rendere interminabile questo libro. Oltre alla vicenda cervellotica e francamente poco credibile.
In effetti mi ero aspettato di meglio. Forse il mondo delle case editrici inglesi e delle persone che girano loro intorno, dagli impiegati ai proprietari agli editors era troppo stuzzicante per quella di loro che si trova all’apice di questo mondo.
Il criticato romanzo che si trova al centro della vicenda, Bombyx Mori, è un libercolo scandalistico in cui il suo autore, Owen Quine, usa un linguaggio scurrile e dà contro a tutti, agenti letterari, editori e romanzieri rivali. E chiaramente per questo motivo di gente che avrebbe voluto vederlo morto ce n’è parecchia. Ma la Rowling la fa troppo lunga prima di arrivare alla soluzione: i protagonisti sono anche interessanti (il detective e la sua assistente, quelli delle case editrici molto meno), ma non bastano per poterlo promuovere del tutto.
Il Lettore 




giovedì 29 novembre 2018

Mio fratello rincorre i dinosauri


In questo periodo in cui, mio malgrado, riesco a leggere poco, mi sono imbarcato nella lettura di un romanzo storico di più o meno mille pagine. Al mio ritmo attuale di una pagina al giorno la vedo pressoché infinita. Ma non disperate, prima o poi troverete anche lui su questi schermi.
Poi domenica siamo stati invitati a pranzo dalle mie nipoti, una delle quali è una forte lettrice, e le ho saccheggiato la libreria. A sera, tornato a casa, ho messo temporaneamente da parte l’ereader con il romanzo storico e ho iniziato questo Mio fratello rincorre i dinosauri di cui avevo già sentito parlare qualche tempo fa.
La sera dopo era terminato.



Per fortuna ogni tanto succede di leggere un libro molto buono.
Questo di Giacomo Mazzariol è la storia del rapporto tra l’autore e suo fratello Giovanni, affetto dalla sindrome di Down: dall’entusiasmo iniziale per l’imminente nascita di un fratellino alla scoperta che questo fratellino non sarebbe stato normale, dall’iniziale rifiuto, dalla vergogna e dal non voler far sapere questo fatto alla propria cerchia di amici, alla completa accettazione della sua condizione e di lui stesso. Un vero e proprio romanzo di formazione adolescenziale.
Scritto molto bene, si legge in tre ore al massimo senza cali di tensione e, cosa che non guasta mai, pur trattando una tematica seria è anche divertente. Tanto è vero che quando è uscito ha avuto un discreto successo.
In fin dei conti il libro è un invito per tutti ad accettare le conseguenze della presenza di questo cromosoma in più con tutto ciò che ne deriva di buono e di meno buono, e di considerare le persone che ne sono portatrici come ogni altro essere umano, come si dovrebbe fare comunque e con chiunque.
La vicenda di Giacomo e Giovanni e di questo libro ha avuto una notevole ricaduta mediatica anche per il filmato con cui si sono fatti conoscere su Youtube, dal titolo A simple interview, e che potrete trovare qui (la mia era la 411.133esima visualizzazione, tanto per farvi capire).
La cosa che non riusciranno mai a farmi credere, comunque, è che questo romanzo l’abbia scritto per intero una persona di soli diciannove anni.
Passi l’uso dei verbi, tutti inseriti in modo perfetto (anche mio figlio a quindici anni padroneggiava l’uso dei congiuntivi), passi l’assenza di refusi, passi l’uso dell’ironia perché anche un adolescente può saper fare un buon uso dell’umorismo, la cosa che penso non sia stata farina del sacco del Mazzariol è il ritmo. Tutte le vicissitudini narrate sono cadenzate in modo perfetto, messe al momento giusto nel modo giusto da un professionista, inserite alternando spunti simpatici ad altri che lo sono meno, alcune perfino risolte in modo ottimale a molte pagine di distanza (vedi la scena del Pisone), ai fini dell’insegnamento che intendeva fornire il libro.
Un ritmo così può averlo dato solo una persona esperta, di quelle che sanno ciò che stanno per fare, altro che un diciannovenne inesperto, e io sospetto fortemente che i due ringraziati in postfazione, Fabio Geda e Francesco Colombo, o chi insieme a loro, gli editors della Einaudi, per esempio, abbiano fornito ben più del piccolo aiuto per il quale sono ringraziati.
Senza comunque voler togliere nulla all’autore.
Il Lettore 




mercoledì 21 novembre 2018

Casino totale


Gran bel romanzo. Viene da concordare con Massimo Carlotto che, dopo averlo letto, ne è rimasto entusiasta.
Nonostante Il sole dei morenti non mi abbia coinvolto più di tanto, ero rimasto curioso di leggere ancora qualcos'altro di Jean Claude Izzo, e ho optato per il suo romanzo più famoso, Casino totale, con cui ha dato vita alla serie trilogia marsigliese, e quindi ad un intero genere letterario, il noir mediterraneo.



