martedì 19 marzo 2019

Game Over


Questo blog termina qui.



A quasi sei anni dalla sua partenza, mi sono reso conto che lo scopo su cui si fonda non ha più ragione di esistere.
I libri pessimi continuano a imperversare, e parlarne male non è servito a nulla se non a farmi diventare antipatico.
Smetto di criticare.
Mi ritiro nel silenzio
Come me dovrebbero farlo molte altre persone che parlano e parlano.
Buon proseguimento con le vostre letture.
Freereader

lunedì 4 marzo 2019

Il Taglio di Dio


Questo Il Taglio di Dio è il libro che (purtroppo per me e per lui) ho letto subito dopo aver terminato L’assassinio del Commendatore.
E sì che, a detta di tutti, Jeffrey Deaver è uno dei più quotati autori sulla piazza. Ma quando hai la bocca sintonizzata sulla scrittura di Murakami, chiunque non scriva come lui sembra uno zappaterra illetterato. Con tutto il rispetto per gli zappaterra.



A parte il fatto che Jeffrey Deaver a me non è che piaccia un granché già di suo. Mi avevano detto che era un buon gialletto, ma io non l’ho trovato neppure passabile, a partire dalle motivazioni degli assassini per fare quello che fanno fino ad un Lincoln Rhyme che appannato è dire poco, passando per il cattivo della situazione che riesce, in barba a tutti, a passare per un’altra persona senza che a nessuno venga in mente di fare un controllo.
Lo svolgimento è fatto apposta per confondere il lettore e portarlo sulle strade sbagliate per lasciare spazio ai soliti colpi di scena che Deaver è uso mettere quasi in ogni capitolo. Se non c’è qualcosa di eclatante non ce lo vogliamo: alla faccia della semplicità.
L’unica cosa interessante che ci ho trovato è la trattazione delle maniere più comuni per tagliare i diamanti, dalla pietra grezza appena estratta al gioiello finito, e il cammino che le pietre fanno dai luoghi di ritrovamento ai negozi che le smerceranno.
Basta: il resto me lo sono già dimenticato.
Il guaio è che è veramente difficile gustare un altro libro dopo che hai letto un’opera dalla scrittura pressoché perfetta. Penso che non mi sarebbe piaciuto nessun altro autore, ed è stato Deaver a farne le spese per primo.
Il Lettore




giovedì 21 febbraio 2019

L’assassinio del Commendatore – Libro secondo


Letto in due giorni.
Questo Metafore che si trasformano soddisfa del tutto quelle aspettative che erano state innescate con il primo volume. Nulla da criticare, solo da elogiare.
Due romanzi che sia pure lunghetti si leggono in un lampo. Ma viene da pensare su questa scelta di dividerli perché, per esempio, nell’edizione inglese sono usciti in un unico libro, e del resto 400 + 400 pagine o poco più non sono poi nulla di troppo trascendentale per un solo volume.



Dicevo che Haruki Murakami assomiglia sempre di più a un buon vino: più invecchia e più migliora.
Un intero universo popolato di situazioni e personaggi particolari che restano scolpiti nella memoria, a partire da questo enigmatico quadro che dà origine alla vicenda per terminare con un finale che sorprende per la sua inusuale semplicità.
Un’opera veramente soddisfacente, sia come invenzione sia per la scrittura superlativa. Considerate che dopo quest’opera mi sono messo a leggere un thriller leggero di uno dei più venduti autori contemporanei e mi sembra scritta col piccone, a confronto.
Questo è l’effetto che fa una persona che scrive magnificamente: dopo, tutto il resto è noia.
Il Lettore




lunedì 18 febbraio 2019

Uomini senza donne


Aspettando di terminare il seguito di L’assassinio del commendatore, mi sono letto questa ennesima raccolta di racconti di Haruki Murakami che avevo già nel lettore.
Nonostante Murakami sia diventato celebre anche grazie ai suoi racconti, io continuo a preferire loro la dimensione più corposa del romanzo. Amo le cose chiare, e i racconti permettono all’autore di poter restare più sul misterioso.



