lunedì 30 marzo 2015

Corsa contro il tempo

Questo di Karin Slaughter è sicuramente uno dei thriller più corti che io abbia mai letto. Appena una novantina di pagine, poco più di un’oretta di lettura, un racconto lungo piuttosto che un romanzo breve. Ma la brevità non ne inficia il valore, perché in effetti la Slaughter dice tutto quello che c’è da dire sulla vicenda che ha inteso raccontare e lo fa con uno stile dotato di una velocità al cardiopalma che per tutta quell’oretta non ti permette di staccarti dalle pagine.




Thriller corto, recensione corta.
Un poliziotto di servizio nell’aeroporto di Atlanta, il più trafficato del mondo, “sente” che in una coppia formata da un uomo e da una bambina c’è qualcosa che non va. Il poliziotto arriva a sospettare che sia in atto un rapimento, e quando i fatti gli danno ragione si innesca una concatenazione di eventi che non danno respiro per cercare di ritrovare la bambina che nel frattempo è scomparsa.  
Una buona lettura, dal ritmo serrato, dotata di una considerevole tensione narrativa costituita per la maggior parte dalle pure e semplici metodologie di indagine messe in campo dalle forze dell’ordine per rintracciare la bambina scomparsa, completate da un pizzico di psicologia e dalle problematiche connesse con le organizzazioni che alimentano la pedofilia. E poi… ma sì, ve lo rivelo, una volta tanto un thriller che va a finire bene.
Basta, non credo che ci sia bisogno di dire altro. Perlomeno con questo prestito un’amica si è riscattata dai precedenti indirizzamenti…
Il Lettore 

sabato 28 marzo 2015

Torrenti di primavera

Passo davanti alla mia libreria tutti i giorni. Più volte al giorno. Trascorro in casa la gran parte del mio tempo, circondato dalla mia libreria, ed è inevitabile che io ci transiti davanti ogniqualvolta mi alzo dalla sedia per andare in qualsiasi altro luogo. Quando sono seduto davanti al computer volto le spalle allo scaffale in cui sono riposti i libri di e su Ernest Hemingway. Tutti insieme occupano esattamente 78 centimetri di scaffale.
Sopra di essi trovano collocazione Tom Clancy e Frederick Forsyth (142 centimetri per 39 volumi, non sindachiamo sui rispettivi valori); sotto, un termosifone inutilizzato al quale fa da tetto una mensola in arenaria grigia sotterrata dalle cianfrusaglie. Quando vado verso la cucina non posso fare a meno di trovarmi Hemingway all’altezza degli occhi. Quante volte al giorno? Trenta? Quaranta? E non ci faccio mai caso: è lì, lo so, un dato di fatto, uno di quegli elementi che conferiscono stabilità alla vita. È lì; c’è tutto l’Hemingway pubblicato in italiano, compresi i romanzi postumi, comprese tre o quattro biografie, un volume fotografico, le poesie, gli articoli pubblicati sui giornali, le lettere private, tre o quattro testi di critica hemingwayana e altrettanti romanzi in lingua originale (se vi interessasse, sono 34 libri in tutto).
Ho letto l’intera collezione almeno tre decine di anni fa.
Ma d’un tratto…
È come il quadro appeso alla parete che d’improvviso si stacca, chiodo e tutto, e precipita fracassandosi a terra senza che nulla abbia potuto far presagire che ciò accadesse. Perché? Perché proprio in quel momento e non in un altro? Perché in quel momento, e non in un altro dei tanti, lo sguardo mi si è appigliato sulla costa di questo Torrenti di primavera (stretto tra Verdi colline d’Africa e l’edizione economica Bantam di The old man and the sea), e mi è presa l’irrefrenabile voglia di afferrarlo e rileggerlo? Solo perché ci ho fatto mente locale? Perché in una frazione di attimo ho letto il titolo e ho realizzato di non ricordarne il contenuto? Per riassaporare lo stile di quello che è stato uno dei caposaldi della mia giovinezza?
Fatto sta che l’ho preso, e l’ho riletto, e lo stile di Hemingway mi ha fornito lo stesso piacere di un tempo. Dopo le stroncature degli ultimi post, era ora che rileggessi qualcosa di piacevole. La cosa preoccupante è che davvero non mi ricordavo di cosa trattasse questo libretto.




Una volta Hemingway disse a Fernanda Pivano che il suo problema più grosso era stato quello di liberarsi dell’influsso di Sherwood Anderson. Tra le varie cose che Hemingway ha fatto per esorcizzare quella spada di Damocle della sua scrittura c’è anche questo romanzo breve, scritto in dieci giorni per puro divertimento (scrive romanzi brevi per divertimento Alessandro Baricco, non avrebbe dovuto farlo il nostro Ernest?), un esercizio intellettuale con una leggera carica ironica che satireggia il famoso Riso nero di Anderson sul quale Hemingway nel corso della narrazione scherza più volte: “Dietro il banco Bruce, il barista negro, piegato in avanti, era stato a osservare le conchiglie passare di mano in mano. La sua faccia scura luccicava. D’un tratto, senza preavviso, ruppe in un’acuta, incontrollabile risata. Il riso nero del negro”.
Tipico esempio di divertimento d’autore, unito alle frequenti Note d’Autore avulse dalla narrazione delle quali il racconto è costellato. È E.H. stesso a dirci che il testo è stato scritto in appena dieci giorni, che una parte è meglio di un’altra, che il capitolo che ci stiamo apprestando a leggere è più veloce del precedente, che ha scritto quel determinato capitolo dopo un piacevole pranzo insieme a John Dos Passos, che lo stesso Sherwood Anderson lo è passato a trovare in un pomeriggio di ozio; e come al solito non si risparmia le frecciatine sarcastiche su Francis Scott Fitzgerald e i commenti quasi riverenti sull’amica Gertrude Stein.
La trama quasi paradossale (è o non è un divertimento?) tira in ballo le esistenze di povera gente, un’umanità derelitta ma sempre speranzosa in un futuro migliore, che si muove quasi a caso nei gelidi stati del nord degli USA subito dopo il termine della Prima Guerra Mondiale. Svolgendo i dialoghi tra ex-combattenti, “papà” Hemingway ne approfitta per lanciare una delle prime fra le tante condanne che ha scritto nei confronti della guerra e delle sue atrocità, tre anni prima della pubblicazione di Addio alle armi e quattordici prima di Per chi suona la campana.
Lo stile preconizza la ricerca per la quale E.H. diverrà famoso: periodi brevi e staccati, molti dei quali del tutto senza verbi, che velocizzano la lettura e forniscono istantanee di situazioni determinanti; dialoghi estremamente realistici; libere intromissioni autoriali e brevi flussi di coscienza dei personaggi di volta in volta in primo piano; senza considerare i commenti ad autori e opere letterarie come continuerà a fare in Verdi colline d’Africa.
E fa parte del divertimento l’inserire spesso dei “tormentoni” ricorrenti come: “Fuori, attraverso la finestra, giunse l’eco di un grido di guerra indiano”, che non ha alcuna attinenza con la trama del libro né anticipa un qualche avvenimento: sta lì, senti questo lontano grido di guerra indiano alla fine di quasi ogni capitolo e poi resta lettera morta, un inserimento il cui scopo è solo quello di creare un’atmosfera.
Non credo che perlomeno a breve mi riprenderà la voglia di rileggere altri romanzi del nostro. Gli altri me li ricordo ancora. A volte penso che ho letto Hemingway troppo presto: anche questo autore è uno di quelli che bisognerebbe leggere con più esperienza sopra le spalle, per poterne apprezzare meglio le tante sfaccettature. Ma se cercate un esempio di stile da maestro, se state cercando di costruire un dialogo che regga, allora riprendete in mano uno dei suoi romanzi, uno a caso, mettetevi a leggere, e imparate.
Il Lettore & lo Scrittore 