Il romanzo inizia con Ugo che ritorna nella città in cui è stato giovane, Marsiglia, e in cui è morto l’amico Manu a cui era legatissimo. Ma anche Ugo resta vivo per un solo capitolo, per lasciare il posto al vero protagonista, Fabio Montale, il terzo componente del trio di amici inseparabili, al quale il desiderio di sapere come e perché sono morti coloro che considerava dei veri e propri fratelli non da tregua.
Si da il caso che Fabio Montale sia pure un poliziotto, e per quanto gli è concesso si mette ad investigare su ciò che è successo, dapprima coinvolgendo antiche amicizie, poi calandosi nei meandri della malavita marsigliese, della quale aveva rischiato di entrare a far parte da giovane come era successo agli altri due amici.
In questo percorso Izzo ci fa calare all’interno dei problemi sociali di una società multietnica come quella di Marsiglia, sottolineando i forti screzi tra fazioni in eterna lotta tra loro: francesi, arabi, neri, poliziotti, delinquenti, poveri e benestanti, giovani in cerca di un futuro e coloro che quel futuro lo hanno già perso, giovani ragazze che non hanno altra scelta che fare le prostitute per poter vivere e quelli che se ne approfittano arrivando ad ucciderle per un nonnulla.
Lo stile è asciutto e crudo, senza abbellimenti, ma lasciando comunque molto spazio all’uso dell’immaginazione da parte del lettore e senza scendere nell’esplicitazione di scannamenti o simili cose estremamente trucide come negli autori più recenti. Si nota anzi un tentativo, da parte del protagonista, di ricerca di giustificazioni morali per comportamenti non in linea con il politicamente corretto, un tentativo di ritorno agli ideali di cui sono piene le menti dei giovani, in un mondo in cui è difficile poter fare i “buoni” quando anche i poliziotti sono tra coloro da combattere.
Casino totale (Total Khéops) ha fatto da capostipite a un genere letterario insieme agli altri due romanzi di cui è composta la trilogia con protagonista Fabio Montale: Chourmo e Solea, e, visto che mi è piaciuto, prima o poi leggerò anche questi altri due.
Il Lettore 




giovedì 15 novembre 2018

Io sono un gatto


Oltre al fatto che riesco a leggere molto di meno, sono incappato in una sequela di libri che si rivelano pallosissimi, come l’ultimo postato e come questo, che porto avanti con fatica quando addirittura non sono costretto a piantarli a metà, come questo (e due), e che pur possedendo una certa dose di fascino non posseggono tutti gli altri requisiti necessari a dare soddisfazione.
In più mettiamoci che l’atto stesso di scrivere questo post sta diventando una tortura perché ho tutte le dita, compreso carpo e metacarpo, indolenzite per aver usato troppo motoseghe e roncola questa mattina e l’essere passato alla tastiera non consueta del computer nuovo non aiuta di certo.
Va be’, problemi di noi boscaioli (quelli non abbastanza allenati).



Io sono un gatto mi ha attratto subito per il solo fatto di avere questo titolo. Natsume Soseki (pseudonimo di Kinnosuke Natsume, ma in ogni caso non si conosce lo stesso), lo ha scritto nel lontano 1905 mentre il Giappone era in guerra contro la Russia, ed è il primo romanzo di questo autore.
Questo libro mi ha attirato per il solo fatto di parlare di gatti, che sono animali che amo molto. Ma in genere la maggior parte degli autori che trattano di gatti non sono capaci a tener viva l’attenzione: o si fanno ben presto noiosi o cadono nello scontato e nella melensaggine. Conosco un solo autore “gattaro” interessante, ed è il blogger de I gatti di Monte Malbe (http://igattidimontemalbe.blogspot.com/).
Natsume Soseki arriva al punto di immedesimarsi con questo gattino appena nato che del tutto inaspettatamente arriva in casa di un professore di liceo (dal carattere interessante come quello di un’ostrica) e viene ignorato ma nutrito, e nel suo poter andare dappertutto assiste e commenta la vita della casa e di chi la frequenta passando per lo più inosservato nella totale trascuratezza degli umani nei suoi confronti. È lo stesso gatto che narra in prima persona: non ha un nome perché nessuno si è preso la briga di metterglielo, e di ogni cosa fa un argomento sul quale intervenire e dire la sua.
Personaggi simpatici o insopportabili, consuetudini strane o del tutto normali. Il gatto vede e commenta. Come però farebbe un “umano” alquanto erudito. Arrivando a parlare di filosofia e rifacendosi a molte massime “zen”. In pratica Soseki lo ha reso troppo umano, lo ha antropomorfizzato troppo arrivando a rendere la cosa alquanto inverosimile, facendolo comportare come una persona con una cultura universitaria e non più come un semplice gatto.
Inoltre la maggior parte delle cose nominate ha il nome giapponese: vestiti, cibi, consuetudini sociali, modi di fare, il che rende molte pagine veramente incomprensibili (fino a sapere cosa sono un futon o un tatami ci arrivo, ma il mochi e il kenban mi sono proprio ignoti. È vero che ci sono delle note con le spiegazioni a fondo libro, ma è troppo scomodo dover andare alla fine ad ogni richiamo che si incontra. Continuiamo a rimanere nell’ignoranza, ma non è piacevole). Tutto questo rende il testo, sia pure da un certo punto di vista anche affascinante, oltremodo non interessante e noioso, e arrivato circa a metà sono stato costretto ad abbandonarlo per l’incapacità a proseguire per più di una pagina al giorno.
Comunque ve ne riporto l’incipit: “Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho. Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in un posto umido e oscuro. È là che per la prima volta ho visto un essere umano. Si trattava di uno di quegli studenti che vivono a pensione presso un professore - mi hanno poi detto - e che fra tutti gli uomini sono la specie più perversa. Si racconta che costoro ogni tanto acchiappino uno di noi, lo mettano in pentola e se lo mangino. Però in quel momento, non sapendolo, non ebbi paura. Provai soltanto un senso di vertigine quando lo studente mi mise sul palmo della mano e di colpo mi sollevò per aria. Appena ritrovai una certa stabilità lo guardai in faccia, era il primo individuo appartenente alla specie umana che vedevo in vita mia. Che creatura curiosa, pensai, e quest’impressione di stranezza la conservo tuttora. Tanto per cominciare il viso, invece di essere coperto di peli, era liscio come una teiera.
E fin qui è comprensibile. Poi peggiora. Le 500 e passa pagine non sono riuscito a reggerle tutte.
Il Lettore 