Ma sebbene i fini più reconditi dell’autore non siano facili da comprendere, questi racconti mi sono sembrati più godibili di altri che avevo già letto dello stesso scrittore. Sarà l’esperienza acquisita dal giapponese con anni di scrittura?
Via via che Murakami invecchia si fa ogni volta più bravo. L’esempio lampante è il suo ultimo L’assassinio del Commendatore (del quale ho appena cominciato il secondo volume. Aspettatevelo a breve.)
Dicevo, nonostante la maggior parte dei racconti siano enigmatici e non facili da capire in tutte le loro sfaccettature, sono senz’altro leggibili con piacere e ti insinuano dentro molti punti di domanda. In Uomini senza donne le donne ci sono eccome, e ognuna di loro è causa di sconvolgimenti nella vita di qualche uomo, anche fino alla morte per inedia, senza però che ne venga spiegato quale ne sia il potere. Forse il difetto di questo libro è proprio questo: che lascia tutto un po’ sul nebuloso, ma sicuramente fa riflettere.
Ognuno è libero di trarne le conclusioni che vuole. Le donne vincono sempre, anche se sono enigmatiche come forza e come intenzioni, ma non è così anche nella vita?
Il Lettore



lunedì 11 febbraio 2019

Volo di notte


Prima che diventasse celebre a livello planetario con il suo Il piccolo principe (del quale io, a suo tempo, a dire il vero non è che ne fossi stato colpito particolarmente), Antoine De Saint Exupéry già si era cimentato con la scrittura con questo Volo di notte, che ovviamente ha avuto risalto solo dopo il successo del suo autore.
E, in effetti, se si fosse limitato a scrivere questo, come autore sarebbe pressoché scomparso nel nulla.



Il romanzo tratta dei primordi dell’aviazione postale, quando i piloti stessi sapevano, a volte, quando sarebbero partiti, ma non sapevano quando, e se, sarebbero arrivati a destinazione.
A parte le problematiche umane di cui parla che in ogni caso sono meritevoli di attenzione (rapporti interpersonali, parenti che trepidano nell’attesa del ritorno di congiunti che non arriveranno mai, colleghi stoici che a dispetto delle perdite si mostrano ligi nei confronti del dovere), ho trovato questo libro piuttosto noiosetto, senza tante attrattive, ho fatto fatica a terminarlo e, per me, De Saint Exupéry sarebbe stato già bello e che dimenticato, se non fosse che poi ha scritto anche l’altro romanzo che è il più letto al mondo dopo la Bibbia, e allora devo perderci sopra un altro po’ di righe.
Dicono.
Io la finirei anche qui.
Il Lettore



lunedì 4 febbraio 2019

L’ultima carta è la morte


Dopo aver dato l’addio a Enrico VIII e a Margaret George mi sono buttato sul noir.
L’ultima carta è la morte è la seconda puntata di un’altra serie realizzata da Arturo Perez-Reverte dopo quella del Capitano Alatriste (che non mi è piaciuta per niente) e diversi altri romanzi “liberi”.
Il modo di scrivere di Arturo Perez-Reverte invece mi soddisfa, tanto che in passato ho letto diversi dei suoi romanzi, dei quali su questo blog ho recensito solamente Il pittore di battaglie.



