domenica 31 maggio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 31 maggio

Questa settimana è stato un periodo di impegni più consistenti del solito, che mi hanno assorbito sia dal lato fisico che da quello mentale (cavoli tuoi), e di conseguenza non ho potuto dedicare il solito tempo alla lettura. Ieri sera all’improvviso mi sono accorto che non avevo uno Squizzalibro pronto (bene!), e ho dovuto cercare in fretta e furia un libro interessante che potesse fungere da oggetto per le solite domandine domenicali (fa che non lo trovi, ti prego…).
L’ho trovato subito (mortacci tua…), ma vi avverto che sarà un test più difficile del solito (e ti pareva!), perché…




1 – L’autore del libro da indovinare è statunitense e, al di fuori di una ristretta cerchia di persone, non è per niente conosciuto.
2 – Non fa lo scrittore di professione, anzi, per gran parte della sua vita ha svolto un altro lavoro, di tutt’altro genere che mettere le parole sulla carta.
3 – Nonostante ciò questo libro è diventato abbastanza famoso, e ha dato l’input a un altro autore, anche questo semisconosciuto, per scrivere a sua volta un’opera dalla quale recentemente è stato tratto un film, abbastanza crudo, che da pochi mesi sta avendo rilevanza mondiale. Di sicuro lo avete visto o ne avete sentito parlare.
4 – Il libro da indovinare è una biografia.
5 – La persona di cui si narra la vita è realmente esistita: un ragazzo di campagna sempliciotto che comincia a fare un certo tipo di lavoro e in breve tempo diventa il migliore nel suo campo. Tutto qui. La particolarità sta nel fatto che il “suo campo” non è un campo qualsiasi, non come fare il postino o l’impiegato di banca, insomma…
Devo scappare, gli impegni continuano, oggi c’è da cominciare a tagliare l’erba…
Freereader

venerdì 29 maggio 2015

Kind of blue

L’altra sera ho dato una sterzata alle mie abitudini consolidate: invece di andarmene a dormire presto come al solito sono uscito per passare la serata in un locale dove era in corso una jam session jazzistica, cosa questa che detta così sembrerebbe di stare in un localino della 52st Street in piena Middle Manhattan degli anni ’50 e invece siamo in uno scantinato a volte di Borgo XX giugno a Perugia.
Ma se ti lasci trasportare dalla musica, anche sotto le arcate di antichi mattoni risulta facile immaginarti un John Coltrane al posto del pur bravissimo sassofonista che inanella assoli con assoluta nonchalance (a parte il colore della pelle…), o un Miles Davis che, corrucciato come al solito, studia la maniera di passare dal caldo al freddo mentre l’atmosfera satura di fumo assume quelle colorazioni bluastre delle quali è già intrisa la sua anima…




Ecco, questa del fumo. Per carità, anche se sono sempre stato e sono un fumatore, trovo che sia giustissimo il divieto di fumo nei locali e lo appoggio in pieno, e devo dire che riesco benissimo a stare quelle due o tre ore senza nicotina senza esternare schizofrenie da compulsione, ma l’atmosfera… sarà anche pulita e vivibile, ma ammetterete che è tutta un’altra cosa. Il fumo da tagliare col coltello e il jazz andavano talmente d’accordo che ascoltare questa musica in un ambiente con l’aria pulita è come mangiare un piatto di spaghetti aglio e olio senza peperoncino.
Fatto sta che mi sono comunque gustato la session, con i musicisti che si alternavano sulla pedana dandosi il cambio quasi ad ogni pezzo, e sembrava che ognuno di loro, da come si integrava perfettamente nel sound, avesse provato e riprovato insieme agli altri per mesi di fila, e invece era una cosa del tutto improvvisata. Bella serata. Riuscire ad alzarsi comunque alle sei la mattina dopo è un altro discorso.
Dopo essermi goduto quegli standards mi è presa voglia di rileggere qualche brano dal libro del quale sopra avete visto la copertina (io ho la versione italiana). Perché? Chiederete. Ma perché ero entrato nel giusto mood, ovviamente, e rileggere questo libro fornisce quasi lo stesso piacere che riascoltare il disco del quale narra la genesi: Kind of blue.
Quest’opera di Miles Davis del 1959 è ancora oggi uno dei dischi di jazz più belli e più venduti nel mondo, e il libro di Ashley Kahn racconta vita morte e miracoli di come questo disco è nato. Kahn narra delle sedute di registrazione, della creatività di Davis, delle vite degli straordinari artisti che lo hanno coadiuvato, fornendo una miriade di curiosità, di informazioni tecniche e sociali, di particolari che vanno dagli stati d’animo alle scelte operate decidendo di premere un tasto in un certo modo piuttosto che in un altro, perfino il resoconto dei rumori e delle voci che si sentono incise nei master e che poi sono state cancellate all’atto di mixare il disco.
Ma così come sarebbe riduttivo descrivere il contenuto musicale di quel disco senza ascoltarlo, così è riduttivo descrivere il contenuto di questo libro senza leggerlo. Non è possibile riportare tutte le citazioni delle frasi che si sono scambiate i musicisti, o la straordinaria quantità di foto dell’epoca e di quei momenti in sala di registrazione. Gli scambi creativi tra Davis e il mitico Bill Evans, i timori di Coltrane, la professionalità di tecnici, ingegneri del suono, produttori che forse, dico forse, stavano cominciando a rendersi conto di lavorare su una delle più belle realizzazioni musicali di tutti i tempi.
Questo libro è molto di più della cronistoria dell’origine di un’opera pressoché perfetta il cui valore rimarrà immutato ancora nei secoli a venire, perché esso, come il suo eponimo, narra di stati d’animo e sentimenti, e come quello risulta coinvolgente.
Leggetelo ascoltando il disco, date retta.
Il Lettore musicomane

mercoledì 27 maggio 2015

Racconti romani

Oggi recensiamo un Grande della letteratura italiana, uno degli scrittori più famosi degli ultimi decenni.
In casa di Alberto Pincherle Moravia la letteratura e la voglia di scrivere non sono mai mancate, dalla sua adolescenza fino alle unioni con scrittrici del calibro di Elsa Morante, Dacia Maraini e Carmen Llera, e il risultato si vede sotto forma di più di trenta romanzi e innumerevoli articoli, racconti, saggi e inchieste. Per essere sincero, le opere di Moravia che avevo letto parecchi anni fa ― La noia, Gli indifferenti, Io e lui ― al tempo non mi avevano entusiasmato, poi l’altro giorno mi è capitata sotto mano questa raccolta…