martedì 6 novembre 2018

L’ingegnere in blu


Così come in questi ultimi tempi sono affascinato da David Foster Wallace, un altro autore che mi ha molto incuriosito (in questo caso pur non piacendomi quasi per nulla, vedi qui), è Carlo Emilio Gadda, e per andare più a fondo ho letto un libro con protagonista questo scrittore.
Questo L’ingegnere in blu non è una vera e propria biografia, e neanche un libro di critica “gaddiana” (a dire il vero non ho ancora ben capito cosa sia), forse un misto di entrambi: racconta della vita di Gadda e delle cose che ha scritto e del come e perché le ha scritte e come mai le ha scritte in quel modo, e anche qualcosa in più.



Alberto Arbasino è uno scrittore e giornalista (e anche politico, ma sorvoliamo questo aspetto che qui non si parla di politica), del quale fino ad ora non avevo mai letto nulla. È un grande estimatore di Gadda, si sente da come ne scrive, e questo non è l’unico saggio che ha completato con argomento lo scrittore milanese.
Evidentemente era affascinato dal suo fare in modo che il lettore non capisca pressoché nulla perché, a detta di alcuni, in genere anche la scrittura di Arbasino vira molto sul surrealista (e a detta di altri invece è proprio delirante).
Fatto sta che io non l’ho trovata né surrealista né delirante, ma certo, non è che sia stata una lettura tra le più leggere. Anzi, direi proprio che mandar giù questo L’ingegnere in blu è stato proprio pesantuccio quando non decisamente noioso.
Arbasino mostra diversi aspetti di Gadda: oltre ai cenni biografici tratta della sua produzione sotto l’aspetto critico e degli autori italiani che amava. O che non amava: se ammirava molto Alessandro Manzoni, non si può dire la stessa cosa per Giovanni Pascoli, per esempio. Si sfiorano le sue parentele, la scelta di rimanere scapolo e i suoi interessi politici fino a formare un quadro per niente esaustivo ma in fondo sufficientemente coprente tutti gli aspetti di questo personaggio, e in definitiva si sente che il libro è stato scritto principalmente per l’ammirazione sconfinata che prova l’autore per questo scrittore.
Quanto al risultato… ve l’ho già detto che l’ho trovato abbastanza noioso?
Il Lettore 

martedì 30 ottobre 2018

Leggere o tagliare? Dentro o fuori?


Questi dilemmi esistenziali!
Ultimamente sto leggendo molto meno. Per diverse ragioni: 1) ho cominciato un nuovo corso di scrittura e sono impegnato a rinfrescarmi le lezioni; 2) ho acceso la stufa nuova per l’inverno e 2a) devo accenderla tutti i giorni; 2b) devo fare legna a tutto spiano perché la suddetta consuma come una Ferrari in prova; 3) sono incappato in una serie di libri oserei dire “dall’andamento lento” (traduzione: a tratti pesantemente pallosi), e mi ci vuole del tempo per andare avanti considerando anche che la sera, a letto, crollo addormentato dopo una pagina.

Quindi il dilemma è: impiegare il poco tempo a disposizione per leggere, o andare nel bosco a fare legna?