In questa saga in più puntate l’autore spagnolo si cimenta con uno degli episodi più crudeli e sanguinosi della storia spagnola: quella guerra civile che nella seconda metà degli anni ’30 funestò l’intera penisola iberica e portò alla dittatura di Francisco Franco
Il protagonista Lorenzo Falcò è un agente al servizio della destra fascista. Un protagonista dai modi di fare stereotipati e un pochino sopra le righe: belloccio, veste sempre bene, ha successo con le donne, quando fa a cazzotti prima le busca ma poi vince e, ovviamente, essendo il protagonista della serie sai già dall’inizio che alla fine non morirà.
Già il fatto che combatta per la destra franchista fa un po’ storcere il naso, ma considerando che in quella guerra si sono macchiati di estreme nefandezze entrambi i fronti ci si può anche passare sopra.
Dicono che questa ripresa sia migliore dell’episodio con cui la serie è esordita ma a me, proprio perché il protagonista è sembrato un po’ come Timothy Dalton nei panni di James Bond (cioè con poco spessore nonostante ce la metta tutta), ha fatto l’effetto di una medicina omeopatica: lascia il tempo che trova.
Con tutto questo comunque il romanzo si lascia leggere, l’ambientazione è particolareggiata e la vicenda degna di interesse.
Del resto l’autore ce la mette tutta per apparire neutrale: si tiene in equilibrio tra le due fazioni in lotta cercando di non sbilanciarsi da una parte o dall’altra, trovando ragioni plausibili anche per i comportamenti più criticabili; fa sembrare simpatici anche i comprimari più crudeli; fornisce giustificazioni che facciano comprendere la necessità dei delitti più efferati e ha una parola di attenuazione della colpa per ognuno dei due schieramenti.
Fatto sta che anche quella guerra di morti ne ha fatti decine di migliaia in un paese che ancora oggi non si è ripreso del tutto da uno dei suoi periodi più neri, e l’ambientarvi un noir non ha lo stesso effetto che dipingere un Guernica.
Il Lettore



giovedì 31 gennaio 2019

Il re e il suo giullare


Okay. Questo era il ponderoso romanzo storico di cui avevo iniziato la lettura.
Dopo aver passato mesi a leggere e non essere arrivato nemmeno a metà ho deciso che era troppo faticoso continuare.
Stavolta soprattutto per colpa del protagonista, uno dei personaggi più famosi del ‘500, quell’Enrico VIII che pur di avere un tornaconto personale passa sopra le persone come uno schiacciasassi vibrante.
Dal momento che conosco già la sua storia, anche se non in tutti i particolari, la curiosità di sapere questi ultimi è stata soppiantata dalla repulsione per l’estrema negatività dell’uomo.



Come dice il sottotitolo L’autobiografia di Enrico VIII annotata dal buffone di corte Will Somers questo librone di più di 1000 pagine riporta la biografia di Enrico VIII scritta da lui medesimo, con pochi e stringati commenti del suo buffone personale. Perché l’abbiano fatta passare per scritta da lui resterà un mistero.
In effetti sarebbe stato interessante venire a conoscenza delle più nascoste ragioni per le quali questo re ha ripudiato/decapitato così tante mogli, ma dopo un po’ non se ne può veramente più di questo sovrano rozzo e narcisista. Quasi a metà percorso sono arrivato appena al punto in cui comincia a passargli la fregola per Anna Bolena, che delle mogli è solo la seconda.
Non è che Margaret George scriva male (anche se a metà libro il ritmo si fa più lento), stavolta è proprio colpa del protagonista. In questo periodo non ho proprio bisogno di personaggi negativi. Dopo aver glissato un poco con altri autori, l’ho ripreso in mano scoprendo che non avevo nessuna voglia di terminarlo impiegandoci altri mesi.
Basta. Addio Enrico VIII, addio Margaret George, penso che ti riprenderò in mano solo se scoprirò che hai scritto anche la biografia di qualche comico (che non sia finito male).
Il Lettore



lunedì 21 gennaio 2019


Sol levante e pioggia battente

Non due ma tre.
Dal momento che ce lo avevo sul lettore e che l’ho letto al volo perché è corto, vi propongo il terzo scritto di fila di Marco Malvaldi.
Direte che ho rotto, ma quando ce l’hai a portata di occhi e sono brevi non se ne può fare a meno. E poi è un’altra dimostrazione del fatto che quando uno vende gli possono chiedere qualsiasi cosa. In realtà non so nemmeno se di questo sia uscito un volumetto in formato cartaceo: dalle poche ricerche in rete che ho condotto non ne sono venuto a capo, ma in questo caso dovrebbe essere più un depliant che un libro vero e proprio, dal momento che le pagine non sono molte.