giovedì 26 marzo 2015

Fattacci

“A tutti può toccare in sorte di dar credito a un assassino insospettabile, specie se ci somiglia. Solo il caso non ce lo fa incontrare.”
Questa citazione l’ho tratta dalla prefazione a questo Fattacci scritta dallo stesso Vincenzo Cerami. È un’affermazione profondamente vera, che spiega come nella maggior parte dei casi la tranquillità della nostra esistenza su questa terra dipenda in gran parte dalla fortuna. È la fortuna che ci fa incontrare un bravo medico invece di uno scalzacani, un bravo insegnante invece che uno scaldasedie, la fortuna che non ci mette “per caso” sul percorso di qualche delinquente dall’apparenza angelica.
Ritengo che ciò fosse dovuto al fatto che tutti gli esseri umani che incontriamo sono una mescolanza di bene e di male.”
Quest’altra invece è di Robert Louis Stevenson e si riferisce ai suoi Jekill e Hyde.
Ecco fatto, vi ho riportato i due concetti più importanti di questo libro. Fate pure conto di averlo letto e ringraziate (prego!): vi ho evitato una lettura che non merita. A meno che…




A meno che non facciate parte della schiera di persone ottuse che si lasciano affascinare dai rivoltamenti nel torbido; quelle che si fermano a guardare il morto quando si imbattono in un incidente stradale, quelle che spulciano le migliaia di articoli che i quotidiani pubblicano su ogni fatto di sangue per giorni e giorni dopo che è successo; quelle che vanno a visitare le macerie dopo un terremoto neanche fossero in gita turistica; quelle che si emozionano quando nelle locandine compaiono titoli come “squartato…”, “massacrato…” e  corrono subito a comprare il giornale.
Quando al direttore di un quotidiano locale (e vecchio amico) ho fatto notare che mi ero un po’ rotto i coglioni di leggere ogni mattina nelle locandine, per mesi e mesi e mesi, aggiornamenti inutili conditi di parolone ad effetto su un delitto famoso avvenuto in città, lui mi ha risposto lapidario: “Ma così vendiamo…”. E come puoi controbattere. Ha del tutto ragione. Casomai ci sarebbe da prendersela con quelli che ho descritto nel paragrafo precedente.
E sì che Vincenzo Cerami era riuscito ad emozionarmi con il suo Un borghese piccolo piccolo e diversi anni fa avevo studiato i Consigli a un giovane scrittore come fosse un vero e proprio libro di testo,  ma con questa pubblicazione ha toppato alla grande, tanto da far pensare che la riedizione in formato libro degli articoli da lui scritti per un giornale non sia stata altro che una semplice operazione commerciale per tirare su un po’ di quattrini sfruttando la morbosità malata della gente dappoco.
In pratica Cerami esplora nei più minimi particolari quattro delitti avvenuti qualche anno fa che hanno avuto rilevanza nazionale, e ne illustra fatti e motivazioni da prima del momento dell’accaduto fino a molto dopo. Con l’intenzione dichiarata (nella prefazione) di mostrare a tutti quanto l’essere umano può trasformarsi in una bestia.
Ho piantato il libro a metà della descrizione del secondo delitto, veramente stufo di tutti questi approfondimenti in fatti di sangue che bisognerebbe solo prendere a esempio e quindi dimenticare il prima possibile, non continuare a rimestarci dentro. Alla ricerca di che? Qualsiasi persona dotata di un minimo di intelligenza si rende conto di quanto l’uomo può essere malvagio.
Oltretutto lo stile, costituito da continui flashbacks e forwards (cioè salti avanti e indietro nel tempo) e da reiterate ripetizioni degli stessi concetti (sì, ho capito, gli ha tagliato l’uccello quando ancora era vivo e glielo ha infilato in bocca, gli ha tagliato le dita e gliele ha messe nel culo, basta, non c’è bisogno di ripeterlo quattro volte…) dopo poco mi ha veramente infastidito, per non dire nauseato. Da Cerami non me lo sarei proprio aspettato.
Sarò di stomaco debole? No, è che c’è un limite a tutto: queste cose lasciamole a chi deve giudicarle, poveracci anche loro; cerchiamo di non sguazzare nella merda, eleviamoci, e preghiamo che il caso non ci ponga mai su una di queste strade.
Il Lettore (sempre più insoddisfatto) 

martedì 24 marzo 2015

L’uomo di neve

Nel corso di una conversazione con un’amica era venuto fuori che a lei piaceva molto questo Jo Nesbø, del quale avevo sentito parlare ma non avevo mai letto nulla di suo. Sapevo che aveva scritto una serie di thriller che avevano riscosso un certo successo e questo, insieme alla curiosità scatenata in me dai commenti della mia amica (non so resistere quando mi consigliano un autore, è più forte di me…), mi ha portato ad accattare il primo Nesbø che mi è capitato sotto mano.