Il leggere mi è fondamentale, ma quando ho da fare posso soprassedere. Il fare legna è necessario, nonché divertente, e l’unico motivo valido per non andare nel bosco è la pioggia.
La settimana scorsa, complice il bel tempo, vi ho trascorso tutte le mattine. Da solo. Nel silenzio più assoluto. Rotto solo dall’imprescindibile obbligatorietà di dover accendere le motoseghe che sono notoriamente molto rumorose (cosa della quale purtroppo non posso fare a meno, ma giuro che mi da parecchio fastidio e voglio valutare seriamente se i prossimi acquisti potranno essere soddisfacenti con l’alimentazione a batteria).
Stare nel bosco è rigenerante. Anche senza fare alcunché. Si contempla il lavoro svolto nei giorni precedenti, del tutto immersi nel verde e nel silenzio (perlomeno fino al momento di dover per forza mettere mano a qualche attrezzo), ci si congratula con se stessi perché il risultato è gradevole e si studia dove intervenire per continuare a migliorarne l’aspetto. Sto tagliando in un punto decisamente lontano da casa, quindi non corro nemmeno il rischio che per caso capiti qualcuno che voglia fare due chiacchiere.
L’odore del muschio è amplificato dall’umidità trattenuta dalle chiome degli alberi e l’unica difficoltà è riuscire a mantenersi in piedi sui ripidi versanti che rasentano l’incisione del fosso, con poca luce per il forte ombreggiamento che domina nelle aree in cui non sono ancora intervenuto.
A dire la verità di difficoltà ce ne sarebbero anche altre, ma lasciamo perdere che questo non è un blog che si occupa di lavori nel bosco e sono già andato nettamente fuori tema.
Era solo per giustificarmi e chiedervi di perdonarmi per il rallentamento nella cadenza delle pubblicazioni. Se non piove sapete dove sono.
Lo Scrittore



mercoledì 24 ottobre 2018

La scopa del sistema


Mi ci è voluto parecchio anche per leggere questo romanzo, ma la cosa che alla fine viene da dire è: geniale.
È il primo attributo che mi viene in mente dopo aver letto questo libro. Bisogna essere proprio un genio per scrivere un romanzo del genere. A una persona normale le cose di cui tratta non verrebbero in mente.
Romanzo stranissimo ai limiti dell’assurdo, La scopa del sistema è il primo romanzo di David Foster Wallace, scritto quando l’autore aveva solo 24 anni e che lo ha proiettato immediatamente ai vertici della letteratura statunitense, facendolo diventare un esponente di spicco della corrente letteraria avantpop. Il romanzo successivo, Infinite Jest, lo ha consacrato il personaggio più promettente nella letteratura americana della sua generazione.
Dopodiché si è suicidato. Finiti i giochi.



In Questo romanzo si passa da deserti neri creati artificialmente a pappagallini parlanti che diventano star televisive a nonne cultrici di Wittgenstein che scompaiono improvvisamente dall’ospizio in cui dovrebbero essere confinate, transitando per innamoramenti folli e una miriade di personaggi uno più strano dell’altro di molti dei quali ammetto sinceramente di non aver neanche capito bene la funzione e il perché del loro inserimento.
Comunque l’aspetto che mi ha colpito di più nel romanzo è quello dei dialoghi: finora di David Foster Wallace avevo letto solo saggi senza “parlato” che mi avevano colpito per lo stile e l’acume con cui aveva trattato argomenti tra i più svariati, dalla letteratura alla filosofia al tennis alla critica cinematografica, ma in effetti è proprio nella stesura dei dialoghi tra due o più persone che è risultato eccellere, non risultando mai banale e scontato e dando modo anche di intuire le esitazioni, le ripetizioni e i momentanei controsensi di una chiacchierata “vera”. Dovrò portarlo ad esempio di come si scrive un dialogo, insieme a Ernest Hemingway e Ed McBain, nei miei corsi di scrittura.
Ma non solo: anche il cambiare stile e forma letteraria nei diversi capitoli, che richiede molta attenzione al lettore per restare al passo, alla fine risulta gratificante (e non solo per essere riusciti a capire il tutto).
Vi fornisco un esempio della sua scrittura in un brano quasi “normale”, tanto per far capire come anche in un semplice passaggio descrittivo ci si trovi di fronte a uno scrittore che tanto normale non era: “L’improvviso impeto con cui il desiderio di andare a vedere se le iniziali da me incise piú di vent’anni prima nello sportello di uno dei gabinetti nel bagno dell’Art Building fossero ancora lí, l’improvviso e inatteso e irresistibile impeto che mi aveva pervaso con tanta urgenza appena sceso dal taxi, davanti al dormitorio, con Lenore, era una cosa agghiacciante. Raggiunta che ebbi la serpentina di studenti che si snodava su per il tutt’altro che mite pendio volto all’Art & Science Building, essi e io parimenti impegnati nello sgraziato e fochesco passo di chi si inerpichi di buona lena su per un tutt’altro che mite pendio, con la maggior parte di noi foche evidentemente in ritardo per la lezione, e con una di noi in ritardo per l’appuntamento con un circoscritto oceano di proprio passato, oceano disteso e scrosciante accanto al graffitato pontile della sua infanzia e nel quale detta particolare foca era in procinto di mescere un intenso (sperabilmente non bi- né poliforcuto) fiotto della propria presenza, per dar prova di essere ancora, e quindi d’essere stata – ammesso, ovviamente, che i bagni fossero ancora lí –, raggiunta che ebbi la fila di foche in pantaloni corti e camicia a maniche corte e scarpe da barca e zainetti, e mentre sentivo la paura che accompagnava la e in parte dipendeva dalla intensità di sensazioni e desideri e via di seguito che a loro volta accompagnavano persino il pensiero di uno stupido gabinetto in uno stupido edificio di uno stupido college dove uno stupido ragazzo triste aveva trascorso quattro anni vent’anni prima, mentre sentivo tutte queste cose, dunque, mi venne in mente un fatto sul quale rifletto adesso che mi trovo seduto sul letto della nostra stanza d’albergo, a scrivere, con la televisione accesa a volume basso e con l’aguzzocrinito oggetto della mia adorazione nonché centro assoluto della mia intera esistenza assopito e lievemente russante accanto a me sul letto, un fatto della cui inconfutabile verità sono ormai persuaso, e cioè che l’Amherst College nel 1960 sia stato per me un divoratore del midollo emotivo, un edificatore di canyon psichici, un istigatore del pendolo dell’Indole tramite la spranga dell’Eccesso.”
Notare la precisione di assemblaggio, le invenzioni, i neologismi, lo sciabordante profluvio di congiunzioni, le parole composte e le assurdità all’interno di un discorso dalla sintassi perfettamente costruita oltre che chilometrica, con subordinate a ripetizione ma perfettamente concatenate tra loro tramite una punteggiatura perfetta. Trovo che un modo di scrivere così sia estremamente affascinante, anche se magari un po’ ostico da comprendere appieno.
 Magari questo romanzo non mi è piaciuto del tutto (forse proprio per la sua assurdità, forse perché io non sono abbastanza geniale per comprenderlo appieno), ma l’ho trovato molto intrigante. In questo momento non me la sento di affrontare le mille e passa pagine di Infinite Jest, ma qualcos’altro di questo Autore rileggerò senz’altro a breve.
Il Lettore 