Della serie: puoi chiedermi qualsiasi cosa perché tanto mi leggono, dopo la gastronomia e l’umorismo stavolta il tema è incentrato sulle più svariate differenze che intercorrono tra olandesi e giapponesi.
E questo che minchia ha a che fare con Marco Malvaldi?
Dice che sono due paesi (e due popoli) che lui ama molto, e questo è bastato per scriverci sopra un piccolissimo saggio che tra l’altro in copertina riporta pure un editore (RCS Quotidiani – Corriere della Sera), quindi magari costa pure qualcosa e probabilmente verrà pure venduto.
Nel testo vengono analizzate parecchie diversità tra i due popoli e i due paesi, dai modi di fare alle abitudini alle convenzioni sociali, tutti utilizzando la consueta verve di Malvaldi che fa sorridere spesso e si legge benissimo e con rapidità. Un esempio: in Giappone nessuno fa caso se avete i calzini puzzolenti, ma in ogni modo è obbligatorio togliersi le scarpe quando si entra in casa d’altri; e lasciamo perdere le condizioni dei bagni nelle abitazioni olandesi
Librettino divertente, ma cui prodest?
Ve ne riporto l’incipit che fa vedere come in realtà lo scrittore non ami molto viaggiare: “Io non sono esattamente quel che si dice un viaggiatore nato. Per me, il concetto di relax si abbina con una casa vuota, un divano comodo (non troppo lontano dal frigorifero), un bel libro e una carabina di precisione con cui stecchire gli eventuali rompiscatole di passaggio.”
E allora cos’è che ti ha portato a scrivere questa cosa che non si sa bene come definire? Ci si domanda. La risposta l’ho data due puntate fa.
Bene, ora cambiamo autore davvero.
Il Lettore


giovedì 17 gennaio 2019

Per ridere aggiungere acqua


Per riprendermi dalla delusione indotta dal pisano con il suo saggio gastronomico, e permettere all’autore di risalire nella mia considerazione, ho letto subito un altro saggio dello stesso Marco Malvaldi, stavolta sull’umorismo (e chi meglio di lui? Per lo meno ha dimostrato di saperlo utilizzare. E ne ho già pronti altre quattro o cinque dello stesso autore che mi aspettano, come altri di Murakami ecc., ma fatemi un pochino variare…).
Come recita lo stesso sottotitolo: Piccolo saggio sull’umorismo e il linguaggio, stavolta il protagonista dello studio è il “che cosa scatena le risate”, analizzato con la mentalità scientifica dell’autore.
Almeno in questo caso non ci sono di mezzo bambini.



Come deve funzionare la struttura del linguaggio per poter far in modo che si inneschi il meccanismo di ridere? Che cosa è necessario?
Marco Malvaldi tira in causa numerosi personaggi, da scrittori di notevole peso come Umberto Eco e Jorge Luis Borges a scienziati (principalmente Daniel Kahneman e Amos Tversky) che hanno lavorato sull’argomento, psicologi, esperti di linguaggio, informatici.
La domanda che ricorre nel libro è quella se sia possibile insegnare l’umorismo ad un computer e fare in modo che possa ridere anche questo, o se l’umorismo sia una caratteristica esclusivamente del genere umano. Come potrebbe, per esempio, un computer capire se intendiamo scherzare o meno?
Marco Malvaldi analizza gli studi fatti in merito riportando come esempi alcuni di quelli adoperati proprio nelle ricerche, passando per le statistiche riguardanti la frequenza delle singole lettere nei vari alfabeti e la frequenza delle associazioni di parole, e conclude affermando che, per portare alla risata, una battuta deve avere alcuni ingredienti fondamentali quali la condivisione con altri, il riconoscimento di una situazione antitetica od almeno inconciliabile con la premessa (e più intuitivo è e meglio sarebbe), e l’accertamento di una contestualizzazione in cui non vi siano pericoli critici per il destinatario della battuta. Ovviamente, lui lo dice in modo molto più esaustivo e facendo anche ridere, dal momento che gli esempi sono numerosi e tutti strettamente legati all’argomento.
Perlomeno, al contrario del saggio gastronomico su Barcellona, in questo c’è da ridere. Non che non ci fosse anche nell’altro, ma come ho già avuto modo di dire, le risate erano inquinate dalla mancanza di sentimento.
Va a sapere dove aveva la testa quando l’ha scritto.
Il Lettore