Se nel 1952 il film Umberto D., di Vittorio De Sica, segna la fine del neorealismo, dovrà passare un intero millenovecentocinquantatre prima che Pane, amore e fantasia, di Luigi Comencini, dia l’avvio alla successiva corrente artistica, quella commedia all’italiana che, degradata e corrotta, ci sorbiamo ancora oggi in occasione del Natale. Ma a cavallo tra i due film, all’inizio del 1954, viene pubblicato questo libro di Alberto Moravia, questi Racconti romani che finiranno col rappresentare sia lo scisma che il trait d’union letterario nel succedersi delle due correnti.
I Racconti romani sono costituiti da qualche decina di novelle tutte narrate in prima persona da personaggi di volta in volta diversi, sono ambientate tutte a Roma o nelle immediate adiacenze, i protagonisti principali sono tutti romani e la lunghezza di ognuna è sempre compresa tra le quattro e le sette cartelle. Alberto Moravia ha pescato i suoi narratori da un popolo appartenente ai ceti più svariati con una preferenza per le condizioni medio basse della scala sociale: dai modesti impiegatucci, operai, artigiani, tassisti, giù giù scendendo fino ai morti di fame e agli emarginati, ad ognuno dei quali succedono vicende che si possono riscontrare ancora oggi nella vita di tutti i giorni. Ogni racconto inquadra una situazione e termina con un plot a volte inaspettato, che conferisce sapore alla narrazione e spesso strappa qualche sorriso oltre che qualche senso di angoscia.
Confessa lo stesso scrittore che nello scrivere questi racconti, allo scopo di cercare di cogliere l’anima di quella Roma che stava provando a riprendersi dopo la tragedia della guerra, si è ispirato ai sonetti di Gioacchino Belli, e ciò ha dato la stura a critici e letterati per intavolare una discussione non ancora risolta sull’uso del linguaggio scritto e parlato e su quanto sia ammissibile che il dialetto entri con diritto a far parte della letteratura “colta”, o se invece tale settore sia riservato esclusivamente a chi scrive “sciacquando i panni in Arno”. Discussioni da professoroni universitari. All’epoca forse Moravia si sentiva intimidito dalle potenziali critiche che potevano venirgli mosse dai sapientoni dell’epoca, e di conseguenza si è limitato nell’uso del romanesco relegandolo a qualche dialogo o a qualche modo di dire, ma oggi accettiamo con piacere un Camilleri o un Malvaldi, e chissenefrega se i cosiddetti “puristi” storcono il naso: l’importante è che le opere, sia pure contaminate col dialetto, siano buone e faccia piacere leggerle.
Scorrere questi racconti per me è stata una vera sorpresa: li ho iniziati con una certa diffidenza pensando di trovarmi di fronte, come nei romanzi che conoscevo, ad atmosfere esistenzialiste, e invece ho riscontrato una prosa leggera, se vogliamo un po’ datata, ma calata in situazioni di vita comuni delle quali Moravia sottolinea sempre il lato umano e i rapporti interpersonali. Notando come lo scrittore ha definito le caratteristiche dei personaggi di alcune vicende, mi è venuto alla mente che con tutta probabilità Carlo Verdone, per i protagonisti dei suoi film, si è ispirato anche a queste figure: molte particolarità degli interlocutori messi in scena da Moravia sono state riprese in modo molto simile dall’attore e regista. O sarà che i romani sono sempre uguali a loro stessi? Fatto sta che queste novelle sono davvero gradevoli da leggere e consiglio di assaporarle a piccole dosi, una al giorno, per farne sedimentare il contenuto nella nostra coscienza.
Il Lettore

lunedì 25 maggio 2015

Con la musica

Dal salto a Torino di figlio e consorte c’è scappato anche un ulteriore regalino riservato al lato musicofilo del sottoscritto, che gradisce (molto) e ringrazia. L’idea del regalino è stata innescata dopo che il mio editor si è fermato ad assistere alla presentazione di questo libro, condotta da Marco Malvaldi e Adriano Sofri.
Ne hanno parlato veramente molto molto bene… mi ha riferito. Grazie al cazzo, le ho risposto, non sarebbe potuto essere altrimenti, visto che pubblicano entrambi con Sellerio. Mi è sembrato sia rimasta un po’ perplessa: il suo candore congenito non le consente di tenere conto di certi meccanismi.
Comunque, almeno in quell’occasione i due presentatori avevano tutte le ragioni: non conoscevo Pietro Leveratto né come autore né come musicista, mai sentito nominare, e se come contrabbassista non saprei ancora poterne quantificare il valore, devo dire che come scrittore e saggista l’ho promosso in pieno, perché questo Con la musica mi ha proprio divertito. 




Il libro è costruito sulla falsa riga di quel Curarsi con i libri che ho recensito qualche tempo fa. In questo caso Pietro Leveratto raccoglie in ordine alfabetico una serie di situazioni o stati d’animo comuni nella vita di ognuno di noi (cito a caso: Agorafobia, Emicrania, Inappetenza, Paura di volare, Timidezza ecc. ecc.), e per ogni voce fornisce uno o più brani musicali da ascoltare che hanno un’attinenza più o meno stretta con l’argomento, completando ogni pezzo con aneddoti sui musicisti che quei brani li hanno creati o suonati. Non a caso il sottotitolo recita Note e storie per la vita quotidiana, e la pubblicità lo descrive come un elenco da cui attingere per dotare di una cornice musicale adeguata qualsiasi evento della nostra vita.

Qualcuno infatti sostiene che sarebbe meglio leggerlo con un ipod a portata di mano per gustarsi i brani relativi man mano che si stanno leggendo gli aneddoti, e devo ammettere che non sarebbe una cattiva idea. Anche perché le notizie sono veramente interessanti, e a volte anche raccontate in maniera non banale, il che richiede un certo grado di concentrazione e di attenzione per poter proseguire. E va bene così.
Il libro mi ha divertito per questo e perché i musicisti citati sono una marea, dei quali molti di mia conoscenza (si va da Stockhausen ai Genesis, da Prince a Rachmaninov), e perché ha stuzzicato la mia curiosità nei confronti di quelli che non avevo mai sentito nominare: mi sono appuntato una discreta quantità di brani che prima o poi dovrò ascoltare.
I resoconti sono conditi spesso da un umorismo arguto anche sotto forma di battute che fanno sorridere. Per riportare un esempio, alla lettera “F”, nel capitoletto “Feticismi”, l’autore cita la leggenda metropolitana sostenente come dietro le creazioni dei Beatles ci fosse una mente occulta, un segreto quinto beatle nelle spoglie di Theodore Ludwig Wiesengrund-Adorno, filosofo e musicologo tedesco, che avrebbe scritto per conto dei fabfour testi e musiche dei loro successi (tale leggenda si fonda sul fatto che Adorno ha detenuto per un certo tempo parte dei diritti d’autore dei Beatles prima di cederli a Michael Jackson― NdF). Tra le altre cose, Leveratto dice:
“Ora, a parte il divertimento di immaginarsi Theodore W. [Adorno] seduto in studio di registrazione con John e Paul che dice: «allora, qui ci mettiamo un accordo di sesta… bravo ragazzo, esatto, metti il mignolo su quella corda, non ti sforzare di capire cosa ho detto», scena che, lo ammetterete, non è niente male, vengono in mente i pensieri consueti non tanto riguardo alla madre dei cretini quanto dei suoi figli che si connettono.”
E la battuta è davvero molto carina, a sottolineare ancora una volta (e in modo mica tanto ellittico) come nel caso dei fabfour il totale risultante sia stato di molto maggiore della somma delle virtù musicali riconosciute dei singoli componenti.
Anche se qua e là ho notato diversi refusi che testimoniano un editing un po’ tirato via, i giudizi che si trovano in giro per la rete sono quasi unanimemente concordi nell’affermare che si tratta di un libro che merita, cosa che penso anch’io. Sono rimasto perplesso quando invece ne ho letto uno che attacca il libro in modo spietato, praticamente distruggendolo, cosa che a mio parere è veramente eccessiva e ingiustificata: sa tanto di risentimento personale nei confronti dell’autore, ed è per questo che invito ancora una volta a dubitare sempre delle affermazioni che si leggono in rete, o perlomeno a farci sempre sopra un po’ di tara.
Fra i tanti, uno degli aneddoti che mi hanno colpito davvero è la notizia del cartello (che prima o poi sicuramente copierò a costo di litigare con la consorte) che Kaikhosru Shapurji Sorabji, nato Leon Dudley e di ascendenti indiani, uno dei musicisti più enigmatici del ‘900, ha appeso all’ingresso della villetta del South Dorset dove ha abitato per parecchi anni: “VISITORS UNWELCOMED”.
Fantastico, lo voglio anch’io.
Il Lettore musicofilo

