martedì 29 novembre 2016

Harry Potter e la pietra filosofale

Per la serie “riletture” ho ripreso in mano questo piccolo capolavoro che ha dato la stura a uno dei fenomeni editoriali più rilevanti di tutti i tempi, se non il più importante in assoluto. Tradotti in ben 75 lingue, compresi latino e greco antico, questo romanzo e i suoi successivi compari hanno permesso a J. K. Rowling di guadagnare più di un miliardo di dollari e di fregiarsi di una quantità di onorificenze tale da poter trasformare il suo biglietto da visita nell’elenco telefonico di Bristol.
Ma forse non tutti sanno che, prima di essere pubblicato dalla Bloomsbury, questo romanzo aveva ricevuto ben tre rifiuti da altrettante case editrici, i cui responsabili si staranno ancora prendendo a schiaffi davanti allo specchio.
Questa è una di quelle cose a cui penso sempre quando boccio qualche nuova proposta.




Ricordo che lo lessi per la prima volta appena pubblicato, prima ancora che esplodesse il boom Harry Potter, e mi piacque allora così come l’ho riapprezzato adesso rileggendolo. Ovviamente non vi tedierò con la trama, dal momento che a 18 anni dalla prima pubblicazione e dopo 8 romanzi e 7 trasposizioni cinematografiche questa sarà ignota solo all’ultimo soldato giapponese rimasto abbandonato solo soletto a fare la guardia su un’isoletta del Pacifico.
Fatto sta che la Rowling ha fatto veramente un buon lavoro. Un romanzo per ragazzi buono anche per gli adulti,  che è anche un romanzo di formazione; l’invenzione di un intero mondo al di fuori della normalità ma facilmente comprensibile per un qualsiasi lettore, con tutti i punti di forza nei quali un lettore ama ritrovarsi con la fantasia; l’escalation di un bambino sottoposto a bullismo fino al ruolo di vero e proprio protagonista con tutte le gratificazioni che ne derivano; il tuffo nella magia e nell’arcano che ha da sempre rappresentato un lato importante nel pensiero umano.
E la Rowling ti ci fa trovare proprio dentro, facendo un uso sapiente dell’ellisse e del dare per scontato, mostrandoti le cose come del tutto reali: è del tutto normale che esista un binario 93/4 e che tu lo raggiunga passando attraverso un muro, è normale l’esistenza di draghi incazzerecci, centauri e unicorni, è normale che i personaggi si muovano nei quadri e che le scale si spostino quando ne hanno voglia, è normale che una scopa ti salti in mano a comando e tu possa cavalcarla quando ne hai voglia. E a chi non piacerebbe che ciò fosse del tutto reale?
Un romanzo veramente piacevole anche dopo una rilettura a distanza di anni, con anticipazioni e risoluzioni ben ritmate che permettono di tenere l’interesse sempre ben sveglio e con sporadiche considerazioni sul senso della vita e della morte: “In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura”.
Ecco, ora affermerò una cosa che mi trascinerà addosso le ire di tutti gli adoratori fanatici della saga di Harry Potter, trasformandomi in bersaglio per incantesimi letali.
Se la Rowling si fosse fermata dopo questo primo romanzo, letterariamente parlando non avrebbe fatto nulla di male. Tutti gli altri che ne sono derivati (e li ho letti tutti) secondo me non hanno apportato nulla di sostanzialmente significativo a questa prima vicenda. Brodo allungato con acqua di rubinetto. Nel corso degli anni ogni nuova uscita mi ha annoiato terribilmente (così come i film, sempre più tetri e cupi) e di ciò che è successo dopo nella vicenda complessiva ricordo poco più che niente.
Ma intanto questo Harry Potter e la pietra filosofale ha innescato un processo che è andato avanti a valanga: la saga che ha stracciato ogni record di vendita (fino a 15 milioni di copie vendute in un solo giorno), che ha incassato più di ogni altra nella storia dell’editoria e del cinema, che ha riportato in auge il genere fantasy, con una miriade di scopiazzatori che si sono dati da fare anelando lo stesso successo dell’inglese.
E tutto per merito di un maghetto undicenne sfigato e  insignificante.
Niente da dire, proprio brava.
Il Lettore 

giovedì 24 novembre 2016

Rileggere per salvarsi

Avrete notato come il ritmo di questi post ultimamente sia rallentato.
Non è perché io non legga più, ma questo è un momento in cui si ha bisogno di certezze come poche volte è successo in precedenza.