mercoledì 17 ottobre 2018

Pastorale americana


Un altro scrittore destinato al Premio Nobel per la letteratura che non ha fatto in tempo a vederselo assegnato. Colpa sua che è morto troppo presto o colpa della commissione del Nobel che per quanto riguarda quelli bravi tergiversa fino a farli morire preferendo loro cosiddetti “poeti” dal cosiddetto merito altalenante come un ubriaco appena uscito dall’osteria?
Ho cominciato a leggere questo capolavoro proprio pochi giorni prima che giungesse la notizia della morte di Philip Roth. L’avevo cominciato e sospeso già in precedenza, poi, dopo la morte dell’autore ne ho ripreso la lettura e dopo poco l’ho interrotta di nuovo.
L’altra sera ero a cena con colei che mi ha gentilmente prestato il volume (che ringrazio di cuore), la quale mi ha informato che anche lei al momento stava leggendo un altro dei primi romanzi di Roth. Ovviamente il discorso è scivolato sull’autore di Pastorale americana e non abbiamo potuto fare a meno di parlare di questo libro.
L’aspetto consolante è che anche lei la pensava esattamente come me.

Ho un grosso cruccio nei confronti di questo romanzo: pur riconoscendo e apprezzando la bravura dell’autore, pur avendolo iniziato diverse volte, pur avendoci messo tutta la più buona volontà, pur desiderando ardentemente di vederne la fine (cazzo!, è Philip Roth, mica un Pinco Pallino qualsiasi), non sono mai riuscito a proseguire oltre la centesima pagina.

Il perché è presto detto: è noiosissimo.

Pur apprezzandone la sintassi e lo stile e il modo di costruire le frasi da grande romanziere, questo grande spaccato di una famiglia americana (che dovrebbe incarnare tutti gli aspetti della più ampia società americana), a me non è riuscito a coinvolgermi, non mi ha interessato affatto (come è già successo con altri autori famosi, soprattutto statunitensi).
Forse perché sono così diverse dal nostro vissuto quotidiano, del resto sono sempre un provincialotto di una piccola città dello sperduto centro di un paese che è grande solo lo zero virgola zero tre per cento degli Stati Uniti e quindi niente in confronto, fatto sta che le vicende di questo Nathan Zuckerman (alter ego dell’autore) chiamato a scrivere la biografia di Seymour Levov (lo Svedese, per via dei suoi capelli biondi), personaggio che dalla vita ha avuto praticamente tutto, sia nel bene che nel male, in me ha suscitato lo stesso interesse di una partita di calcio: zero assoluto. E quindi noia montante fino ad abbandonare ripetutamente la lettura.
Su questo libro sono stati versati fiumi d’inchiostro, ne hanno scritto tutti nella quasi totalità dei casi esaltandolo, facendone emergere le tragedie e i profondi risvolti psicologici; basta scorrere i commenti dei lettori su siti come amazon o ibs per notare come nella maggior parte dei casi i lettori abbiano dato stura al proprio estro creativo per sviscerare gli aspetti più intriganti delle intenzioni di Roth scrivendo non semplici recensioni, ma veri e propri romanzi per analizzarlo negli angoli più reconditi, e finendo con l’annoiare molto di più del romanzo stesso.
Mi dispiace, sinceramente, io non gliel’ho fatta. Ho superato il momento della vita in cui uno si impone per forza di terminare assolutamente i libri che inizia. Ora se uno scritto mi annoia lo pianto subito. Non vale più la pena perdere tempo con ciò che ti annoia.
Ripeto: mi dispiace, perché mi piace la scrittura di Roth e ho già avuto modo di apprezzarla, per esempio qui, ma sentir parlare per pagine e pagine di baseball, football, cibi americani o condizioni sociali degli ebrei negli Stati Uniti non fa proprio parte del mio DNA.
Passo.
Il Lettore 