sabato 23 maggio 2015

La giostra degli scambi

Pressoché in contemporanea con Reacher è arrivata in casa anche l’ultima avventura di Salvo Montalbano, questa proveniente direttamente dallo stand della Sellerio al Salone del Libro di Torino dove il mio editor è andato a passare un fine settimana cultural-gastronomic-archeologico. Nota di gossip: la Sellerio nella propria postazione non fa nemmeno un euro di sconto sul prezzo di copertina, quindi quasi quasi conviene comprare nella libreria della quale siamo clienti affezionati. Chiusa parentesi. Ovviamente, dal momento che il mio editor è l’unica persona di mia conoscenza che legge più di me, ha già iniziato il romanzo ancora prima di tornare all’ovile.




Avevo appena finito di leggere Child e stavo girellando per casa palesando gli atteggiamenti schizofrenici di uno che ha appena finito di leggere Child e sta cercando disperatamente qualcos’altro alla stessa altezza. Il mio editor era intenta a guardare la televisione ma, una volta notato il mio nervosismo (o forse solo perché il mio continuo circumnavigare il divano la distraeva dalla (sacra) degustazione di Law & Order Special Victim Unit), mi si è rivolta con aria magnanima: “Se vuoi puoi prendere Montalbano, io comincerò Reacher…”.
Ora, pur sapendo che prima o poi dovrò ripagare con gli interessi questa munifica elargizione, non ho saputo resistere e ringraziando a denti stretti mi sono immerso subito nel siciliano sempre più stretto di Andrea Camilleri. Proprio così: sempre più stretto. Andando avanti con i libri il dialetto con i quali sono scritti assume connotati sempre più tipici e particolareggiati, fino al punto che in diverse occasioni mi sono trovato in difficoltà nel riuscire a tradurre qualche termine che non conoscevo ancora (e ciò di pari passo con le simil-sinossi di Salvatore Silvano Nigro nelle bandelle, che con il progredire delle avventure di Montalbano si fanno sempre più criptiche e illeggibili…).
Per curiosità sono andato a ripescare La forma dell’acqua, il primo romanzo in cui appare il commissario più amato d’Italia la cui prima edizione è datata 1994, e mi sono messo a leggerne dei brani. In ventun anni l’impatto dei romanzi di Montalbano si è modificato drasticamente: non tanto per lo stile e il ritmo, le cui variazioni risultano meno marcate, ma il lessico è diventato del tutto un’altra cosa. Se all’inizio c’era solo qualche “scivolata” nel dialetto, soprattutto nei dialoghi (e ricordo che questo all’inizio mi aveva infastidito, prima di esserne conquistato), con le ultime puntate il linguaggio è diventato quasi del tutto alieno dall’italiano, e costituito quasi interamente da un siciliano strettissimo esteso anche alle parti narrate. Una volta preso il ritmo, comunque, si gusta bene lo stesso, ma penso che ciò possa creare dei grossi problemi a quei lettori, ignari di siculo, che per la prima volta si avvicinano a questi romanzi.
La giostra degli scambi mi è piaciuto, si legge bene e, anche se non è scevra da qualche incongruenza, mi è sembrato che regga anche la trama a differenza di qualcuna delle puntate più recenti. La caratterizzazione dei personaggi seriali non pecca delle esagerazioni nelle quali Camilleri era caduto ultimamente (riducendo Catarella a una macchietta, per esempio), ma ritorna a essere ben calibrata e più soddisfacente, mentre i personaggi di contorno sono ben costruiti e plausibili anche se si può trovare da sindacare su qualche motivazione delle loro azioni. In definitiva mi è sembrato migliore delle ultime avventure, più brioso e dal ritmo più veloce, con un Montalbano che, sebbene assillato dal pensiero della vecchiaia che avanza suo malgrado, si muove sciolto tra le circonvoluzioni della vicenda.
O mi sarà piaciuto più degli altri solo perché Livia appare poco?
Il Lettore 

giovedì 21 maggio 2015

Il ricercato

Il miglior autore contemporaneo di narrativa crime” figura a grosse lettere sulla fascetta gialla che avvolge la copia del libro che ho in mano.
Affermazione non da poco, lapidaria, apicale, senza compromessi di sorta, che pone lo scrittore proprio sulla vetta, solo e irraggiungibile. D’accordo, non è altro che pubblicità, e per questo da considerare con beneficio d’inventario, ma la firma che segue questa frase non è di uno qualunque, non è di un giornalistucolo sponsorizzato da qualche casa editrice, non è di un personaggio famoso solo per qualche passaggio televisivo, né di un calciatore o di una qualsiasi attricetta bonazza. A proferire queste parole è stato Haruki Murakami, e se uno dei più papabili candidati al Nobel si sbilancia in questo modo state pur certi che avrà le sue ragioni.




E come dargli torto? Questo nuovo romanzo di Lee Child (ve l’ho già detto che il suo vero nome è Jim Grant?) con protagonista, come sempre, un Jack Reacher narrato stavolta in terza persona, conferma ancora una volta le aspettative di tutti coloro che attendono con trepidazione ogni nuova uscita dell’autore britannico trapiantato a New York.
Ho letto le quasi quattrocento pagine de Il ricercato in un giorno e mezzo, tralasciando impegni casalinghi e sedute di scrittura e rimandando obblighi vari al giorno dopo, perché Reacher è Reacher, non ci sono santi. Un libro che parte calmo, nel quale sembra che all’inizio non succeda nulla di eclatante per qualche decina di pagine, quindi è come se il pilota di un F22 accendesse il postbruciatore e ti ritrovi scaraventato nella vicenda senza alcuna possibilità di abbandonarla volontariamente fino alla fine.
Insomma, nulla di nuovo. Child ci ha abituato così.
Non starò a discuterne ulteriormente perché le ragioni di questa affezione le ho già spiegate in altri post (basta che clicchiate l’etichetta “Child” qui a fianco), vi dirò solo che questa avventura si pone temporalmente, nella cronologia delle vicende di Jack Reacher, dopo quella intitolata Una ragione per morire, quando Reacher sta cercando di allontanarsi dal Nebraska diretto verso la Virginia dove intende conoscere di persona una donna con cui aveva avuto solo delle interessanti conversazioni telefoniche.
Reacher è reduce da uno dei suoi consueti “confronti” (dai quali di solito gli altri non si rialzano più); è sporco, trasandato, gli hanno spaccato il naso con il calcio di un fucile e per questo gonfio e insanguinato, e sta facendo l’autostop di notte su un’autostrada semideserta. C’è da capire in pieno tutti gli occupanti delle cinquantasei auto che gli transitano davanti senza fermarsi a caricarlo, ma la cinquantasettesima si ferma e lo prende su.
Solo che gli occupanti della vettura non sono affatto dei gitanti qualsiasi…
Il Lettore 