Non è solo il propendere per un SI o per un NO, che su quello non ho dubbio alcuno, è che guardandoti intorno e ascoltando gente che parla ti accorgi come di persone che aprono bocca e danno fiato al giorno d’oggi ce ne siano un’infinità, ma in realtà quelle che sanno di che cosa stanno parlando e a cui credere sono veramente poche e difficilmente individuabili.
Basta fare un giretto su Faccialibro per rendersene conto. Ad un’occhiata superficiale sembra vero tutto e il contrario di tutto, qualsiasi affermazione appare sacrosanta, e guai ad inserire un commento perché qualsiasi cosa tu dica trovi qualcuno che come minimo non è d’accordo e di norma sarebbe disposto a utilizzare il tuo intestino come budello per le salsicce. E il bello è che per farlo porterebbe anche ragioni a prima vista valide.
A chi credere? Come scartare la pula? Come e dove trovare le ragioni oggettive di un determinato fatto?
Dove sono finite quelle belle certezze che c’erano una volta? La certezza della pena, per esempio. La certezza di un lavoro, la certezza dell’onestà di un politico, la certezza di un’aleatoria equità, la certezza che se pubblicizzano un libro deve essere buono per forza.
Non ci sono più. Si sono volatilizzate lasciandoci in mano a chiunque abbia voglia di dare fiato senza sapere nemmeno minimamente di cosa stia parlando o, peggio, che intenda trascinarti dalla sua parte per scopi che sono noti solo alle sue intenzioni di lucro.
E allora è meglio fermarsi, piuttosto che continuare ad alimentare un baratro di incoerenza e pressappochismo, piuttosto che lasciarsi invischiare nella superficialità dilagante alimentata dai media per la soddisfazione di una massa imbarbarita a dovere.
Dove trovare le certezze di cui hai bisogno?
Ma nei libri già letti, ovvio.
Quelli che ti hanno soddisfatto, che ti hanno fatto sentire bene una volta terminati, quelli che avresti voluto scriverli tu, quelli che ti hanno fatto nascere delle emozioni, quelli di cui hai goduto ogni passaggio.
Quelli sì, che sono una certezza: sai che è già successo e risuccederà ancora quando lo riprenderai in mano, te lo gusterai senza sorprese ma anzi, con la certezza immarcescibile che vi ritroverai intatte le sensazioni già provate, quelle di cui hai bisogno in un’epoca il cui unico punto fermo è la transitorietà.
Lo Scrittore

giovedì 17 novembre 2016

Come assassinare un romanzo

Sottotitolo: pur presentandolo bene.
Per fortuna in questi ultimi tempi nella redazione della casa editrice con cui collaboro arriva pochissima roba(ccia) da valutare. Sarà merito dell’invito in grassetto a non spedire nulla perché non è il momento? Di sicuro da molti è stato recepito, ma c’è sempre qualcuno che degli inviti non tiene conto quasi fossero fatti solo per tutti gli altri ad eccezione del sottoscritto. Ma come? Ho scritto un capolavoro e tu non vuoi nemmeno leggerlo? Ma che modo di fare è? Non si fa così, io te lo mando lo stesso, poi vedrai se non avevo ragione.
E dal momento che l’esimio editore sa perfettamente che la percentuale di materiale decente che arriva rimane sempre la stessa (lo 0.5%, malgrado le convinzioni personali degli autori ― vale a dire uno su duecento), l’altro giorno mi ha sbolognato l’ultimo romanzo arrivatogli. Della serie: meglio che le porcate le leggi tu, almeno io non inquino la mia mente preziosa.




