mercoledì 29 aprile 2015

In fondo al tuo cuore

Arieccoce! Penserete.

Ancora Maurizio de Giovanni!? Ma io… Stop! Non se ne può più! Su questo blog è diventato un tormentone! Volevo solo dire… Hai detto fin troppo! La vogliamo finire? Sembra quasi che i napoletani ti stiano simpatici! No, è che… E piantala una buona volta e leggi qualcos’altro!
Oh insomma basta! Il blog è mio e lo gestisco io! E per una volta tanto, per una volta che c’è uno scrittore italiano che merita, lasciatemi fare il mio porco comodo di recensirlo come voglio e tutte le volte che voglio. Chiaro? Be’, se la metti così
Sì, la metto così, e tanto per essere cristallini: Maurizio de Giovanni non mi paga per parlare bene dei suoi libri, non lo conosco e non ci ho mai parlato nemmeno per telefono.
È solo che mi piace come scrive…




A parte gli scherzi, In fondo al tuo cuore, il cui sottotitolo è Inferno per il Commissario Ricciardi, è l’ultima (in ordine di tempo) puntata delle avventure di quel commissario letterario secondo solo a Montalbano per la fama raggiunta in Italia e all’estero.
Ne parlo ma non mi voglio ripetere: tutti i commenti che ho già scritto sui libri di De Giovanni li trovate cliccando sull’etichetta con il suo nome qui a destra, e di conseguenza non vi ridirò un’altra volta le caratteristiche positive dei suoi libri e dei suoi personaggi, o le particolarità che contraddistinguono il suo stile: in questo romanzo vi si trovano tutte.
E se posso dirla come sta, devo ammettere che questo romanzo è ancora più coinvolgente dei precedenti, portandoti spesso sull’orlo della commozione. Senza tralasciare l’episodio  poliziesco che fa da spina dorsale al romanzo, De Giovanni accentua l’attenzione sui drammi dei protagonisti seriali e sull’evoluzione delle loro storie che ha portato avanti per diversi romanzi. I personaggi ai quali man mano il lettore si è affezionato ritornano tutti con i loro grandi e piccoli problemi, le loro angosce e le loro speranze; simpatie e antipatie vengono focalizzate ancora di più e, se possibile, cresce ulteriormente l’aspettativa per una futura risoluzione delle piccole avventure di ognuno all’interno del romanzo.
Un romanzo che ho divorato, nonostante la difficoltà di leggerlo in forma digitale sul telefono. Mi ha tenuto incatenato in ogni momento della giornata, non appena mi si liberavano cinque minuti, preso dalla curiosità di venire a conoscenza dell’evoluzione delle storie alle quali De Giovanni ha saputo legarmi.
Ho trovato simpatica l’entrata in scena dello scrittore Libero Bovio (una cui frase ― com’è facile scrivere difficile, e com’è difficile scrivere facile! ― ho già utilizzato in passato come corollario dell’intestazione Freereader di questo blog), sia pure con uno sfalsamento temporale rispetto al reale che l’autore stesso confessa di aver dovuto apportare per esigenze di continuità della trama, e ho apprezzato anche, nei ringraziamenti, la confessione dell’aiuto ricevuto per l’elaborazione del plot e per lo studio dei complessi particolari necessari alla contestualizzazione nella Napoli degli anni ’30.
Di tutte le altre particolarità della saga del Commissario Ricciardi ho già parlato: leggete i romanzi, non ve ne pentirete. Possibilmente in ordine cronologico per apprezzare ancora di più l’evoluzione delle vicende. Ho scorso in rete che sembrerebbe manchi una sola puntata alla conclusione di questa saga: appena uscirà dovrete sorbirvi la recensione anche di quella.
(Occavolo! No! Non un’altra volta! Ma forse è meglio che me ne sto zitto…)
Il Lettore

lunedì 27 aprile 2015

Jazz

Vi ho già resi edotti del fatto che la musica che ascolto di più è ancora oggi la progressive degli anni ’70, in particolare Genesis e Pink Floyd (sì, sarò arretrato, e allora? Trovatemi qualcosa di meglio, se ci riuscite). Di solito non mi viene in mente altro di più piacevole da ascoltare. Ma a volte cambio genere, e in funzione dello stato d’animo dominante al momento mi piace ascoltare Beethoven, Mozart, molto Bach e anche Ciaikovskij, Vivaldi e Ravel.
E molto Jazz.