martedì 19 maggio 2015

La quarta mano

Per quanti libri si possa leggere, e io ne leggo veramente tanti, ci sarà sempre qualche autore che sfugge e che una volta conosciuto avresti desiderato incontrarlo prima.
Nel mio caso uno di questi è John Irving: uno scrittore che mi aveva sempre incuriosito ma non mi era mai capitato di affrontarlo. Conoscevo per sentito dire Le regole della casa del sidro (e ne avevo visto anche il film), sapevo che Il mondo secondo Garp è considerato alla stregua di un cult book e mi avevano detto che Preghiera per un amico è uno dei romanzi più commoventi mai scritti, ma fino ad ora non avevo toccato con mano.
Ora l’ho fatto, e devo dire che lo stile di Irving mi ha stupito non poco. A proposito: John Irving è uno pseudonimo, in realtà il suo vero nome è John Wallace Blunt Jr.




Uno stile ingannevolmente calmo, pacato, da narratore che entra spesso nella vicenda in modo intenzionale “Noi naturalmente sappiamo già che…”, sfoggiando una prosa eccezionale nonostante la prolissità con cui si diverte a inanellare frequentissime divagazioni dal tema principale per approfondire i personaggi a dir poco strampalati che via via entrano in gioco.
La storia è quasi surreale: un noto giornalista televisivo statunitense perde la mano sinistra nel corso di un servizio filmato dall’interno di uno zoo indiano, l’inviato avvicina un po’ troppo il braccio alla gabbia dei leoni e uno di essi lo artiglia, lo trascina attraverso le sbarre e si pappa la mano e il polso. Non è dato di sapere se il leone il microfono l’abbia sputato.
L’umorista più efficace è quello che fa scivolare le sue battute all’interno del discorso con serietà e compassatezza. In una vicenda tragica come quella sopra descritta, John Irving riesce a inserire con nonchalance una serie di immagini e di battute tale da trasformare l’inconsueta colazione del leone in una risata continua. E le risate continuano quando il malcapitato, la cui disavventura è stata vista in diretta in tutto il mondo, diventa per questo famosissimo e si trasforma in un vero e proprio anchorman, sia pure mancante di un avambraccio, ossessionato dalla sua menomazione fino al punto di sottoporsi a uno dei primissimi trapianti di mano effettuati al mondo.
Fino a metà libro Irving descrive gli amori e le peripezie di Patrick Wallingford con un crescendo di situazioni paradossali davvero spassose, culminanti con la lunghissima descrizione della vita e degli amori del chirurgo che lo opera, il dottor Nicholas Zajac, utilizzando battute ellittiche e fulminee per lo più incentrate sulla vita sessuale dei protagonisti e sulle abitudini alimentari del cane del chirurgo a base di diete scatologiche, ma…
…dopo la prima metà del libro l’autore improvvisamente cambia registro: il tono da frivolo si trasforma in serio, il protagonista da farfallone diventa riflessivo, le battute umoristiche si fanno più rarefatte fino a scomparire del tutto e l’andamento assume la costanza di un’interessante storia d’amore condita da considerazioni esistenziali e denunce sociali, a partire dall’attacco plateale contro il modo corrente di fare televisione in America, quel privilegiare le trasmissioni spazzatura che purtroppo sembra abbia ormai preso piede anche qui da noi.
Un’inversione davvero strana, che mi era capitato poche volte di incontrare: ci rimani spaesato, ti aspetti in continuazione di incappare ancora in una battuta di quelle che fino a poco prima ti avevano fatto ridere e invece niente, non ci sono più, sembra quasi che tu stia leggendo un altro romanzo, e se da una parte quel continuo ricorso all’umorismo a cui eri abituato ti manca, dall’altra ormai sei curioso di sapere come si evolveranno le avventure dei protagonisti e prosegui con interesse fino alla fine.
Quindi, una volta arrivato in fondo, devo affermare che il romanzo mi è piaciuto e mi ha fatto venire voglia di leggere anche le opere precedenti dello scrittore, e questo nonostante abbia notato alcune altre incongruenze, a partire da un paio di personaggi che sono delle vere e proprie talpe, cioè che compaiono e spariscono senza lasciare traccia e che non sembrano avere nessuno scopo ai fini del disegno complessivo.
Un romanzo comunque strano, molto particolare, originale e graffiante, carico di messaggi ma anche di nonsense e che suscita sorpresa e ilarità. Sì sì sì, questo autore va proprio approfondito.
Dimenticavo… per soddisfare la curiosità di coloro che hanno letto lo Squizzalibro dell’altro ieri senza che debbano cercare in rete, vi dico subito che l'autore famoso dal quale Irving ha preso lezioni di scrittura creativa è Kurt Vonnegut.
Il Lettore 

domenica 17 maggio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 17 maggio

Dopo lungo meditare ho scoperto che mi dà molto più piacere architettare degli Squizzalibro difficili. Non siete d’accordo? Con quelli che già alla terza indicazione li risolvi subito non c’è proprio gusto.
Mi è parso di sentire un sussurrato ma vattene un po’ affanculo! provenire dalle parti di Monte Malbe…




1 – L’autore del libro da indovinare non lo avevo mai letto prima, quindi non cercatelo nell’elenco delle etichette. Nelle foto in giro per la rete appare ora come un vecchio zio bonario, ora come il prototipo del serial killer, e il fatto che non usi il nome vero per pubblicare i suoi libri tende a rafforzare la seconda ipotesi.
2 – Scordavo… è statunitense, e ha seguito i corsi di scrittura tenuti da un altro grandissimo autore americano, dal quale forse ha ripreso il gusto per il surreale e per l’umorismo in genere.
3 – Almeno tre dei suoi romanzi hanno raggiunto la vetta della classifica dei bestsellers e ne sono stati tratti dei film, uno dei quali è diventato famosissimo in tutto il mondo. Uno dei suoi libri è considerato un vero e proprio cult book, ma non è quello che dovete indovinare.
4 – La sua caratteristica più peculiare è quella di ideare trame e situazioni surreali ― con spunti presi dalla vita reale, dice lui ― condite da un umorismo folgorante.
5 – Il romanzo da indovinare non solo fa ridere spesso, ma tratta anche tematiche attuali che vanno dall’uso improprio del mezzo televisivo alle frontiere della chirurgia, ma in mezzo c’è anche molto sesso.
Buona concentrazione, a dopodomani!
Freereader