Tra i problemi grossi dei romanzi scandinavi, come mi pare di avere già scritto da qualche altra parte, ci sono questi cazzo di nomi propri che non riesci né a leggere né tantomeno a farti entrare nella memoria sia pure a breve termine: Kvinesland, Ottersen, Borghild, Trygve, Ǿistein, Seilduksgata, Lossius, Nesoddtangen, e fai una fatica bestia sia a pronunciarli fra te e te che a ricordare che ruolo abbiano all’interno della narrazione o se siano il nome di un personaggio o di una città. Ma quel furbino dell’autore, che con tutta probabilità è a conoscenza di questa difficoltà che affligge i non-norvegesi, al protagonista seriale dei suoi romanzi ha messo un nome inglese: Harry Hole, semplice, corto e facile da ricordare. Chiamalo stupido.
Questo L’uomo di neve è costruito più con la tecnica che con il cuore, sulla falsa riga di un maestro del “sopra le righe” come Jeffrey Deaver. Il protagonista è studiato a tavolino: un poliziotto che spicca per intelligenza, prestanza fisica e interesse, ma è notevolmente sfigato e con un mucchio di problemi personali che non hanno altro scopo che intenerire il lettore e renderlo partecipe delle angosce di Harry Hole, per farlo affezionare a lui e quindi fargli comprare tutta la serie di romanzi.
L’antagonista di Harry è un serial killer intelligentissimo, di una crudeltà veramente fuori dal comune, un genio che non si fa mai vedere, che è sempre nel posto giusto al momento giusto, sempre un passo avanti a tutti altri; è straordinario come risulti sempre invisibile ma riesca ogni volta a costruire dei pupazzi di neve nei luoghi dei suoi delitti senza lasciare la minima traccia e senza essere visto da nessuno. Non è solo un efferato assassino, è Mandrake stesso.
Che poi con tutta questa genialità alla fine lo beccano comunque.
Questo gruppo di autori scandinavi che si sono dedicati al thriller, e che da qualche anno stanno scalando le vette delle classifiche librarie, sembra abbiano studiato a fondo le tecniche messe a punto dai giallisti americani più esagerati e meno credibili: delitti perpetrati nei modi più orribili e immaginifici, continui colpi di scena, reiterate apparizioni di indizi fuorvianti, individuazione di colpevoli che non si rivelano tali, insistente inserimento di brevi scene colme di atmosfere preoccupanti indirizzate a far lievitare nel lettore uno stato di angoscia (un po’ come nei film di Alfred Hitchcock, quando si apre lentamente la porta accompagnata da una musichetta subdola, tu ti aspetti la comparsa dell’assassino e invece entra il gatto), crescendo di tensione e apoteosi finale. Senza dimenticare l’inclusione qua e là di brevi pizzichi di situazioni erotiche che non ci stanno mai male.
Jo Nesbø riesce abbastanza bene ad amalgamare tutto ciò, sicuramente meglio di quella docente di narcolessia che è Camilla Läckberg, e costruisce un romanzo tutto sommato leggibile, ma alla fine la sensazione è quella che abbia veramente esagerato nei toni e nelle motivazioni relegando la plausibilità della storia tra le cose per lui meno importanti. D’accordo fare colpo, ma quando è troppo è troppo. Peccato che non possa scendere nei particolari, avrei voluto raccontarvi la scena finale del romanzo per farvi capire a quali vette di esagerazione è asceso l’autore: proprio non sta né in cielo né in terra, né è minimamente credibile da un punto di vista realistico.
A parte il fatto che, ad onta delle reiterate false piste o forse proprio per questo, già da prima della metà del romanzo avevo capito chi tra i personaggi fosse il serial killer.
Vabbè. Laura, non te ne dispiacere, ma il consiglio di lettura che mi hai elargito non mi è piaciuto proprio. Ritenta ancora, forse sarò più fortunato…
Il Lettore (ancora una volta insoddisfatto)

domenica 22 marzo 2015

Lo Squizzalibro di domenica 22 marzo

Sarò breve: sperando che non piova, voglio andare a cercare un po’ degli asparagi che l’altro giorno sono cominciati a spuntare timidi e infreddoliti alle quote più basse.
Buon divertimento.




1 – Oggi abbiamo a che fare con un thriller.
2 – Nonostante ci siamo lasciati l’inverno alle spalle il romanzo ha a che fare con la neve e con i giochi per bambini ai quali essa si presta.
3 – La trama è originale: c’è il solito serial killer dall’intelligenza fuori dal comune che ammazza fantasiosamente un po’ di madri di famiglia e alla fine viene beccato dal poliziotto più in gamba di lui (originale???).
4 – Anche il poliziotto è seriale, nel senso che è il protagonista di diversi romanzi dello stesso autore.
5 – Autore che è uomo, e scandinavo, ed è diventato famoso in tutto il mondo più per i suoi romanzi che per le sue attitudini musicali. Bah, vi ho detto anche troppo.
Presto che è tardi, asparagi arrivo!
Freereader

venerdì 20 marzo 2015

Sold out – Tutto venduto

Non so nemmeno io come mai sono riuscito ad arrivare in fondo a questo romanzo di Roberto Baravalle, dal momento che sono stato sul punto di abbandonarlo parecchie volte, ma pur soffrendo ogni volta mi sono detto ma no, via, voglio vedere come va a finire, ancora un paio di pagine… ancora altre due…




Il fatto è che ero rimasto incuriosito dal plot intrigante: un commerciantucolo di mezza tacca si imbatte quasi per caso in due tele originali di Jackson Pollock che il pittore aveva dipinto in preda ad un raptus nel corso di una sua permanenza sulla riviera ligure, e delle quali l’ignaro proprietario ignora del tutto il valore reale (notare che più che un’allitterazione è un vero e proprio anagramma…). Il faccendone riesce quindi ad acquistare i due quadri per una cretinata, e da qui parte il suo tentativo di riuscire a guadagnarci sopra i miliardi (in lire) che esse valgono a tutti gli effetti.
Ma il mercato internazionale dell’arte figurativa è simile a una jungla popolata per lo più da predatori al cui confronto un coccodrillo è un animaletto da compagnia, e il povero e sfigato mercante si trova di fronte squali navigati e spietati sicari, per non parlare della mafia e delle forze dell’ordine.
In effetti le premesse per far nascere un thriller, come è stato pubblicizzato quando è uscito qualche anno fa, c’erano tutte e ne poteva anche derivare un bel romanzo, ma così non è stato.
Il fatto è che Roberto Baravalle si perde in una miriade di rivoli accessori alla narrazione principale che annoiano e distraggono, oltre che in una serie di piccole sviste tecniche delle quali ti accorgi a poco a poco e che tutte insieme contribuiscono a farti perdere l’interesse.
I personaggi: in un primo momento il romanzo sembra avere un protagonista al quale il lettore non riesce ad affezionarsi, poi diventa chiaro che i protagonisti sono più di uno, anzi, parecchi, anzi, decisamente troppi. Fino ad oltre metà libro continuano ad entrare in scena nuovi personaggi l’ultimo dei quali compare a pag. 175 delle 200 complessive. Alcuni di questi personaggi vengono approfonditi e altri no, senza che di questo sia fornita una ragione utile ai fini della trama, ma della maggior parte l’autore si sente obbligato a fornire una piccola scheda biografica il più delle volte superflua. E quando i personaggi sono troppi e si salta in continuazione dall’uno all’altro dopo un po’ non se ne può più.
Oltre tutto i personaggi di fantasia sono mescolati a fatti e persone reali della recente storia italiana, per definire un inserimento temporale, e il tutto allo scopo di dare un panorama del mondo del mercato d’arte internazionale nel corso degli anni ’90. In questo l’autore c’è riuscito anche, ma sarebbe bastato che si fosse limitato a descrivere un’arena piena di galli da combattimento pompati di steroidi, sarebbe risultato più incisivo.
Lo stile della narrazione è freddo e distaccato; sa tanto di: adesso copio pari pari la tecnica dei thriller americani, con tanto di reiterati e poco giustificati omicidi, ma quando cominci a incontrare, in un contesto moderno, termini arcaici come “finanche”, e ti imbatti in  diverse virgole tra soggetto e predicato, allora ti rendi conto che il lavoro di editing è stato abbastanza scarso se non nullo, e capisci che non ne vale proprio la pena.
Ma perché sono arrivato in fondo? Ah già, perché volevo sapere che fine avrebbero fatto i due Pollock, ma anche su questo fronte non c’è stata soddisfazione per la scarsità di tensione narrativa e la mancanza di veri e propri colpi di scena. Peccato, un buon plot ― anche se non del tutto originale ― che avrebbe potuto essere sfruttato meglio.
Il Lettore insoddisfatto