mercoledì 10 ottobre 2018

Il sole dei morenti


Libro consigliatomi da un amico dicendomi che lo rilegge almeno una volta all’anno.
Ad un’affermazione così io non so resistere: me lo sono fatto cercare subito dal mio hacker di fiducia e il giorno dopo avevo almeno sei o sette romanzi di Jean Claude Izzo sul mio e-reader, compreso questo Il sole dei morenti.
Ma poi ci sono rimasto male: l’amico non mi aveva precisato come il romanzo fosse di una tristezza infinita. Bello, sì, ma proprio quel che occorrerebbe ad una persona depressa per decidersi a saltare l’ultimo gradino.



Rico è un clochard che vive a Parigi. Un barbone, un homeless, un senzatetto che vive di quello che trova tra i bidoni della spazzatura e dorme dove capita. Quando il suo amico Titì muore di freddo, Rico decide che Parigi non fa più per lui e decide di andare a Marsiglia in cerca di un po’ di sole.
In realtà il narratore interno alla storia è Abdou, un adolescente algerino con il viso sfregiato da ustioni che vagabonda per Marsiglia insieme al suo amico Zineb, ma questo si scopre solo a tre quarti del romanzo, quando Rico è già arrivato a Marsiglia dopo diverse vicissitudini. È Abdou che racconta di Rico e di ciò che ha passato, del perché si è ridotto a vivere per strada dopo essere stato abbandonato dalla moglie e aver perso il lavoro, e di tutto ciò che gli è successo a corollario, dalla sequela di incontri con le persone sbagliate ai pochissimi che lo trattano con un minimo di quel rispetto che è dovuto a qualsiasi uomo di qualsivoglia estrazione sociale.
Sai, il fatto che... Vivi tranquillo, con tua moglie, tuo figlio. E poi un bel giorno tua moglie ti abbandona. Ti ritrovi da solo. Credi che sia la fine del mondo, eccetera...”
Le vicende dei protagonisti si dipanano con uno stile molto asciutto, crudo, senza concessioni ad abbellimenti di qualsiasi tipo, il che lo rende un romanzo molto veloce da leggere.
Mi fermo qui. Non voglio cadere nella retorica finendo col parlare del fenomeno sociale dei senzatetto in generale, perché in fondo il libro non è altro che un’incitazione a vederli come esseri umani, magari più sfortunati di altri e con più occasioni di altri di trovarsi ad avere a che fare con persone e situazioni molto poco politicamente corrette, per usare un eufemismo, ma la cosa tragica è che potrebbe capitare a tutti, prima o poi, se si è sfortunati, di arrivare a trovarsi nelle stesse condizioni dei protagonisti, ed è proprio per questo che se uno ci pensa, arriva anche a commuoversi, per i destini infelici che l’autore riserva loro.
Mi ripeto: buon libro, scritto bene, ma tristissimo e dall’argomento toccante. Capisco anche come possa essere di ispirazione per una riflessione più approfondita, ma forse anche proprio perché ne sono stato toccato, personalmente non lo rileggerei di nuovo.
Il Lettore 



giovedì 4 ottobre 2018

Il fosso bianco


Al termine della sua “scappata” a Perugia, Massimo Bertarelli mi ha fatto dono di una copia del suo primo romanzo pubblicato, Il fosso bianco, appunto, edito ancora prima di Mi chiamo Ugo e che per ovvi motivi non avevo ancora letto.
Nel regalarmelo ha tenuto ad avvertirmi che non l’avrei trovato allo stesso livello degli altri, quasi a giustificarsi in anticipo per quello che di negativo avrei potuto scriverci sopra in questo blog.
Tranquillo, Massimo, anche se dovessi stroncarlo ti voglio bene lo stesso. Ma, nel caso, tu manterrai ancora la stima che provi per me?