In effetti era sì una schifezza, ma perlomeno era presentato benissimo! Il pacco (metaforico) era costituito da tre files: romanzo, sinossi e note biobibliografiche dell’autore.
Cominciamo a leggere le note. Scopro così che lo scrittore è un professore di letteratura alle superiori. Almeno non ci saranno errori d’ortografia, penso, facendomi forte dell’esperienza pregressa: i professori di letteratura non sanno scrivere, ma perlomeno di errori non ne fanno… qualche volta. Ha già pubblicato tre o quattro sillogi di poesia, un paio di romanzi e un paio di saggi. Male, malissimo, penso, non promette per niente bene. Poi penso anche che in effetti un professore di letteratura che scrive poesie decenti lo conosco anche personalmente, e allora decido di non lasciarmi influenzare. Almeno per il momento.
Apro il file della sinossi. E mi cascano le palle (per l’ennesima volta). Santiddio, ma per quale funambolico motivo devi ambientare il tuo romanzo a New York se sei di… non ve lo posso dire ma fidatevi, è italianissimo. Magari nella Grande Mela ci sarai anche stato, ma visto che la trama che proponi è trita e ritrita perché non l’hai ambientata a Roma? O a Perugia? E con personaggi italiani e non americani? Trama? Solamente mezza, perché nella sinossi ne è riportato il riassunto solo fino a metà romanzo, dopodiché consiglia al sottoscritto di leggere il romanzo per sapere come va a finire. Doppio giramento di palle; scrivendo così ha raggiunto esattamente lo scopo contrario a quello che si era prefisso, cioè di incuriosire il Valutatore. Con me questi trucchetti di bassa lega non funzionano, anzi, mi indispongono proprio.
E così mi sono accinto alla lettura del romanzo da indisposto, la condizione d’animo peggiore per poter confidare nella benevolenza di chi sta per giudicare la tua opera.
Apro il file del romanzo e scopro un’impaginazione perfetta, da libro stampato, leggibilissimo senza alcuna difficoltà: il carattere è un semplice Times New Roman in corpo 14, con la giusta  spaziatura tra le righe e i giusti margini. Vedi che l’aver già pubblicato gli è servito, penso. Le pagine sono numerate e già dalle prime righe mi accorgo che mancano del tutto errori e refusi. L’ha anche riletto, sempre merito dell’aver già pubblicato. E non scordiamoci che è un professore di letteratura… Forse l’unico appunto potrebbe essere la presenza di un po’ troppi punti esclamativi ― almeno 12 nelle prime due pagine ― ma riserviamoci di giudicare. Per ora.
Come si diceva: perfetto.
Ma.
Ho retto poche pagine: una trattazione senza errori ma noiosissima, ma di più, con un narratore onnisciente che già nel primo capitolo ti sviscera vita, morte, miracoli, pensieri, turbamenti, speranze, emozioni, passato, presente e futuro e aspirazioni di un tizio del quale ti scordi ben presto anche il nome (tanto è americano), e poi continua nei successivi fornendoti informazioni su amici e parenti del tizio, e su come l’ha cresciuto la madre e su cosa pensano di lui le ragazze eccetera senza che succeda assolutamente nulla. Una mole infinita di informazioni del tutto inutile per inquadrare una persona, che non ti fa venire nemmeno un briciolo di curiosità per il proseguire e ti induce solo a chiudere il computer e andare a passeggiare per boschi. Ma subito, perché adesso fa buio presto.
Un’ennesima conferma: i professori di lettere non necessariamente sanno anche scrivere.
Il Valutatore

mercoledì 9 novembre 2016

Requiescat in pace


Stasera andrà in onda uno sceneggiato tratto da una serie di libri meno che mediocre.
Stanno pubblicizzando film tratti da romanzi meno che mediocri.
La massa sguazza nella mediocrità.
In Italia stanno tentando di legalizzare la dittatura in atto.
Trump alla Casa Bianca.
L’intelligenza è morta.
Sono definitivamente morti il buon senso e il buon gusto.
Ma di che cosa vogliamo ancora parlare?
Lo Scrittore

giovedì 3 novembre 2016

Io sono leggenda

Dopo la valanga di romanzi e film sui vampiri che ha ammorbato il pubblico in questi ultimi decenni, peraltro per la maggior parte di pessima qualità, può sembrare anacronistico riproporvi un romanzo sullo stesso tema pubblicato più di sessant’anni fa, del quale si è parlato a lungo e che ha dato lo spunto per la realizzazione di almeno tre film l’ultimo dei quali (quello con Will Smith; in cui, incidentalmente, il senso finale del romanzo viene del tutto ribaltato) è stato un record di incassi al botteghino.
Il fatto è che, pur conoscendo già Richard Matheson soprattutto per i suoi racconti, Io sono leggenda non l’avevo ancora letto anche se si trovava già in casa, e questo perché in genere io rifuggo le tematiche angoscianti e orrorifiche.
Come le montagne russe: non mi riesce di capire perché  per stare male ci paghi pure sopra.