venerdì 15 maggio 2015

Il corriere colombiano

Ieri ho ricevuto un bel cazziatone dal mio editor: “Un insegnante di scrittura creativa non ci fa una bella figura a lasciare delle ripetizioni nei suoi post!”. E questo detto con quella sottile vena di profonda soddisfazione (sarcasmo? perfidia?) tipica di mia moglie quando (a ragione) mi può criticare per qualcosa. Del tutto vero, chiedo venia. “Correggilo subito.” No, non lo farò, non cambierò il primo o il secondo “gradevole” che ho doppiato a distanza di una sola riga nella recensione precedente, e questo perlomeno per giustificare le parole che sto scrivendo ora in modo che tutti possano rendersi conto che anche i migliori possono sbagliare…
Non cerco scuse per l’errore, se non la stanchezza e la miriade di cose da fare che non mi hanno consentito di rileggere più volte e più a fondo il testo prima di cliccare sul tasto “pubblica”. Quando si hanno almeno venti finestre aperte sullo schermo (sette o otto del Forum su Explorer, due del blog su Chrome, un paio di Excel, tre o quattro Word, tre di programmi professionali, OneNote, Gmail, tre di Adobe Reader e un paio di Powerpoint), allora capita che possa sfuggire qualcosa. Imploro perdono, e aspetto l’occasione giusta per la vendetta
Ed è proprio la vendetta, o meglio, la rinuncia alla vendetta (questa è una ripetizione voluta…) uno dei temi portanti del libro di Massimo Carlotto di cui parlerò oggi.




Il corriere colombiano fa parte dei romanzi i cui protagonisti seriali sono Marco Buratti, alias l’Alligatore, e i suoi fidati compagni Beniamino Rossini e Max La Memoria, un trio consolidato di “investigatori” sui generis che si impelaga in indagini di quelle che gli organi di polizia non possono affrontare, inchieste che sarebbe difficile portare avanti con metodi legali. I tre stavolta sono impegnati nel cercare un metodo per far uscire dal carcere una persona accusata di un delitto che non ha commesso, e nel corso delle loro ricerche si confrontano con trafficanti di droga colombiani, poliziotti corrotti e operazioni segrete dei reparti speciali delle forze dell’ordine, oltre che con parecchi rappresentanti di quella varia umanità, in genere fuori dalla retta via, che costella i romanzi di Massimo Carlotto.
Che come al solito mette in campo uno stile sobrio e dal ritmo velocissimo, fondato sull’essenziale, e nel quale si ritrovano tutte le particolarità del carattere dei suoi personaggi principali.  Come dice lo stesso autore nella postfazione, la trama è basata su un episodio reale che gli ha permesso di scandagliare il tema del tradimento e del “codice d’onore” della criminalità, e questo mi ha fatto venire in mente le esagerazioni di Educazione siberiana, nel quale Lilin amplifica fino alla parodia quella che è la condotta “morale in un mondo di amorali” presente da sempre anche tra i delinquenti nostrani. E anche in questo ambito si può riscontrare il segno di una civiltà che sta cambiando troppo in fretta: i valori “deontologici” che venivano rispettati tra i “vecchi” fuorilegge sembrano non essere più validi tra i “nuovi”, l’esasperata ricerca del guadagno facile fa calpestare qualsiasi arcaico senso dell’onore.
Nella criminalità così come in parecchi altri campi.
Un buon romanzo, forse non tra i migliori di Carlotto a cui si può imputare di aver messo in azione troppi personaggi tra i quali si fa un po’ di confusione, ma che comunque si legge bene e con un crescente senso di curiosità per vedere come i protagonisti riusciranno a dipanare una vicenda intricata.
Il Lettore 

mercoledì 13 maggio 2015

La mappa del destino

Forse è troppo sperare che qualcuno si ricordi ciò che ho scritto nella recensione del romanzo Profezia, ma non vi preoccupate, ve lo ripropongo: “È un vero peccato che Marco Buticchi in questo romanzo non abbia inserito anche le ipotesi  che vedono lo sbarco sulla Luna come un’invenzione della Nasa e i glifi nel deserto di Atacama come testimonianze certe dell’invasione di extraterrestri: una mancanza imperdonabile, perché per il resto ci ha messo proprio tutto. Ah, no, mancano anche il complotto dell’11 settembre e la caduta del meteorite che ha provocato la scomparsa dei dinosauri…
Ecco, per questo La mappa del destino potrei riproporre queste sette righe tali e quali, cambiando solo il nome dell’autore e sostituendolo con Glenn Cooper. Ma a differenza del libro di Buticchi che ho piantato a metà, questo perlomeno sono riuscito a finirlo, anche se non mi ha soddisfatto un granché.




Dopo una partenza bruciante con La biblioteca dei morti che ha venduto una marea di copie l’ex medico, ex archeologo, ex manager e ora scrittore Glenn Cooper è sembrato migliorarsi con Il libro delle anime per poi capitombolare con questa storiella abborracciata nella quale, come Buticchi, l’autore mischia di tutto un po’: elisir di lunga vita, civiltà estinte, incunaboli misteriosi, Templari, dipinti rupestri, San Bernardo, uomini di Neanderthal, monaci medioevali, sette occulte, nazisti, Santo Graal, servizi segreti francesi, Abelardo ed Eloisa, insieme a quegli sprovveduti dei protagonisti. E che diavolo, vuoi che un qualsiasi lettore non trovi almeno un argomento fra questi che lo affascini?
La biblioteca dei morti mi era piaciuto: aveva un buon plot che l’autore aveva saputo dipanare bene dosando le rivelazioni con arte, con una prosa semplice e gradevole. In questo caso invece siamo di fronte sì ad una buona narrazione che si legge in modo gradevole, ma frammentata, slegata, con personaggi stereotipati e soprattutto completamente carente di plausibilità. Del tipo: ammazzano gente a destra e a sinistra e la polizia francese non fa assolutamente nulla per scoprire chi è stato; oppure: si vuole tenere nascosto a tutti i costi un “segreto” del quale sono a conoscenza solo qualche centinaio di persone. Niente, come metterlo in banca.
Peccato, perché l’autore riesce a suscitare curiosità da subito con la casuale scoperta di una grotta le cui pareti sono affrescate con dipinti molto più antichi di quelli di Altamira, e da qui parte una vicenda che da subito si fa discontinua, saltellando tra il tempo attuale e il medioevo, tra la seconda guerra mondiale e il paleolitico, con personaggi che riescono a campare anche due o trecento anni grazie alla claviceps (un inno all’LSD!) senza che nessuno li scopra, e questo già mi sembra leggermente paradossale. I protagonisti continuano a muoversi tranquilli mentre intorno a loro la gente viene ammazzata a ripetizione senza che nessuno intervenga; saltano fuori traduzioni miracolose di codici cifrati effettuate in un lampo e scoperte scientifiche rivoluzionarie purtroppo cancellate nell’esplosione di interi laboratori chimici senza che nessuno ne abbia salvata una misera copia su un semplice floppy disk. Troppe assurdità che mettono a dura prova il patto di sospensione dell’incredulità del lettore. Per non parlare del finale, nel quale si nota chiaramente come l’autore non sapesse più dove sbattere la testa per terminare il romanzo in maniera accettabile. E infatti non c’è riuscito.
Comunque, nonostante tutto ciò, visto che sono riuscito ad arrivare fino in fondo senza cancellarlo del tutto dal telefono, il libro si lascia leggere, anche se poi ti lascia un senso di delusione per le potenzialità sfruttate maldestramente. Forse questi sono i libri peggiori: un romanzo palesemente scritto male lo pianti subito senza stare a perderci del tempo, mentre questi che all’inizio ti incuriosiscono, e tu ci passi qualche ora con la speranza che non sia così banale come si sta mostrando e che prima o poi si risollevi, e quando arrivi alla fine invece di migliorare il romanzo termina in calando, allora sì che gli daresti fuoco…
Il Lettore 