lunedì 14 gennaio 2019

La famiglia tortilla


Altra evasione dal prolisso romanzo storico nel quale non mi riesce di andare avanti (ma ancora non sono arrivato alla decisione di abbandonarlo del tutto).
Stavolta evasione doppia, perché sono stato rifornito di svariati libri in formato digitale e, curiosando tra i vari titoli, ho trovato che di alcuni autori la cui bravura è ormai consolidata vi sono diverse opere di gente nota ma a me sconosciute, e dopo Murakami mi sono rivolto a Marco Malvaldi. Per ben due volte, quindi anche il prossimo post avrà come soggetto lo stesso autore.
E come Murakami, perlomeno con il primo dei suoi due libri che ho letto, stavolta mi ha deluso pure lui.



Perché pare che qualunque opera edita con il suo nome abbia un successo strepitoso, e allora sotto a fargli scrivere libri su qualsiasi argomento: gialli, chimica, informatica, matematica, scienza divulgativa in genere e ora anche gastronomia. O meglio: guide gastronomiche.
Sì, perché questo piccolo saggio è una guida gastronomica di Barcellona. Un po’ come hanno fatto tanti altri, alcuni dei quali ho già recensito qui, come questo di Piersandro Pallavicini (qui, uscito tra l’altro nella stessa collana della stessa casa editrice di quello in oggetto), cioè di coloro che viaggiano e dei posti in cui si fermano sentono l’irrefrenabile bisogno di raccontarne le bontà culinarie. Intenzione lodevole, peraltro, ma la cui piacevolezza di lettura dipende molto da chi è che scrive. Della bravura di Malvaldi ormai si è certi, ma capita a volte che anche lui non sia esente da critiche. Come volevasi dimostrare.
Questo elenco di posti in cui mangiare (e come), a Barcellona, nonostante sia denso anche delle solite battute umoristiche del toscano, mi è sembrato piuttosto sterile e sostanzialmente inutile, a meno che uno non muoia dalla voglia di fare a breve un viaggetto nella città spagnola (e anche in questo caso non è detto che debba andare a mangiare negli stessi locali in cui è stato Malvaldi). Sembra scritto perché glielo hanno commissionato, ecco, senza sentimento. A me, che di Barcellona non me ne frega una mazza, ha lasciato dentro solo la delusione dell’aver constatato come anche i miti possano crollare con poco. Molto meglio la guida di Londra di Pallavicini, anche se la pappa (per restare in tema) è la stessa.
Sarà che uno dei protagonisti dei cui pareri bisogna tenere conto è anche il figlio quattrenne di Malvaldi, che con un irrefrenabile empito di stucchevole melensaggine nel volume è chiamato Pulcino dal recente padre, e conoscete già la mia idiosincrasia nei confronti dei bambini…
Il Lettore



martedì 8 gennaio 2019

La strana biblioteca


Dal momento che del gigantesco romanzo storico che ho cominciato già da qualche tempo non sono ancora nemmeno a metà e, per la verità, un pochino mi sta pure stufando (per il carattere veramente pessimo e nefando del protagonista), ho deciso di concedermi un’altra tregua.
E chi meglio di Haruki Murakami? Per lo meno so che il suo stile mi piace.
Tra i files fornitimi dal mio hacker personale, insieme ad altri titoli del giapponese e in attesa che esca la seconda parte de L’assassinio delcommendatore, ho trovato questo La strana biblioteca e ho cominciato a leggerlo la mattina presto direttamente sul computer.
L’ho finito presto: è cortissimo.