mercoledì 18 marzo 2015

Skellig

In effetti sarebbe un libro per ragazzi, ma di sicuro, come rimarcano nelle bandelle, è anche un libro per tutti. E, aggiungo io, un buon libro per tutti.
A patto che uno sia disposto a tornare bambino per quel po’ di tempo che basta per leggerlo e per restarne affascinati.




Lo avevano regalato a mio figlio l’inverno scorso, e quando gli ho chiesto come l’avesse trovato lui ha fatto un cenno d’assenso con la testa e ha lasciato uscire dalla bocca un breve ma deciso “mmh”.
Tale e quale sua madre.
Come recensione non mi ha aiutato molto, salvo doverla lodare per la concisione, ma il gesto da cui era accompagnata era significativo e ciò mi è bastato per cominciare a leggere questo breve romanzo di David Almond dedicato ai bambini ma che per bambini non è anche se lo sono i principali protagonisti.
Michael e Mina sono i due amici che in una capanna abbandonata trovano un essere misterioso, che rifugge i contatti con la luce e con l’umanità e che ha la caratteristica di essere dotato di ali oltre che quella di essere indicibilmente sporco e affamato: Skellig. Il mistero di cui è permeato questo essere più simile a un animale che a un essere umano verrà portato avanti fino alla fine del romanzo né alla fine sarà risolto, lasciando immaginare al lettore qualsiasi soluzione voglia raffigurarsi, ma l’umanità che Skellig dimostra, nonostante l’aspetto e la sua ritrosia nei confronti di qualsiasi contatto, rimane un messaggio rivolto a tutti.
Anche a causa della narrazione in prima persona il romanzo è scorrevole e di una piacevolezza venata da atmosfere che rasentano una cupezza da romanzo gotico, ulteriormente sottolineate dalla presenza costante della malattia di cui è affetta la sorellina di Michael che nella vicenda avrà un ruolo da protagonista occulta. I due protagonisti che finiscono con l’accudire Skellig  ricalcano la figura del bambino che si trova di fronte a un qualcosa più grande di lui, che non capisce e dal quale è intimorito, ma che lo accetta così com’è e alla fine finisce con il maturare anche grazie a questa esperienza. Una specie di romanzo di formazione, insomma, che nonostante i misteri irrisolti ti fa capire come dentro l’autore abbia voluto metterci di più di ciò che appare ad uno sguardo superficiale.
Invece è da pochi giorni che il pargolo ha finito di leggere Gli occhi del drago di Stephen King, e temo che anche di questo me ne chiederà un parere.
Il Lettore 

lunedì 16 marzo 2015

Il Disertore

Un piccolo gioiellino con quasi lo stesso valore dell’altra perla di Jean Giono, quella più famosa, quel L’uomo che piantava gli alberi che nonostante non abbia fatto guadagnare nulla all’autore ― Giono lo ha fatto distribuire gratuitamente ― è diventato un cult book per tutti quelli rimasti affascinati dalla vicenda di quest’uomo che ha finito col ricreare un boscoso angolo di paradiso da una landa desolata del paesaggio alpino.




Anche il protagonista di questo Il Disertore è un uomo solo, enigmatico, comparso dal nulla,  senza un passato e tantomeno senza un futuro, e sembra a questo punto che una figura di tal genere sia talmente importante per l’autore da imporsi nelle sue tematiche ricorrenti, anche se questo libretto di meno di cento pagine non è un romanzo, ma una specie di ricostruzione a cavallo tra la fantasia e la storia di una porzione della vita di Charles Frédéric Brun, il pittore del quale restano alcune opere sparse in piccoli paeselli delle Alpi a cavallo tra la Svizzera e la Francia.
Lo chiamano Il Disertore, ed è possibile che così si senta lui stesso, ma in realtà non ha commesso alcun reato, non ha disertato da alcun esercito né tantomeno ha ucciso qualcuno, e questa definizione la sente propria per il rifiuto che oppone alla civiltà, alle altre persone per quanto simili a lui e a tutte le manifestazioni della società anche se queste operano solo per aiutarlo. Il suo solo difetto è la completa miseria, uno stato che nella seconda metà del diciannovesimo secolo era paragonabile all’aver infranto una qualsiasi legge.
Per questo Charles Frédéric rifugge qualsiasi vicinanza ai luoghi pubblici, aborrisce i possibili contatti con tutori dell’ordine, limita al minimo gli incontri anche con le persone che vogliono aiutarlo, e si limita ad accettare solo lo stretto necessario che gli consente di continuare a vivere in cambio di piccoli dipinti che regala a chi gli fa della carità.
Tiene alla vita più di quanto il suo modo di vivere possa far pensare. Se accetta freddo, privazioni, solitudine, è proprio perché vuole vivere, se no, non accetterebbe un bel niente, si lascerebbe andare come ne fu tentato in fondo alla Val Ferret, se resiste, (…) è perché vuole vivere.”
Ma quei dipinti diventeranno famosi e saranno alla base di questo libretto scritto con uno stile squisito, un indiretto libero per mezzo del quale l’autore entra spesso nella mente sia del protagonista che dei personaggi che lo contornano, pur ricostruendo dall’esterno una storia ipotetica sulla base di labili indizi.
La lettura è veloce e interessante e personalmente l’ho trovato gradevole e profondo, ma capisco anche come tutti coloro che non fossero interessati alle problematiche degli uomini poveri e solitari, che poi oltretutto muoiono miseri e derelitti, potrebbero non esserne un gran ché divertiti.
Perlomeno quella di L’uomo che piantava gli alberi era  una morale ottimistica.
Il Lettore 

sabato 14 marzo 2015

Tre volte all’alba

Un altro Alessandro Baricco, stavolta in un divertimento d’autore che… be’, sì, lui si sarà anche divertito, non lo metto in dubbio, e non nego nemmeno che la sua bravura si fa ancora una volta notare, non si può dire di no, ma alla fine questo Tre volte all’alba, con i suoi personaggi enigmatici, le situazioni fumose, i concatenamenti misteriosi, alla fine, dicevo, lascia un po’ il tempo che trova.