lunedì 11 maggio 2015

I gatti non sono cani

E grazie al cacchio! Bella scoperta! Avevo da leggere questo blog per sentir affermare simili scempiaggini. Mi sa che d’ora in poi mi collego con il blog di Fabio Volo…
E faresti bene… Ma stai un po’ zitto e continua a leggere, almeno ti acculturi!
Era da parecchio tempo che non leggevo un P. G. Wodehouse, e quando mi è caduto l’occhio su questo I gatti non sono cani, al solito negozietto di libri usati che mortacci sua ha alzato i prezzi un’altra volta dal momento che questo libro un sette otto mesi fa l’avrei pagato due euri e invece mi è toccato di sborsarne quattro e ciò non bastasse quando mi ha fatto il conto che veniva qualcosa come diciassette e ottanta per quattro libri in totale né lento né zoppo il baffuto proprietario ha tranquillamente arrotondato a diciotto arimortaccisua ma penso proprio che abbia fatto il passo più lungo della gamba perché col cavolo che ci rimetto piede e magari vado a cercare quel nuovo posto che mi hanno detto vende libri usati e che è anche più vicino a casa mia così la prossima volta impara a fare il furbino… respiro…, non ho potuto fare a meno di portarmelo a casa.




Già il titolo preconfigura lo spasso, anticipatore com’è di tutte le piccole perle wodehousiane che vi sono contenute all’interno, ognuna colma del suo humour tipicamente britannico, dello stile graffiante ma saturo di understatement, del costante ricorso all’ellisse che ti lascia immaginare i retroscena e le conseguenze delle azioni senza che l’autore le spieghi e ti fa ridere solamente con l’accennarvi.
Pelham Grenville Wodehouse è stato un vero maestro di scrittura e di stile della lingua inglese, preso ad esempio da scrittori del calibro di Rudyard Kipling e Douglas Adams e difeso nientedimeno che da George Orwell e Evelyn Vaugh quando le maldicenze popolari lo tacciarono di collaborazionismo con i nazisti. Un umorista è e rimarrà sempre un umorista, anche nelle situazioni più tragiche (e anche se Roberto Benigni non mi piace un granché, mi viene da pensare a La vita è bella), e penso che si possa capire come Wodehouse, sorpreso in Francia dalla guerra, abbia fatto buon viso a cattivo gioco e l’abbia buttata sul ridere: gli inglesi questa cosa gliel’hanno perdonata solo trent’anni dopo, poco prima della sua morte.
In questa raccolta di racconti non troviamo quel Jeeves che è il personaggio più famoso di Wodehouse, non c’è quello stolido di Bertie Wooster né l’ambientazione è quella consolidata del Castello di Blandings, ma incontriamo coppie di innamorati che non ambiscono altro che sposarsi, osteggiati proprio da quei parenti che dovrebbero allentare i cordoni della borsa per permettere loro di coronare l’ambìto sogno; abbiamo nobili gatti, austeri e compassati, che solo per aver assaggiato un cicchetto di whisky si trasformano in trogloditiche bestie feroci; abbiamo canarini scafati che evitano con astuzia gli attacchi portati loro da gatti ipereccitati per il solo fatto di vederli volare liberi in una stanza; abbiamo vescovi amanti del ballo che non esitano a prendere a cazzotti poliziotti indifesi e severe contesse affascinate dai romanzi polizieschi; ma soprattutto abbiamo un P. G. Wodehouse al massimo della forma in quanto ad arguzia, umorismo e quell’autoironia con cui prende in giro le manifestazioni più evidenti e derisibili della top class britannica.
Come molti altri autori (Dickens, Asimov), Wodehouse ambienta la scena principale nella saletta riservata agli adepti più fedeli di un tipico pub, ognuno di loro caratterizzato non dal nome ma da ciò che beve (Birra Mischiata, Pinta di Birra Amara, Lemon Sour, Sherry e Amaro), ad eccezione del signor Mulliner: la tipica persona, presente in ogni gruppo a livello mondiale, che qualsiasi cosa tu dica interviene affermando che a lui è successo lo stesso (un po’ come mia suocera). Ogni episodio è un racconto di Mulliner su qualche suo parente a cui è successa qualche cosa. Fossi stato al posto di un qualsiasi Boccale di Scura gli avrei ficcato la testa in un barilotto già da tempo; fatto sta che i racconti sono veramente spassosi, e allora ti viene da perdonare anche il narratore.
Non c’è nulla da fare, uno dei rimedi migliori per risollevare un po’ il morale è quello di leggere un buon umorista che ti faccia fare qualche risata tra te e te. Tra tutti quelli che ho letto, ritengo questo uno dei migliori libri di Wodehouse e ve lo consiglio, sia a coloro che hanno letto solamente di Jeeves, sia, e soprattutto, a coloro che P. G. Wodehouse non l’hanno mai sentito nominare. Per questi sarà una vera scoperta.
Il Lettore 

sabato 9 maggio 2015

Minuti scritti

Molto interessante questo libretto di Annamaria Testa dal sottotitolo 12 esercizi di pensiero e scrittura, con il quale la scrittrice fornisce una serie di esercizi ideati con lo scopo di permettere a chiunque di affinare il proprio modo di scrivere. Avevo già nominato l’autrice in questo post ma non avevo mai letto un suo libro per intero. Ora che l’ho fatto (per gentile prestito di un’allieva del mio corso, grazie!) non posso che porgerle i miei complimenti: è una che sa fare il suo mestiere.