Ma non siamo qui per discutere i miei gusti musicali che peraltro sono ben inquadrati e pressoché inamovibili. Una sola divagazione poi chiudo. Dell’arcigno Miles Davis che vediamo nella splendida foto di Aaron Rapoport sulla copertina di questo Jazz ascolto spesso i dischi dei primi anni ’60: Birth of the Cool, Sketches of Spain e soprattutto il celeberrimo Kind of Blue, ma non mi è mai riuscito di capirne le numerose evoluzioni successive, a partire da quel Bitches Brew che costituisce la consacrazione della fusion. Ci avrò provato venti volte, ma non riesco proprio ad apprezzarlo. Un po’ come per la musica che purtroppo oggi va per la maggiore (e la stessa cosa mi succede per I promessi sposi). Ed è così anche per altri grandi mostri del Jazz: mi piacciono molte cose di Jarrett ma non tutte, lo stesso per Monk, lo stesso per Parker, lo stesso per Coltrane, Baker, Metheny, Corea, Evans e così via. Ritengo che sia una cosa normale. Chiusa parentesi.
Il primo libro che ho comperato per erudirmi quando mi sono avvicinato a questa corrente musicale è stato questo di Arrigo Polillo, che ancora oggi costituisce un’ineguagliata Bibbia della materia oltre che la più completa trattazione jazzistica in lingua italiana. Ancora più sensazionale se si pensa che l’autore non aveva alcun tipo di formazione musicale.
Arrigo Polillo è stato un giornalista famoso in tutto il mondo per i suoi articoli e libri sulla materia, direttore di testate specializzate, organizzatore di spettacoli e di festival, e in questo tomo di oltre 900 pagine (tutte lette) ripercorre tutta la storia del Jazz dagli albori fino al momento della sua morte alla fine del secolo scorso, analizzandone le varie correnti che si sono succedute insieme ai protagonisti che hanno reso famosa questa musica straordinaria. Oltre a ciò, in una specie di Jazz for dummies, Polillo inserisce numerosi capitoli monografici in cui parla di volta in volta di tutti i più grandi esecutori mondiali di questa civiltà musicale, tracciandone le biografie, le tecniche, il modo di pensare e riportando anche curiosi aneddoti insieme alla discografia necessaria per comprendere quel determinato autore e concertista.
È chiaro che tutto ciò può anche essere superfluo per uno che vuole solo ascoltare della buona musica (mi sono goduto da matti un intero concerto di Cecil Taylor ignorando completamente all’epoca chi fosse quello gnomo nero con i calzini verdi e arancioni che pestava del tutto rapito, emettendo gridolini estatici, la tastiera del suo pianoforte), ma come in molti altri campi, a partire dalla pittura,  penso che possedere la consapevolezza di ciò che si sta facendo sia un aiuto fondamentale per capirne l’essenza. Puoi benissimo restare estasiato ascoltando il Köln Concert nella penombra di un pomeriggio di pioggia ricordando la prima volta che hai visto dal vivo un giovanissimo Keith Jarrett sul palco di Umbria jazz senza sapere chi poi sarebbe diventato (’71? ’72? Con baffi e capelli cespugliosi), ma capirai meglio lo struggimento del sassofono di Charlie Parker, o della voce di Chet Baker,  se ne conosci la tragedia, il progressivo sprofondare nell’abisso, così come capirai meglio il cubismo di Picasso se già ne conosci la sublime capacità di rappresentare il realismo.
Per chiunque voglia andare oltre il mero ascoltare della buona musica, ma che desideri anche conoscerne l’inquadramento storico e sociale e il percorso che un artista ha seguito per produrre quelle note in quel determinato modo, questo Jazz è un libro assolutamente fondamentale. Provate a mettere sul piatto un vecchio vinile di Billie Holiday e sulle prime note cominciate a leggere il capitolo che la riguarda: apprezzerete molto di più entrambi in un’empatia sorprendente.
Il Lettore musicologo