Questo titolo sotto forma di romanzo ipotetico, Tre volte all’alba, compare all’interno del libro Mr Gwyn che ho già recensito (vedi), e lo stesso Baricco dice che una volta terminato di scrivere quello gli è venuta voglia di rendere reale un racconto immaginario che originariamente era solo un mezzo narrativo. “Una sorta di continuazione del pensiero di Jasper Gwyn,” dice l’autore, “che può essere capito anche senza aver letto il precedente lavoro.”
Ora, “capito” è una parola un po’ azzardata, visto che occorre una buona dose di intuito per “capire” i tre racconti dai quali è costituito questo libretto, tre episodi tutti sullo sfondo di un albergo, tre incontri notturni che finiscono (proseguiranno?) all’alba tra personaggi che attendono il sorgere del sole per dare voce alle loro ansie, ai loro segreti, come se una nuova luce infondesse anche il coraggio di dare inizio a una nuova vita. Personaggi che sono gli stessi in diverse fasi delle loro vite, cristallizzati attraverso tre storie sospese nel tempo.
Ma ci vuole un po’, per capirlo, non è che ci sia tutta questa immediatezza, e i collegamenti restano sempre sibillini.
Lo stile è proprio baricchiano, piacevole alla lettura e con quella dose di ricercatezza da maestro di scrittura creativa con cui sembra che l’autore abbia voluto ricordarti: vedi, impara, è così che si scrive, mica bau bau micio micio.
In particolare i dialoghi sono caratterizzati da un ritmo velocissimo, la cui andatura è ulteriormente accelerata dall’assenza di virgolette o altri segni interpuntivi a evidenziarli. Un po’ come usa fare Cormac McCarthy.
Un’oretta di lettura impegnativa e anche tutto sommato piacevole ma alla fine, come ho già detto, dopo aver apprezzato lo stile ed essersi congratulati con se stessi per aver captato alcuni dei nessi che l’autore ha voluto inserirci, non è che ti resti molto dentro.
Va be’, in fondo per lui è stato un divertimento e questo, da scrittore, lo capisco benissimo e sono contento per lui che si sia divertito, davvero.
Il Lettore 

mercoledì 11 marzo 2015

Lolita

Che cosa si può dire di una ragazza morta a venticinque anni?
Ah, no, scusate, questo è l’incipit di un’altra celebre storia d’amore. Quello che voglio dire è:
Che cosa si può dire di un romanzo famoso del quale è già stato detto tutto ma proprio tutto?
Che è un capolavoro. E intrigante. Che parla d’amore e di ossessione. E di perversione. E dell’America. Scusate ancora, mi sono lasciato trascinare dal ricordo della Love Story di Erich Segal – chissà come mi sarà venuta in mente – e sto scrivendo con lo stesso ritmo delle prime righe di quel romanzo (a questo punto lei rispose sorridendo: «Alfabetico.»). Basta, stiamo parlando di un’altra donna. Anzi, di una ragazzina.