Annamaria Testa scrive per lavoro, per comunicare e anche per insegnare agli altri come scrivere meglio. E scrive veramente bene. I consigli che elargisce a piene mani in questo “eserciziario” possono essere utili a chiunque, sia a chi scrive relazioni professionali che a chi si cimenta con la narrativa. I dodici compiti (che poi sono 13) necessitano ognuno di pochi minuti per essere svolti e mettono in moto meccanismi del nostro cervello che permettono di far capire ad ognuno come possono essere migliorate le capacità potenziali di redigere un buon testo.
Gli esercizi sono semplici, ognuno con uno scopo diverso, e sono del tipo “tracciare un profilo”, “osservare”, “dare il ritmo”, “guardare le cose da un’altra angolazione” eccetera, e alcuni li ho trovati simili a quelli con cui io stesso tormento i miei allievi dei corsi di scrittura creativa. Così come, con soddisfazione, ho trovato simili ai miei i consigli di scrittura che la Testa fornisce a corredo di ogni capitolo, insieme agli esempi di prove elaborate da coloro che hanno frequentato i suoi workshop.
Un libro che di sicuro può essere utile a tutti quelli che vogliono perfezionare il proprio stile di scrittura. Ciò che manca, così come manca a tutti gli altri libri sull’argomento (compreso il mio…) è il confronto diretto con chi ha più esperienza di te. Con chi ti possa correggere. Se non hai nessuno che ti dica a quattr’occhi “guarda, hai scritto una porcata…” o qualcosa di simile, sarà difficile che tu possa capire in pieno molti aspetti eterei, evanescenti della scrittura, quelle differenze sottili tra lo “scritto bene” e lo “scritto male” che molte volte sono anche difficili da spiegare.
Se fossi costretto a condensare i suoi suggerimenti (così come quelli di King, Mozzi, Cerami, miei…) in dodici parole, potrei dire così: leggi, leggi, leggi, scrivi, scrivi, scrivi, rileggi, rileggi rileggi, riscrivi, riscrivi, riscrivi. In effetti di parole ne sarebbero bastate quattro, ma ho voluto sottolineare che il lavoro va fatto più e più volte. Come dice King: non esiste altro modo.
E penso proprio che in futuro dovrò rubare all’autrice un paio dei suoi esercizi per riproporli nei miei corsi. Tremate allievi, tremate!
Il Lettore 

giovedì 7 maggio 2015

Un posto nel mondo

È martedì. Come tutte le altre mattine, la sveglia suona alle sei punto zero zero con la sua precisione di telefono coreano. Come tutte le mattine mi alzo dopo due secondi, disincastrando i piedi da sotto le trenta tonnellate dell’Iveco dal manto nero il cui diesel da quattromila ronfa al minimo sull’angolo del materasso.
Traverso la sala nel debole chiarore dell’alba, aspetto ad occhi chiusi che la macchina si scaldi e sorseggio la prima razione di droga bollente della giornata, seguita a ruota dalla prima razione di droga aeriforme. Ora va meglio.
Mentre i neuroni stanno iniziando a connettersi tra loro entro in bagno, e… tragedia! Ora ricordo! È martedì! Il panico mi assale quando vengo preso dalla consapevolezza del dramma. Ineluttabile, irrimediabile. La frustrazione e un senso di vuoto si impossessano della mia anima. Butto gli occhi disperato sullo scrittoio nella vana speranza di essermi ricordato male, ma no, purtroppo non è così: è lì, chiusa con il frontespizio contro il piano di legno, proprio come un romanzo del quale hai appena girato l’ultima pagina. Non ricordavo male. L’ho finita ieri sera.
Ho finito La Settimana Enigmistica.
Ho risolto tutti i giochi utili, non mi resta più nulla per mettere in moto la giornata nella maniera ottimale. Lancio un’occhiata trepida lì dove tengo i surrogati della rivista ma nulla, ricordo bene di aver terminato anche quelli e di non averli ricomprati. La disperazione mi assale con ondate potenti: cagare senza parole crociate mi è del tutto inconcepibile. Un sostituto, ho bisogno di un sostituto. Reprimo gli stimoli e senza neanche sedermi faccio guizzare gli occhi sugli scaffali alla frenetica ricerca di un palliativo. I titoli e gli autori delle decine di libri in attesa di essere letti scorrono veloci mentre oscillo spostando il peso da una gamba all’altra: Preston Appelfeld Scandone Perez-Reverte Dumas Yehoshua Murakami Torregrossa Hornby Volo Carlotto Wodehouse Irving…
Volo?  
Che cazzo ci sta a fare lì un Fabio Volo?
Non ricordo di avercelo messo. Chissà da quanto tempo c’è. E che cos’è? Un posto nel mondo. Bah. Sarà stata mia moglie. E per quale motivo? E se… Ma no, ne ho sentito parlare troppo male. Mi domando come ci sia finito. Sicuramente non ne vale la pena. Ma ne sei sicuro? L’hai mai letto? In effetti… forse alla fine Freereader potrebbe parlarne a ragion veduta. Guardo il libro. Mi guardo allo specchio. Mi restano venti minuti prima di dover svegliare moglie e figlio. Riguardo il libro. Solo l’inizio? Non ho il coraggio di riguardare il me stesso nello specchio. L’avresti creduto possibile?
Mi calo i boxer, mi accomodo e, con titubanza, comincio a leggere.




Ho retto esattamente ventidue pagine.
Il tempo necessario per espellere residui nutrizionali e per rendermi conto di persona della ragione più che fondata per la quale non avevo mai letto prima d’ora Fabio Volo. Il pregio più rimarchevole che ho trovato in quelle ventidue pagine è stata l’assenza di errori di grafia. Bravi gli editor. Del resto l’autore stesso in prima pagina si scatta un selfie: “Lo so, sono sdolcinato, stucchevole e patetico, ma non posso farci niente.” Mai fotografia fu più realistica.
Ventidue pagine colme di banalità, di frasi scontate, di tritume, di ovvietà; davvero sdolcinate, stucchevoli e patetiche (in senso negativo, naturalmente), e che dopo la prima diventano pure noiose. E dico questo ad onta delle centinaia di recensioni che invece questo libro l’hanno osannato fino a farlo apparire un capolavoro. Poveri.
Poveri di spirito, e di cultura. Un libro che potrebbe essere osannato solo da chi non ha mai letto nient’altro, da quelle persone che hanno letto solo quel libro in vita loro. E neanche tanto. Un romanzo basato su una cultura televisiva, confezionato su misura per quelli che si sentono appagati nell’abbandonarsi per ore davanti allo schermo finendo col convincersi che quello che viene propinato loro sia la Verità. I personaggi televisivi come novelli messia, non importa se abbiano o meno della caratura.
Ma non voglio sprecarci altro tempo, non ne vale la pena. Che poi, il problema sta nel fatto che questa gente dominerà il mondo: Volo ha venduto migliaia di copie dei suoi libri, e ciò può benissimo far pensare agli sprovveduti che abbia ragione lui.
Dopo appena ventidue pagine ho trasferito il romanzo tra quelli in attesa di catalogazione. Amen. Ma anche se mi sono rifiutato di proseguire oltre, perlomeno ora ne posso parlare a ragion veduta. Magra consolazione.
Appunto per me stesso: ricordarsi assolutamente di non restare mai senza parole crociate.
Appunto per i miei studenti dei corsi di scrittura creativa: il riferimento scatologico che permea la contestualizzazione di questo post è del tutto intenzionale. Meditate…
Il Lettore & lo Scrittore

martedì 5 maggio 2015

I gatti ci guardano

Questo è un post che avrebbe potuto scrivere il mio amico blogger de I gatti di Monte Malbe, visto che è perennemente tenuto d’occhio dall’ottantina di amici pulciosi che tutti i giorni aspettano con ansia che lui porti loro da mangiare.
Ma anche se quello dei gatti sarebbe il campo suo, la recensione di questo romanzo è meglio che l’abbia fatta io.
La ragione è semplice: scrivo molto meglio di lui. Hi! Hi! Hi!