Ma conoscendo già l’autore ho voluto finalmente togliermi questo sfizio andando contro i miei princìpi di salvaguardia mentale. Richard Matheson è stato un grandissimo scrittore e sceneggiatore, difficile da collocare come genere, autore di racconti fenomenali, di capolavori come questo romanzo o di film eccezionali come Duel, che ha fatto conoscere al mondo un giovane regista venticinquenne di nome Steven Spielberg. Così come in quest’ultimo film praticamente non ci sono dialoghi (e dell’antagonista si vedono di sfuggita solo gli stivali), Matheson può essere considerato un maestro nell’uso soprattutto dell’elisione ancora più che dell’ellissi: si dice addirittura che quando gli fu proposto di stendere la sceneggiatura del celeberrimo Gli uccelli (incarico poi affidato a Evan Hunter, alias Ed McBain), lui avesse proposto ad Alfred Hitchcock di non far apparire nel film nessun uccello.
Dopo un’epidemia causata da un tipo di germe che ha contagiato tutto il genere umano trasformando ciascuno in un vampiro, Robert Neville è rimasto l’unico uomo “sano” al mondo. Ha visto morire moglie e figlia e passa il suo tempo cercando di difendersi dal resto della ”vampiritudine” che lo circonda e che ogni notte tenta di bere il suo sangue, cercando nel contempo di capire le spiegazioni scientifiche del fenomeno e di trovare un’eventuale soluzione ad esso. I suoi rivali sono rappresentati secondo l’iconografia classica del vampiro: rifuggono specchi, aglio e luce del sole, e l’unico modo per ucciderli è piantare loro un paletto di legno nel cuore o dintorni.
Ma è solo contro tutti, e tutte le sue speranze vengono sistematicamente distrutte fino a che non gli resta altro che arrendersi al destino: lui non fa più parte della “normalità”, è lui l’elemento aberrante in un mondo diverso, ormai lui non è altro che una leggenda in un mondo che è mutato irreversibilmente.
Il tempo aveva perso la sua qualità pluridimensionale. Per Robert Neville esisteva soltanto il presente; un presente basato sulla sopravvivenza quotidiana, scandito dall'assenza di picchi di gioia o abissi di disperazione. Sono a un passo dallo stato vegetale, pensava spesso.
Ed è questo che permea tutto il libro di un’angoscia continua: la battaglia persa in partenza ma protratta ad oltranza, l’ineluttabilità del destino nonostante gli sforzi fatti dal singolo, la rassegnazione finale impossibile da accettare.
Leggi, e stai in un continuo stato di tensione per la tragedia sempre in procinto di accadere; sai che deve rientrare nella casa protetta prima che faccia notte per non essere sorpreso fuori dal buio e l’angoscia raggiunge un picco quando l’autore ti dice che il suo orologio si è fermato; vivi con lui l’ansia dell’ignorare se gli altri esseri che incontra man mano siano o no contagiati dalla malattia; cadi con lui nella disperazione nell’accettare la rassegnazione della fine.
Il tutto narrato con quello stile che è stato preso a esempio da molti altri scrittori, a partire da Stephen King, uno stile pragmatico, scarno, senza nessun volo pindarico autoriale, quasi senza alcun abbellimento, con cambiamenti improvvisi della situazione e risoluzioni inaspettate. Da studiare in ogni passaggio per imparare qualcosa in più sul come si deve scrivere.
Un vero e proprio capolavoro. Nonostante il tema vampiresco e le contrazioni allo stomaco sono contento di averlo finalmente letto.
Il Lettore