Una ragazzina il cui vero nome, nel romanzo, è Dolores Haze,  ma in tutto il mondo è ormai celeberrima con il nomignolo creatole dall’io narrante della storia, l’enigmatico letterato europeo Humbert Humbert, innamoratosi in modo folle di questa precoce dodicenne che lui chiama: Lolita.
Lolita. Un nome che, in seguito al successo del libro e allo scalpore che ha suscitato in quel lontano 1955, è stato ormai elevato al rango di archetipo di tutte le giovanissime maliziose e procaci che fanno disperare lo sventurato talmente sfortunato da cadere innamorato di loro, fino al punto di entrare a buon diritto come lemma nei dizionari: “Lolita: ragazza adolescente di aspetto provocante, che suscita desideri sessuali anche in uomini adulti.” (De Mauro, Il dizionario della Lingua Italiana, Paravia – fonte Wikipedia). Ma Humbert è prossimo alla quarantina e questa differenza d’età, unitamente alla condizione prepubere di Dolores, fa sì che un amore ossessivo come il suo non possa non essere etichettato altro che pura pedofilia, soprattutto quando, dopo che quasi per caso Humbert diventa il suo patrigno, tra i due si instaura un continuativo, torbido e problematico rapporto sessuale.
Oltre al film che ne ha tratto Stanley Kubrik, su Lolita sono stati scritti libri interi e il romanzo stesso è stato adottato come libro di testo in diverse università per studiarci sopra le problematiche psicologiche inerenti la sfera della pedofilia. Ma potrebbe allo stesso modo essere adottato nelle facoltà letterarie come esempio di uno stile di scrittura superbo, elegantissimo, ricco di sovrastrutture e di un patrimonio di conoscenze tale da farlo inserire nell’Olimpo dell’Alta Letteratura.
Lo stile di Vladimir Nabokov è soggettivo e molto sofisticato, dai periodi lunghi e ricchi di subordinate che l’autore giostra da burattinaio esperto facendo loro compiere elaborate circonvoluzioni ritmate da una sapiente punteggiatura. Nabokov ha scritto il romanzo direttamente in inglese, e questo non deve stupire perché già dall’età di tre anni parlava la lingua correntemente avendola imparata ancora prima del russo, e solo dieci anni dopo ha tradotto egli stesso il romanzo nella lingua di Tolstoj (la quale riesce meglio a rendere molte immagini e stati d’animo – parole dello stesso Nabokov).
A qualcuno potrebbero infastidire lo stile ricercatissimo e i ghirigori sintattici, le frequenti deviazioni verso scene meno interessanti rispetto al rapporto principale, gli abbellimenti, la prolissità dell’io narrante, le numerose citazioni in francese o in latino, ma un consiglio che mi sento di darvi è di leggere il libro fino in fondo, dopodiché vi sentirete gratificati e profondamente convinti di aver letto un romanzo che davvero valeva la pena di leggere: ce ne sono pochi, e questo è uno di quelli. Ad ogni pagina si scopre qualcosa di nuovo, Nabokov mostra e non dice restando sempre fuori dal linguaggio volgare, e il suo stile particolarissimo è reso splendidamente dalla traduzione di Giulia Arborio Mella. Pur essendo considerato un romanzo erotico, nel libro non c’è una sola parola sconcia e non viene descritta neanche una scena di sesso: i riferimenti ai momenti scabrosi sono solamente allusivi, l’autore gioca con le parole in modo tale che il lettore è portato solamente ad immaginarsi ciò che succede tra i due protagonisti.
Quando Humbert spiega al lettore le ragioni del suo comportamento ci si trova a parteggiare per lui nonostante ci si renda conto che è mosso da un sentimento “sbagliato”, e nonostante le sue azioni criticabili non si riesce a formulare un giudizio del tutto negativo sul protagonista perché si è ammaliati dal suo racconto e dalle sofferenze causategli da questo amore torbido, da questo sentimento ossessionante che lo porta a compiere gesti estremi. Come Humbert, ci si sente messi da parte, umiliati da questa ragazzina indifferente dalla mente rivolta in tutt’altre direzioni, che provoca e si estrania, che ferisce e se ne disinteressa, e Nabokov rende in modo incredibilmente incisivo sia i comportamenti innocenti ma nello stesso tempo cinici di Lolita che i timori e lo struggimento senza speranza del protagonista: “Quello che mi fa impazzire è la natura doppia di questa ninfetta – di ogni ninfetta, forse; questo miscuglio, nella mia Lolita, di un’infantilità tenera e sognante e di una sorta di raccapricciante volgarità…”. “Lei corazzava la sua vulnerabilità con la trita sfacciataggine e la noia, (…) o mia povera bambina con l’anima pesta.”
Tratteggiando il rapporto tra Humbert e Dolores, Nabokov ne approfitta per viaggiare attraverso gli Stati Uniti della fine degli anni ’40 del secolo scorso e per descrivere i vari modi di vita americani in un mosaico di cartoline che ne illustrano l’essenza: è facile individuare a questo punto come il libro sia anche un parallelo tra la liaison dei protagonisti e la storia d’amore tra la matura Europa e la giovane America (ma sarà Europa che tenta di circuire America, o sarà America che provoca l’anziana Europa?), a fermare il concetto che un autore “non dovrebbe mai” scrivere allegorie, ma che l’opera stessa “deve” essere un’allegoria (per quest’ultimo pensiero ringraziate papà Hemingway).
Numerosi sono i brani ricchi di una straordinaria potenza narrativa: quando Humbert scopre la moglie intenta a leggere di nascosto il suo diario segreto e la di lei successiva tragica fuga; il piangere dalla gioia per il “fato puntuale”;  la rivelazione delle esperienze sessuali precedenti di Dolores; la masochistica ossessione di Humbert di essere pedinato da misteriosi personaggi; la conclusione tragicomica di un omicidio trasformatosi in farsa e molti altri.
E non sono da sottovalutare nemmeno la prefazione, scritta da Nabokov stesso sotto lo pseudonimo di un fittizio John Ray, e che in realtà è un vero e proprio prologo alla vicenda ricco di metonimie e arcane anticipazioni, e la fantastica postfazione nella quale l’autore, stavolta firmandosi in chiaro, spiega la genesi del romanzo e nello stesso tempo fornisce un’incredibilmente dotta lezione di scrittura: “Nessuno scrittore, in un paese libero, dovrebbe esser costretto a preoccuparsi dell’esatta linea di demarcazione tra il sensuale e l’erotico…”; continuate a leggerla sul libro, vedrete che merita.
Pur non essendo minimamente interessato al tema della pedofilia – i bambini sono del tutto al di fuori dei miei interessi, in tutti i campi –, da parecchio tempo covavo l’intenzione di iniziare questo romanzo che aspettava da anni con pazienza il suo turno nello scaffale dei libri da leggere. Inconsciamente me ne sentivo intimorito, forse a causa dell’argomento ho avuto sempre parecchia ritrosia nell’affrontarlo. Ma se da una parte potrebbe sorgere una specie di rammarico per essermi negato per tanto tempo un così importante capolavoro, nello stesso tempo non rimpiango di non averlo letto prima: con un bagaglio di esperienza più povero avrei di sicuro apprezzato di meno tutte le prelibatezze che l’autore ha voluto metterci dentro.
Il Lettore

lunedì 9 marzo 2015

La via del samurai

Quando ho visto questo libro sugli scaffali della libreria ne sono stato subito attirato perché, come vi ho già detto in passato, mi interessano le arti marziali e le filosofie orientali delle quali i samurai sono parte integrante. Ho scoperto subito che non si trattava di un saggio ma di un romanzo, e leggendone la simil-sinossi sull’aletta di copertina sono stato incuriosito dal fatto che il protagonista sembrava proprio essere il cattivo della situazione: un killer professionista al soldo di chi avesse abbastanza denaro da poterselo permettere. Per farla breve: ho preso il romanzo nonostante avessi già capito che non era il primo ma il quarto di una serie con lo stesso protagonista, l’ho portato a casa e l’ho letto.
E subito dopo sono tornato in libreria e ho comprato tutte le altre avventure con protagonista John Rain.




Avventure che iniziano da Pioggia nera su Tokio e proseguono per cinque romanzi tenuti insieme da un tessuto connettivo di narrazione in cui ogni romanzo può essere letto in maniera a sé stante ma nello stesso tempo è legato agli altri per un succedersi di accadimenti a più ampio respiro.
John Rain è un killer professionista di origini nippo-americane. Lavora principalmente per CIA e Mossad e la sua specialità è quella di fare in modo che gli omicidi da lui commessi vengano scambiati sempre per decessi naturali. È un esperto di arti marziali, in particolare di judo, e una sua simpatica caratteristica è quella di essere un fervido fautore della semplicità: per lui il miglior attrezzo ginnico è la forza di gravità, mentre la sua attenzione per le tecniche di depistaggio e la ricerca compulsiva del mantenimento dell’anonimato sfiorano la paranoia. Un altro aspetto che lo rende ben visto al lettore è quello di accettare esclusivamente incarichi politicamente corretti. Corretti per lui, naturalmente. Non uccide donne, bambini o personaggi innocenti, ma si limita a far fuori solo i cattivi, che nelle sue avventure in genere incarnano la forma di mafiosi giapponesi, spie, terroristi e trafficanti d’armi.
Okay, lo so già da solo, risparmiatemi tutti i commenti politico-sociali che vi sono venuti in mente e che posso benissimo immaginare quali siano. Ricordate, stiamo parlando di un romanzo, avete presente il patto di sospensione dell’incredulità? E Barry Eisler è americano, di conseguenza… centosessanta anni fa gli americani avevano per nemici le balene, preferibilmente bianche, centocinquanta anni fa gli indiani, settanta anni fa i tedeschi, cinquanta anni fa i russi, poi i coreani, i vietnamiti, gli iracheni e quindi i fanatici islamisti. E la letteratura, anche quella leggera, risente delle situazioni del momento. Lasciamo perdere le chiose scontate a riguardo.
Come letteratura di intrattenimento, la saga di John Rain a me è piaciuta molto. La scorrevolezza della scrittura si avvicina a quella di un Lee Child: ci sono le avventure condite di dinamiche scene d’azione, i particolari di molte tecniche di nicchia, da quelle di combattimento corpo a corpo alle sparatorie ai marchingegni elettronici sofisticati, ci sono molti dettagli e descrizioni accurate e non mancano le storie d’amore e le considerazioni filosofiche anche serie. Nonché comprimari ben caratterizzati le cui vite si evolvono al passo con quella del protagonista seriale. Direi che resta sì una letteratura di genere, leggera, ma “di classe superiore”.
La saga di Rain si dipana per cinque romanzi (perlomeno quelli tradotti in italiano), e se voleste intraprenderne la lettura vi consiglierei di partire dal primo, che come ho già detto è Pioggia nera su Tokio. In seguito Eisler ha scritto altre due storie con altri protagonisti e che trattano problemi seri di politica internazionale nei quali gli statunitensi non hanno fatto una bella figura, e la cosa curiosa è che lo stesso Rain compare di sfuggita in questi libri come personaggio molto marginale ed enigmatico.
Il Lettore 