sabato 25 aprile 2015

Seton ― 1 • Lobo, il re dei lupi

Un fumetto dopo l’altro… questo per gentile concessione del "compagno di caffè" (che ringrazio). Letto e recensito al volo per ridarglielo subito perché a sua volta lo deve riportare alla Biblioteca delle Nuvole dalla quale lo ha preso in prestito allo scopo di acculturarsi sul multiforme universo dei manga.
Dicono che il signor Ernest Thompson Seton (1860-1946) sia uno scrittore abbastanza popolare in Giappone.



Io non l’avevo mai sentito nominare, neanche per il fatto che è stato uno dei promotori dello scoutismo. Probabilmente chi lo conosce qui in Italia è solo perché ha letto questo manga in cui Jiro Taniguchi e Yoshiharu Imaizumi ne raccontano le avventure, in particolare la prima, quella in cui E. T. Seton, da giovane pittore naturalista inglese (ancora lontana l’idea di mettersi a scrivere qualcosa) trasferitosi a Parigi per dipingere, emigra in America e si imbarca in un’avventura che lo porterà a dare la caccia a un lupo.

Se considerate che da parecchio tempo mi sono schierato in una ferma posizione contro la caccia in genere, e da sempre sono un amante dei lupi (fino ad aver convissuto per dieci anni con uno di loro…), capirete come il sentimento che ho provato leggendo questo fumetto si avvicini molto di più alla rabbia piuttosto che al divertimento.
Ma una storia è una storia, e anche quelle che ti fanno male, come questa, possono essere degne di considerazione.
Lobo è il maschio alfa di un branco di lupi grigi che terrorizza da tempo la Currumpaw Valley con scorrerie che decimano mandrie e greggi. È un lupo straordinario, gigantesco, furbo e intelligente, un vero condottiero refrattario a qualsiasi tentativo messo in atto dagli allevatori per ucciderlo o catturarlo, tanto da fargli attribuire dei poteri mitici e soprannaturali.



Quando Seton giunge quasi per caso nel territorio in cui il branco spadroneggia, si troverà ad ingaggiare con i lupi una lotta senza esclusione di colpi nella quale userà tutte le sue conoscenze naturalistiche per poter liberare la valle da quella che è diventata una vera e propria nemesi per gli allevatori. Lobo e il suo branco eluderanno tutte le tecniche messe in atto di volta in volta dai loro cacciatori facendoli cadere nella più completa frustrazione, fino a che…
É facile prevedere come la storia andrà a finire. E questo comunque non renderà Seton soddisfatto di se stesso, anzi, lo persuaderà a dover scrivere dell’avventura che ha vissuto per provare a cambiare anche negli altri la concezione comune dell’uomo padrone della natura: “Voglio che la gente si renda conto che Lobo è una vittima, simbolo della natura devastata dall’intervento umano.”



Un fumetto doloroso, almeno per me, ma teso e interessante. Anche se il tratto non è tra i miei preferiti, i disegni di Jiro Taniguchi, dallo stile semplice, realistico e occidentaleggiante (per intenderci: niente adolescenti svestite dagli occhioni ipertrofici), rendono bene il dramma raccontato da Yoshiharu Imaizumi con una sceneggiatura ad ampio respiro, inquadrata in una gabbia generalmente di tre strisce con un formato dei riquadri molto variabile. Una pecca potrebbero essere le espressioni, sia umane che lupine, un po’ stereotipate e ripetitive, ma nel complesso ritengo sia una buona storia, con una morale positiva inserita in una tematica interessante.
Comunque, visto che a me questa storia ha fatto male, non penso che leggerò le avventure successive di Seton, quelle in cui interagisce con una lince, con un cervo e con un orso: già mi si fa il mondo nero a pensare che loro possano aver fatto la stessa fine di Lobo.
Ah, tanto per puntualizzare, questa che avete letto è ciò che intendo io per una recensione breve ma onesta e “decente”. Non come quei ridicoli commentini che si pubblicano su Faccialibro solo per farsi belli con le amicizie femminili dopo aver letto un fumetto di alto livello.
E adesso questo che c’entra? Non vi preoccupate, sfizio di blogger, chi doveva capire ha capito…
Il Lettore di fumetti