Che poi in effetti non merita proprio di essere stroncato, anche se devo ammettere in tutta sincerità che non mi è piaciuto del tutto come i successivi, non mi ha soddisfatto in pieno.
Purtroppo su queste pagine non posso nemmeno specificarne il perché, dal momento che equivarrebbe a rivelarne il finale, e sapete che io ho sempre evitato di fare degli spoiler. Dirò solo, in generale, che l’appunto principale riguarda l’ultima sezione, che mi è sembrata un po’ troppo affrettata, non preparata a sufficienza nella linea temporale del romanzo, in qualche maniera avrebbe dovuto essere anticipata. Magari con qualche metonimìa nelle prime pagine.
Inoltre (dico subito tutte le cose negative che ci ho trovato così posso passare a quelle positive), un’altra cosa che ho trovato di non mio gradimento è stata l’inneggiare alle bellezze di una zona della Toscana (ed altro) con un tono un po’ troppo entusiastico, che in un romanzo risulta sempre sopra le righe. D’altra parte è assolutamente vero, lo confermo, ma si sente che l’autore nello scrivere si è lasciato trascinare dall’esaltazione che quei luoghi gli avevano innescato dentro. Parere del tutto soggettivo: personalmente sono più portato per un understatement britannico che per l’eccitazione propria di noi italiani.
Basta con le critiche. Per il resto ho ritrovato lo stile pulito del Bertarelli che già conoscevo: una scrittura semplice, chiara ed esaustiva pienamente godibile, magari condita da qualche piccola ingenuità dovuta all’inesperienza dello scrittore al primo tentativo di romanzo lungo, ingenuità che nelle sue opere posteriori non si ritrovano più. In questo campo più che in altri l’esperienza acquisita man mano è di fondamentale importanza.
Posso anche dire che in qualche punto mi ha perfino commosso, il ché è tutto dire.
Aspettiamo il prossimo!
Il Lettore 



lunedì 1 ottobre 2018

«Sta scherzando Mr. Feynman!»


Richard Phillips Feynman è stato un celebre fisico deceduto nel 1988. Ha fatto parte del progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, ha conseguito il Premio Nobel per la Fisica nel 1965 per l'elaborazione dell'elettrodinamica quantistica e in seguito è diventato un esperto di nanotecnologie.
Sicuramente un grande fisico.
Come scrittore è meglio che lasciamo perdere.



Mi sono imbattuto in questo libro dal sottotitolo Vita e avventure di uno scienziato curioso per caso, girellando in rete, e visto che era gratis l’ho scaricato subito perché avrebbe potuto interessarmi. Per richiamarmi avevano anche scritto che era divertentissimo, e desiderando leggere un libro divertente non me lo sono lasciato sfuggire. Purtroppo non ha soddisfatto le attese.
Un libro veramente brutto, che si capisce benissimo perché lo diano via gratis.
Sarò obiettivo: in realtà il libro non sarebbe neanche di Feynman, perché non è altro che un resoconto delle chiacchierate intercorse tra lui e l’amico Ralph Leighton, suo compagno di performance percussionistiche. Quindi la scrittura sarebbe opera di questo Leighton, che non avrebbe fatto altro che scrivere attingendo ai ricordi (o forse sotto dettatura da un registratore).
E questo si sente.
In queste chiacchierate (con un solo oratore) Feynman parla di se stesso, dall’infanzia all’età adulta, raccontando aneddoti, situazioni di vita e del suo amore per la scienza e la tecnica che lo ha portato ad essere un fisico da premio Nobel. Roba terra terra che tutti sono passati per qualche situazione simile a quelle riportate. Magari farci la chiacchierata sarà stato anche piacevole, ma narrarle ad altri non ha raggiunto proprio lo scopo desiderato. Per di più molte di quelle vicende sono anche raccontate male. Insieme ad episodi che lasciano il tempo che trovano, oltre alla banalità, addirittura qualche volta non si capisce del tutto la situazione e rimangono una miriade di dubbi irrisolti.
Da un premio Nobel che era a Princeton insieme ad Albert Einstein e ha fatto parte con Julius Robert Oppenheimer del gruppetto di Los Alamos, mi sarei aspettato qualcosina di più anche in campo letterario.
Magari sarà stato anche una persona divertentissima, non lo metto in dubbio, ma di sicuro né Mr. Feynman né il suo amico erano questi gran narratori.
Va be’, pazienza, passiamo oltre.
Il Lettore



venerdì 28 settembre 2018

Una cosa divertente che non farò mai più


In tutta la mia vita non ho mai desiderato, nemmeno per un secondo, di andare in vacanza in crociera. Così come non mi ha mai attirato andare a passare le vacanze in un villaggio turistico. Già non trovo divertenti le notti in traghetto, e pensare di stare rinchiuso su una nave per una settimana, circondato da gente frenetica che non fa altro che invitarti a divertirti, è proprio fuori dalle mie corde. Dovessi andarci per lavoro mi potrebbe anche interessare, ma per mia sfortuna sono laureato in vulcanologia, non in geologia marina.
E David Foster Wallace probabilmente era sullo stesso tipo di corde, anche se mi sembra azzardato ritenere che quella crociera possa essere stato uno dei motivi per cui tredici anni dopo l’esperienza ha detto basta, stop, fatemi scendere definitivamente da questa nave che sono saturo.



