mercoledì 24 ottobre 2018

La scopa del sistema


Mi ci è voluto parecchio anche per leggere questo romanzo, ma la cosa che alla fine viene da dire è: geniale.
È il primo attributo che mi viene in mente dopo aver letto questo libro. Bisogna essere proprio un genio per scrivere un romanzo del genere. A una persona normale le cose di cui tratta non verrebbero in mente.
Romanzo stranissimo ai limiti dell’assurdo, La scopa del sistema è il primo romanzo di David Foster Wallace, scritto quando l’autore aveva solo 24 anni e che lo ha proiettato immediatamente ai vertici della letteratura statunitense, facendolo diventare un esponente di spicco della corrente letteraria avantpop. Il romanzo successivo, Infinite Jest, lo ha consacrato il personaggio più promettente nella letteratura americana della sua generazione.
Dopodiché si è suicidato. Finiti i giochi.



In Questo romanzo si passa da deserti neri creati artificialmente a pappagallini parlanti che diventano star televisive a nonne cultrici di Wittgenstein che scompaiono improvvisamente dall’ospizio in cui dovrebbero essere confinate, transitando per innamoramenti folli e una miriade di personaggi uno più strano dell’altro di molti dei quali ammetto sinceramente di non aver neanche capito bene la funzione e il perché del loro inserimento.
Comunque l’aspetto che mi ha colpito di più nel romanzo è quello dei dialoghi: finora di David Foster Wallace avevo letto solo saggi senza “parlato” che mi avevano colpito per lo stile e l’acume con cui aveva trattato argomenti tra i più svariati, dalla letteratura alla filosofia al tennis alla critica cinematografica, ma in effetti è proprio nella stesura dei dialoghi tra due o più persone che è risultato eccellere, non risultando mai banale e scontato e dando modo anche di intuire le esitazioni, le ripetizioni e i momentanei controsensi di una chiacchierata “vera”. Dovrò portarlo ad esempio di come si scrive un dialogo, insieme a Ernest Hemingway e Ed McBain, nei miei corsi di scrittura.
Ma non solo: anche il cambiare stile e forma letteraria nei diversi capitoli, che richiede molta attenzione al lettore per restare al passo, alla fine risulta gratificante (e non solo per essere riusciti a capire il tutto).
Vi fornisco un esempio della sua scrittura in un brano quasi “normale”, tanto per far capire come anche in un semplice passaggio descrittivo ci si trovi di fronte a uno scrittore che tanto normale non era: “L’improvviso impeto con cui il desiderio di andare a vedere se le iniziali da me incise piú di vent’anni prima nello sportello di uno dei gabinetti nel bagno dell’Art Building fossero ancora lí, l’improvviso e inatteso e irresistibile impeto che mi aveva pervaso con tanta urgenza appena sceso dal taxi, davanti al dormitorio, con Lenore, era una cosa agghiacciante. Raggiunta che ebbi la serpentina di studenti che si snodava su per il tutt’altro che mite pendio volto all’Art & Science Building, essi e io parimenti impegnati nello sgraziato e fochesco passo di chi si inerpichi di buona lena su per un tutt’altro che mite pendio, con la maggior parte di noi foche evidentemente in ritardo per la lezione, e con una di noi in ritardo per l’appuntamento con un circoscritto oceano di proprio passato, oceano disteso e scrosciante accanto al graffitato pontile della sua infanzia e nel quale detta particolare foca era in procinto di mescere un intenso (sperabilmente non bi- né poliforcuto) fiotto della propria presenza, per dar prova di essere ancora, e quindi d’essere stata – ammesso, ovviamente, che i bagni fossero ancora lí –, raggiunta che ebbi la fila di foche in pantaloni corti e camicia a maniche corte e scarpe da barca e zainetti, e mentre sentivo la paura che accompagnava la e in parte dipendeva dalla intensità di sensazioni e desideri e via di seguito che a loro volta accompagnavano persino il pensiero di uno stupido gabinetto in uno stupido edificio di uno stupido college dove uno stupido ragazzo triste aveva trascorso quattro anni vent’anni prima, mentre sentivo tutte queste cose, dunque, mi venne in mente un fatto sul quale rifletto adesso che mi trovo seduto sul letto della nostra stanza d’albergo, a scrivere, con la televisione accesa a volume basso e con l’aguzzocrinito oggetto della mia adorazione nonché centro assoluto della mia intera esistenza assopito e lievemente russante accanto a me sul letto, un fatto della cui inconfutabile verità sono ormai persuaso, e cioè che l’Amherst College nel 1960 sia stato per me un divoratore del midollo emotivo, un edificatore di canyon psichici, un istigatore del pendolo dell’Indole tramite la spranga dell’Eccesso.”
Notare la precisione di assemblaggio, le invenzioni, i neologismi, lo sciabordante profluvio di congiunzioni, le parole composte e le assurdità all’interno di un discorso dalla sintassi perfettamente costruita oltre che chilometrica, con subordinate a ripetizione ma perfettamente concatenate tra loro tramite una punteggiatura perfetta. Trovo che un modo di scrivere così sia estremamente affascinante, anche se magari un po’ ostico da comprendere appieno.
 Magari questo romanzo non mi è piaciuto del tutto (forse proprio per la sua assurdità, forse perché io non sono abbastanza geniale per comprenderlo appieno), ma l’ho trovato molto intrigante. In questo momento non me la sento di affrontare le mille e passa pagine di Infinite Jest, ma qualcos’altro di questo Autore rileggerò senz’altro a breve.
Il Lettore 




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