sabato 7 marzo 2015

Non esiste saggezza

Vi trascrivo un pensiero di Robert Louis Stevenson:
Chiunque può scrivere un racconto – un cattivo racconto; voglio dire, chiunque abbia sufficiente diligenza, carta e tempo; ma non tutti possono sperare di scrivere un romanzo, anche cattivo. È la lunghezza che uccide.»
Oltre al del tutto vero significato macroscopico, questa frase esprime tra le righe anche il concetto di come scrivere un buon racconto sia ancora più difficile dello scrivere un romanzo. Pura verità, perché scrivere un buon racconto non è appannaggio di chiunque, a volte neanche dell’autore di un buon romanzo. Magari del perché ne parlerò in una qualche lezione (semiseria) di scrittura creativa. Qui aggiungo solamente, per gli esordienti che mi seguono, che la quasi totalità degli scrittori famosi hanno pubblicato raccolte di racconti solo dopo aver pubblicato i romanzi che li hanno reso famosi. Quindi non sperate che vi vengano pubblicati quei quattro raccontini quattro che avete spedito a una casa editrice.
Perché i racconti – anche quelli buoni – non vendono, soprattutto se sei uno sconosciuto.




E infatti Gianrico Carofiglio ha fatto uscire questa raccolta di dieci racconti solo dopo che diversi suoi romanzi hanno riscosso un notevole successo. Come del resto hanno fatto Camilleri e altri scrittori famosi che ormai sanno come funzionano le cose.
A me sono piaciuti quasi tutti, quale più quale meno. La scrittura è quella solita di Carofiglio, fluida e accattivante, le trame scorrono e fanno nascere interesse fino alla risoluzione che a volte si esplica con un colpo di scena e a volte deriva naturalmente dal concatenamento dei fatti. Tra i racconti ve ne sono di profondi e di più leggeri e tra tutti, a testimoniare la sua passione per il mondo dei fumetti, spicca quello che più che un racconto è un divertissement dell’autore sotto forma di un’intervista a un personaggio improbabile come Tex Willer, che risponde alle domande dell’intervistatore con una moderata autoironia in ogni caso non scevra delle proprie incrollabili convinzioni.
Diciamo che per me è stata una lettura soddisfacente, anche se non eccelsa, e se dovessi scegliere i migliori tra tutti i racconti nominerei quello che dà il titolo alla raccolta, Non esiste saggezza,  e quello intitolato Il maestro di bastone.
Un difetto del volume in generale: i racconti sono pochi e non lunghissimi, e sia la dimensione dei caratteri che l’impaginazione sono progettati in modo da far sembrare il libro più lungo per poterne giustificare il prezzo di copertina, il ché fa storcere il naso e fa subito sorgere alla mente il sentore di una spudorata operazione commerciale.
Ma che vuoi, ormai lo sappiamo come vanno le cose.
Il Lettore

giovedì 5 marzo 2015

Misteriose e lucenti

Come già sapete io guardo la televisione molto poco, e in ogni caso il palinsesto della rete nazionale rientra sempre più di rado nelle scelte del mio zapping. Tantomeno rubriche come Billy, della quale ho già parlato su queste pagine, o come Doreciakgulp, nelle quali vengono promossi esclusivamente prodotti e personaggi cari ai vertici aziendali di mamma Rai.
Di conseguenza, il fatto che la prefazione del volume che mi era stato appena consegnato dall’autore, con tanto di dedica personalizzata, fosse scritta da Vincenzo Mollica, ha costituito per me più un punto negativo che un ulteriore motivo di pregio.
Ma andiamo con ordine.




Stavo prendendo parte a una piacevole cena insieme a una variegata congrega di persone: amici, artisti, collezionisti, disegnatori celebri e ben due editori piuttosto noti a livello nazionale e oltre. Discorrevo del più e del meno con Sergio Cavallerin, e quando gli ho rivelato l’esistenza di questo blog lui in un attimo ha fatto comparire dal nulla questo volume, con tanto di dedica personalizzata, e me lo ha consegnato.
«Bene!» ha esclamato, «così me lo recensisci.»
Sono rimasto impietrito.
Eccolo, il momento più temuto da qualsiasi libero recensore: come fai a mantenerti un libero recensore se l’autore stesso ti onora con il regalo di un libro, con tanto di dedica personalizzata? E se costui è anche un amico, e un artista poliedrico, e per di più un editore famoso? E non basta: era lui ad offrire la cena!
Nell’eventualità – siate sinceri − voi lo avreste il coraggio di parlare male del suo libro nonostante tutto questo?
Capirete che il momento è stato alquanto imbarazzante. Ho cercato di sdrammatizzare scherzandoci sopra:
«Guarda che non faccio favoritismi, se non mi piace te lo stronco» ho detto con un sorriso.
«Tu fammi sapere cosa ne pensi» mi ha risposto tranquillo Sergio. «Ho solo voluto fare un omaggio alle Donne.»
Un omaggio alle Donne.
Per fortuna esiste ancora qualcuno che fa loro degli omaggi, invece che picchiarle, sfruttarle, brutalizzarle o ignorarle. Resta però un angoscioso dilemma: e se il libro non mi piacesse?
Ma una volta cominciato a sfogliarlo mi sono subito reso conto che non avrei dovuto dubitare di un’artista le cui tavole così particolari sui gatti mi avevano già colpito in passato. Oltre che come disegnatore, in questo caso Sergio ha rivelato al mondo anche la sua bravura come fotografo, a partire dall’immagine stupenda di copertina con quegli occhi che tengono incatenato lo sguardo dell’osservatore con un flusso magnetico dal quale è difficile disincagliarsi. Misteriose e lucenti. E misteriosi e lucenti lo sono davvero quegli occhi fissi su di te a trasmetterti tutto il senso intrigante e sfuggente della loro appartenenza all’anima di una donna. Sfuggente per noi uomini, beninteso.
Io non saprò mai recensire un libro fotografico come riuscirebbe a fare un critico professionista – posseggo solo in parte il background culturale e non ho abbastanza confidenza con il lessico arzigogolato necessario a una tale operazione – ma spesso mi riesce di individuare il punctum che fornisce significato a una bella immagine: un seno acerbo che spunta da una tenda socchiusa; due chiari e minuscoli corpi nudi sullo sfondo di una maestosa e incombente scogliera; i significanti diversi all’interno di un’immagine che trasmettono lo stesso messaggio; l’incavo profondo tra due natiche fasciate da un abito da sera; le espressioni pensose che emergono da spiragli improvvisati; le assonanze tonali tra soggetti disparati; lo sguardo di un’anziana donna perso verso il passato; e riconosco un omaggio a Doisneau nella bellezza di in un bacio riflesso, e altri inchini nei confronti di grandi autori in geometrie pavimentali o in strade che sfumano verso l’orizzonte.
Fotografie davvero belle, arte allo stato puro, scattate e confezionate con cura e proposte in un bianco/nero forte di contrasti tanto spinti da rendere a volte i bianchi sovraesposti, con sfumature e sfocature intenzionali che sottolineano e fanno risaltare il gioco degli sguardi.
Bravo Sergio, fa sempre un grande piacere quando scopri che un amico ha fatto un ottimo lavoro.
E per una volta sono costretto a dare ragione a Mollica…
Il Lettore fotografo