Una cosa divertente che non farò mai più è il resoconto appunto di una settimana in crociera ai Caraibi che all’autore hanno pagato perché lui ne scrivesse il reportage (la rivista Harper’s, tanto per completezza).
E lui si è “goduto” la vacanza senza spendere un dollaro e poi lo ha scritto. Questo libro dunque è un saggio, il racconto di una settimana su una nave di lusso dall’imbarco all’approdo definitivo.
Anche se magari dubito che il risultato possa aver soddisfatto del tutto i suoi committenti. Forse secondo loro il resoconto avrebbe dovuto essere accattivante, magari avrebbe dovuto invogliare altri possibili crocieristi, non far passare del tutto la voglia di salire su una nave di lusso.
E sì che lui ne ha parlato anche bene.
Con il suo stile di scrittura chiaro e lucido, Foster Wallace ha analizzato il mondo delle super crociere di lusso: dalla pubblicità che ti invoglia a farne una al lusso più sfrenato; dall’equipaggio che cerca di viziarti in ogni modo possibile agli ultimi ritrovati tecnologici di cui è dotata la nave; dalla scelta tra gli infiniti divertimenti che sono disponibili a bordo della nave ai cibi più squisiti; dall’estremo nitore di cui sei circondato al materiale umano che affolla i porti di approdo, passando per la bellezza dei Caraibi, la “sconfinata distesa di lapislazzuli del cielo”, e tutte le altre amenità che dovrebbero (!) farti stare meglio di come tu ti sia mai sentito prima. 
Ci ha provato, ha descritto tutto e anche in modo molto positivo e divertente, ma la sensazione di fondo che ne è scaturita è quella che se fosse restato a casa sarebbe stato molto meglio. A me piace, quando uno è capace di usare il sarcasmo. Una cosa invece fastidiosa della scrittura di Foster Wallace, peraltro ampiamente soddisfacente per l’azzeccato uso di concatenazioni, subordinate e incisi che rendono i periodi lunghissimi ma comunque chiari, è il massiccio uso di note a fondo pagina, per meglio dire a fondo capitolo, che, se è abbastanza agevole leggerle in un libro di carta, non lo è altrettanto in un e-book.
Vi riporto una frase tratta dall’ultimo capitolo, che mi è sembrata ottima come compendio di ciò che ne ha pensato l’acuto gitante: “Qui viene alla luce un tratto essenziale delle crociere extralusso: si viene intrattenuti da qualcuno a cui state chiaramente antipatici e si ha la sensazione di meritare l’antipatia nel momento stesso in cui ci si sente offesi.
Il Lettore a cui piace Foster Wallace e che non andrà mai a spassarsela in crociera



martedì 25 settembre 2018

A tu per tu con l’autore


Dopo lunghe discussioni (!) e trattative estenuanti (!!), sabato pomeriggio, alla Biblioteca delle Nuvole, siamo riusciti a presentare i romanzi di Massimo Bertarelli, con l’autore stesso che ci ha onorato della sua presenza in carne ed ossa.
Non è stato facile, perché organizzare la trasferta di uno scrittore ormai affermato dalla settentrionale e lontanissima Monza a una decisamente provinciale cittadina del centro (che per tutti i nordici è comunque profondo sud), ha implicato il mettere in campo doti non comuni di savoir faire diplomatico e capacità relazionali proprie di un manager di multinazionale.
Il problema più grande è stato decidere chi avrebbe saldato il conto della cena conviviale.
Per non apparire scortesi abbiamo lasciato che pagasse tutto lui, l’ospite.
Non sia mai detto che qui al sud asfissiamo quelli che ci vengono a trovare rendendoci troppo invadenti.



A parte gli scherzi è stata una piacevole serata in compagnia di un autore dall’aria seria ma in realtà simpatico e alla mano, che ha parlato in modo interessante delle sue esperienze e del suo percorso letterario. Partendo come spunto dal suo romanzo che ci ha dato modo di entrare in contatto (vedere qui), abbiamo parlato dei suoi romanzi: da Mi chiamo Ugo (qui) a Mi chiamo Simone (qui), le cui copertine sono opera del mitico Claudio Ferracci, e di quel Giallo d’Ischia (qui) che ha fatto conoscere Massimo Bertarelli anche molto più a sud del centro Italia.
Esagerando un pochino ho fatto notare come Massimo stia quasi raggiungendo la notorietà di un Maurizio De Giovanni. Schernendosi, lui ha tenuto a precisare come ancora non sia proprio così, ma in ogni caso gli auguro che ciò avvenga presto.
È stato molto coinvolgente quando ci ha raccontato delle sue esperienze di conduttore di lezioni di scrittura con i reclusi del carcere di Monza, con le quali ha portato alla luce situazioni umane del tutto differenti da quelle davanti alle quali mi trovo io con allievi “normali”, del tutto liberi e non rinchiusi in prigione.
Un pomeriggio piacevole e interessante; più che una presentazione di libri una chiacchierata informale sui problemi della scrittura che mi auguro possa ripetersi presto con nuovi autori e diverse esperienze.
Lo Scrittore