Amando i gatti, quando ho trovato questo libro nella libreria di mia suocera non ho potuto fare a meno di prenderlo e leggerlo. Che poi (delusione!) non è che i gatti siano i protagonisti di questo romanzo uscito nel 1956, tanto è vero che l’editore Garzanti ne ha ripubblicato nel 1966 una nuova traduzione con il titolo Sotto la rete (riprendendone il titolo originale in lingua inglese Under the net). Ora, tra i due titoli italiani non riesco a decidere quale sia il meno appropriato per questo romanzo: nel suo svolgimento i gatti sono nominati solo molto marginalmente, e non sono riuscito proprio a capire che nesso ci sia tra il contenuto del romanzo e la metafora della rete.  Bah, i soliti misteri editoriali.
Iris Murdoch, oltre ad essere stata innamorata (a senso unico) per lungo tempo di Raymond Queneau, è stata impegnata per quarant’anni nella scrittura di molti romanzi e saggi a carattere filosofico, e questo Under the net è stato inserito all’interno della Top 100 dei migliori romanzi in lingua inglese del ventesimo secolo.
Forse bisognerebbe leggerlo in lingua originale per capire le motivazioni di questo riconoscimento, perché sì, il romanzo è anche abbastanza piacevole da leggere, ma non mi sembra che possieda tutti questi aspetti positivi necessari a un inserimento del genere. Con questo non voglio dire che la traduzione faccia schifo, anzi, sicuramente è stato fatto un buon lavoro e anche in italiano la prosa scorre fluida, ma forse in inglese c’è quel quid in più che in un’altra lingua viene perduto.
La vicenda è quella un po’ paradossale di uno squattrinato traduttore che in  pratica vive di parassitismo, con amori non esplicitati e amicizie quanto meno bizzarre. Non esiste una trama vera e propria, quanto piuttosto l’illustrazione di un breve periodo della vita del protagonista, che dopo aver passato diverse avventure per trovare perlomeno un posto dove andare a dormire, decide di restare un felice squattrinato piuttosto che tradire i propri aleatori principi. Il tono richiama alla lontana i romanzi di Wodehouse senza calcare la mano, ma a volte la Murdoch insiste un po’ troppo sulle indecisioni del protagonista fino a far assumere al ritmo un andamento piuttosto soporifero.
Be’, speravo ci fossero più gatti di mezzo, e nonostante la buona prosa non è che il romanzo mi abbia proprio entusiasmato. Per sentir parlare di gatti mi toccherà di continuare a collegarmi a I gatti di Monte Malbe
Il Lettore

domenica 3 maggio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 3 maggio

Buongiorno a tutti i miei lettori domenicali vicini e lontani. Come promesso nell’ultimo Squizzalibro, anche oggi vi proporrò un quiz difficilissimo, ché le cose facili ci hanno stufato quanto i nostri politicanti (mi piaccio, quando faccio così).
A me invece non piaci per niente…
Si tratta di un libro che sarà difficile troviate nelle vostre librerie, per quanto fornite esse possano essere, piuttosto potreste frugare sugli scaffali di quelle dei vostri genitori, o ancora meglio dei vostri nonni… La Bibbia? La Divina Commedia?




1 – Il libro da indovinare oggi è un romanzo. Bell’indicazione del piffero…
2 – L’autore è un'autrice, inglese, molto attiva nella seconda metà del Novecento. La Thatcher?
3 – Nel titolo del romanzo è riportata una delle attività preferite di una razza di animali. Non vi dico che tipo di animali, altrimenti… Lo so, sarebbe troppo facile… mortacci tua…
4 – Nonostante il titolo focalizzi l’attenzione su questi animali, essi sono solo minimamente presenti nel romanzo, in un ruolo del tutto marginale. Questa non l’ho capita… Nemmeno io. Se non fosse morta avresti potuto chiedere lumi all’autrice, anzi, all’editore italiano, perché il titolo originale inglese parla di tutt’altro.
5 – Sarò buono: l’opera è stata inserita nell’elenco dei cento migliori romanzi in lingua inglese del ‘900. Apperò! Ma dopo averla letta io non ho ancora capito il perché.
Ecco a voi. Buon lavoro di meningi, e non buttate troppo all’aria le librerie parentali!
Freereader

venerdì 1 maggio 2015

La casa nel bosco

Un altro Carofiglio. Stavolta doppio: il più famoso Gianrico e suo fratello Francesco si esibiscono in un duetto leggero e anche abbastanza piacevole da leggere. 
Ma del quale si può benissimo fare a meno.



Alcuni commenti su Gianrico li ho già fatti in passato ― basta che clicchiate sul nome Carofiglio nella colonna delle etichette sulla vostra destra ― mentre di Francesco (Carofiglio F.) finora non avevo mai letto nulla, e scorrendo questo volumetto non è che si riesca a distinguere una differenza di stile tra le due penne, probabilmente a causa dell’editing successivo alla stesura che ha uniformato il tutto.
Lo spunto è il ritrovarsi dei due fratelli per andare a svolgere un sopralluogo nella casa di campagna della famiglia che sta per essere alienata. I due di solito non si frequentano molto, ma passando una giornata insieme rispolverano ricordi comuni e operano una discesa all’interno della propria adolescenza.
Tutto qui. Niente trama, nessun colpo di scena. Solo ricordi giovanili. Che magari possono anche riportare alla memoria fatti, nomi, situazioni simili a chi come me ha la stessa età dei due autori (la Citrosodina, le caramelle sfuse da banco, situazioni in cui più o meno siamo passati tutti, buste anonime contenenti fumetti eccetera). Basta. Ah sì, in fondo c’è anche qualche ricetta di cucina pugliese.
Lo stile è quello solito di Carofiglio (Gianrico): molto discorsivo, linguaggio semplice da chiacchierata tra amici, dialoghi ben costruiti, piacevole da leggere e per questo non è facile il potersene staccare, ma procedendo con la lettura, man mano che ti accorgi che non succede nulla né mai succederà, subentra un pochino di noia: in fondo ci arrivi, ma nel frattempo è cresciuta una certa delusione. Peccato.
Vogliamo considerare anche questo un divertimento d’autore? Bah, purtroppo lo vedo più come un’operazione commerciale: Carofiglio vende, e allora perché non confezionare un libretto alla svelta (non credo che per scriverlo possano aver impiegato più di una ventina giorni ― ma è ancora più probabile che ce l’abbiano fatta in dieci) e darlo in pasto al pubblico tanto per tenere ben desta l’attenzione sull’autore?
Sì, più ci penso e più stavolta Carofigliox2 mi ha deluso.
Il Lettore