martedì 3 marzo 2015

La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria

Anche se vi sembrasse di non aver mai letto Aldo Busi in vita vostra è possibile invece che abbiate letto qualcuno dei suoi libri senza esserne consapevoli, dal momento che una delle sue attività è quella del ghostwriter, e molti romanzi conosciuti e pubblicati con nomi che sono diventati famosi in realtà li ha scritti lui. Potrei anche citarvi gli autori fittizi e alcuni titoli, ma non lo farò perché non sarei sicurissimo di affermazioni delle quali non ho prove provate e, di solito, se non sono più che certo di una cosa preferisco stare zitto.




Sta di fatto che Busi ha spesso scritto per altri, e magari qualche opera edita con un altro nome ha ottenuto anche più successo di quelle che ha pubblicato con il proprio.
Personalmente lo considero un Grande: un personaggio, un uomo che sa parlare e che sa scrivere, e che sa sostenere le sue convinzioni mettendo in campo una cultura rimarchevole. Al di là delle apparenze a volte scostanti e degli attacchi ricevuti da altri personaggi che lasciamo perdere.
Che sappia scrivere si vede anche da questo lungo monologo in forma di flusso di coscienza, nel quale l’io narrante, identificabile con lo stesso Busi, ripercorre i suoi ricordi di ragazzo tratteggiando le conoscenze di un’epoca che non è più, da La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria agli insegnanti che ha avuto a scuola, insieme a bidelli, direttori didattici eccetera, e nello stesso tempo racconta sia di passioni adolescenziali che di un mondo trasformatosi (in peggio? In meglio?).
Lo stile: la sintassi è superba, sublime l’uso del linguaggio, maniacalmente precisa la punteggiatura, veramente ammirevole la ricerca della terminologia, che gli viene tanto bene da non sembrare abbia fatto una ricerca quanto che i vocaboli gli siano venuti uno dopo l’altro tutti in modo naturale. Stupiscono i periodi chilometrici in cui i segni d’interpunzione sono messi tutti al posto giusto consentendo un’adeguata respirazione, e la fantasia galoppante con cui ha colorato i propri ricordi.
Se volete imparare qualcosa su come si scrive in italiano leggete Busi, non scherzo.
D’altra parte…
Il problema è che già prima di arrivare a pagina venti, delle complessive settanta, di questo martellante monologo ne hai le balle piene, e continuare a leggere per poter dire a te stesso “ma guarda tu quanto è bravo questo a scrivere così che invidia…” equivarrebbe a continuare a martellarsi i coglioni con una mazza da cinque chili per cercare vanamente di sgonfiarli.
Parlando seriamente, ammiro davvero la bravura di Busi, ma ciò che mi è venuto a mancare è l’interesse. In me, il gossip, per quanto piccante, intessuto su ricordi personali non ha smosso nessuna leva, e i personaggi di cui parla l’io narrante in questo flusso di coscienza non hanno suscitato nessuna curiosità tanto da farmi abbandonare il libretto prima della metà. Problema mio, lo riconosco, non intendo togliere meriti a un libro che altre recensioni hanno invece trovato delizioso, né ad un autore di quelli bravi.
Tanto che a leggere un altro dei tanti libri firmati da Aldo Busi ci riproverò senz’altro, mica tutte le cose che ha scritto saranno come questa.
Il Lettore refrattario 

domenica 1 marzo 2015

Lo Squizzalibro di domenica 1 marzo

Primo marzo! Come si oltrepassa il mese di febbraio sembra che sia già entrata primavera, non trovate? Lo dicono i nomi stessi: f-e-b-b-r-a-i-o (gelo, vento, pioggia, buio, neve); m-a-r-z-o (timidi tepori, rondini altissime, albe frizzantine, sole splendente, pomeriggi procrastinati, tripudio di fiori ed erbette, profumi da antistaminico).
Solo a pensare di dover mettere mano al decespugliatore per la consueta routine ripulitrice di tutti gli anni mi si fa male.




1 – L’autore del libro da indovinare oggi è italiano, di genere maschile, e non ha mai vinto il Premio Nobel né penso che lo vincerà mai anche se scrive benissimo.
2 – È un personaggio molto noto, ha scritto parecchi libri e compare molto spesso in televisione, ma non è Vittorio Sgarbi (e non è nemmeno Emilio Fede, e neanche Bruno Vespa).
3 – Questa da indovinare non è una delle sue opere più famose, è tra le sue più lunghe: in tutto sono solamente una settantina di pagine.
4 – L’argomento è parzialmente autobiografico: l’autore ripercorre con i ricordi il periodo della sua adolescenza, con i primi desideri piccanti inibiti da una doverosa prudérie.
5 – Se la risposta non vi sta ancora venendo in mente, pensate che con tutta probabilità di questo autore avete già letto qualcosa, anche se magari ne siete inconsapevoli. Come faccio a dirlo? Aspettate dopodomani…
Vi lascio, devo preparare la miscela per il dece. Buona domenica!
Freereader