Infatti è più un racconto lungo che un romanzo (qualcuno lo ha definito una favola, ma secondo me di fiabesco ha poco). Tanto è vero che quei volponi della Einaudi, per allungarlo e quindi renderne il costo più accettabile in libreria (ben 15 €), lo hanno corredato di numerose illustrazioni del disegnatore e fumettista romano Lorenzo Ceccotti (in arte LRNZ, che di solito lavora per la Bonelli. Che dire delle illustrazioni? Particolari, curate, in sfumature di grigio e di rosso, delicate, e inerenti le varie scene del racconto. Ma, in definitiva, dànno l’idea che stiano lì solo per rendere più corposo il numero di pagine).

E stavolta anche Murakami mi ha un pochino deluso. Per carità! Solito stile splendido e narrazione impeccabile, ma il racconto prende subito una piega di sovrannaturale con tendenza all’horror che non fa parte delle mie argomentazioni preferite. Non ho mai amato Lovecraft e seguaci.
La trama: un ragazzo entra in una biblioteca pubblica per rendere un libro e già che è lì chiede qualcosa sull’argomento La riscossione delle tasse nell’impero ottomano. Non l’avesse mai fatto! Tra atmosfere inquietanti e surreali viene condotto in labirintici e oscuri sotterranei dove personaggi misteriosi, biechi e poco raccomandabili lo incatenano rinchiuso in una cella e gli forniscono alcuni libri sull’argomento, con l’avvertenza che dovrà tutti impararli a memoria pena le più atroci sevizie, dopodiché il suo cervello sarà succhiato via (con una cannuccia) per finire in pasto al bibliotecario più truce.
ovvio che non accenno neppure a cosa succede poi al protagonista, per non togliervi il gusto di leggerlo, ma capirete comunque perché fin da subito non mi sia piaciuto nonostante lo stile sopraffino. Che poi, tutti gli accadimenti che succedono al protagonista sono sicuramente delle metafore con delle spiegazioni simboliche, ma vai a capire di che cosa. Sinceramente non avevo nessuna voglia di indagarci sopra.
Va be’. Se volete delle atmosfere alla Edgar Allan Poe leggetelo pure: perlomeno il come è scritto merita ampiamente.
Il Lettore

venerdì 4 gennaio 2019

C’è spazio per tutti


Sottratto senza scrupoli di sorta a mio figlio prima ancora che entrasse in casa anch’esso come strenna di Natale.
Non per me ma questo è il meno.
Portato con me sotto le coperte.
Mi sono messo subito a sfogliarlo.
E a ridere.



L’ennesima chicca del geologo redento ci porta fuori dall’atmosfera terrestre con un volume cartonato nel quale Ratman va a fare compagnia all’astronauta italiano Paolo Nespoli in una missione a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.
Quest’opera non è il solito fumetto comico del disegnatore pisano, ma una vera e propria opera divulgativa che racchiude tutta la filologia dell’esplorazione spaziale dai primi tentativi ai giorni nostri, tanto è vero che ad Ortolani è stata commissionata dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Quindi la scienza c’è, ma questo non toglie spazio all’umorismo che vi viene riversato a piene mani dalla verve di Leo Ortolani tramite il suo personaggio più riuscito: un Ratman nella versione in assenza di gravità.
Anche se l’autore avverte che nel volume c’è meno comicità del solito (per lasciare più spazio alla tecnica e alla scienza), io ho riso dall’inizio alla fine. Paolo Nespoli, al contrario di come siamo abituati a vederlo nel corso delle sue missioni, sempre allegro e sorridente, nel fumetto è dipinto come uno scienziato serissimo e burbero, pienamente compreso nel suo ruolo, che si scontra con la totale incapacità esibita dal topastro in qualsiasi sua estrinsecazione .



Questa non è la prima volta comunque che il cartoonist dalla battuta fulminante si mette a scrivere su questioni importanti. Dopo le serie a fumetti e le numerosissime parodie Ortolani si è cimentato anche in opere di scienza divulgativa, per fortuna non abbandonando il suo umorismo.

Che secondo me è eccezionale.
Sigh, ora mi toccherà di riprendere l’interminabile romanzo storico…