giovedì 23 aprile 2015

I maestri dell’orzo

Quando l’altra mattina il solito “compagno di caffè” mi ha detto che il nostro comune amico C.F. alla Biblioteca delle Nuvole gli aveva consigliato di leggere I maestri dell’orzo, e che dopo averlo preso l’aveva trovato entusiasmante, mi è tornato alla mente con piacere questo capolavoro di Jean Van Hamme e Francis Vallès: l’avevo letto qualche anno fa, ma al solo sentirne parlare mi è presa la voglia di risfogliarlo.
La fortuna è stata che ho dovuto fare solo pochi passi per tirarlo giù dallo scaffale della mia libreria.




Un semplice fumetto? No, molto di più. La storia raccontata da Van Hamme è emozionante al punto che è stata adattata in uno sceneggiato televisivo in diverse puntate e ne hanno tratto due romanzi; è una storia appassionante, tesa, dal ritmo incalzante, che si snoda attraverso centocinquant’anni e cinque generazioni.
Dalla metà del 1800 alla prossimità del 2000 Van Hamme racconta la saga della famiglia Steenfort, il cui capostipite ha impiantato una piccola birreria a Dorp, un piccolo paesino belga, e come questa minuscola azienda si è ampliata attraverso innumerevoli difficoltà, tradimenti, omicidi e due guerre mondiali fino a diventare un riferimento mondiale nel settore. All’interno della saga la miriade di microstorie dei singoli protagonisti, legate magistralmente in una sceneggiatura elaborata da un vero professionista.
Van Hamme utilizza una gabbia sul classico modello francese di quattro strisce i cui riquadri possono cambiare spesso dimensione e raggrupparsi, ma che al di fuori di ciò è generalmente rigida per non consentire divagazioni che allontanino l’attenzione dalla storia. All’interno dei riquadri una quantità di particolari che vanno studiati con attenzione, perché sia lo sceneggiatore che il disegnatore non lasciano nulla al caso e inseriscono spesso delle metonimìe che saranno spiegate solo nei disegni successivi. La collaborazione dei due autori dà forma ad una sinergia mirabile che permette la creazione di una continua aspettativa: non appena finisce una storia ci sono subito le premesse per la successiva, ognuna costituita da un crescendo di tensione che sfocia in un colpo di scena.



I personaggi sono caratterizzati benissimo durante tutto l’arco della loro vita, complice il disegno realistico di Francis Vallès che non permette fraintendimenti o voli di fantasia e che rappresenta ogni epoca, ogni passo successivo della saga, attraverso uno studio esasperato degli oggetti e delle architetture che ne sono le testimonianze.
Bello. Chi lo considera un capolavoro ha perfettamente ragione. Non ha nulla da invidiare ad un romanzo vero e proprio. Ma del resto che cosa d’altro ci si sarebbe potuti aspettare dal creatore di XIII, di Thorgal e di Largo Winch? Il mio solo rammarico è quello che di storie come I maestri dell’orzo ce ne sono in giro troppo poche.
Il Lettore di fumetti

martedì 21 aprile 2015

La filosofia del brevetto

La filosofia del brevetto può essere considerato un altro “divertimento d’autore”: in questo caso colui che si è divertito è Marco Malvaldi, che dopo diversi romanzi ha sfruttato la sua formazione scientifica (è laureato in chimica) per scrivere 11 racconti incentrati sul tema del brevetto d’autore e sulle difficoltà che incontra chi si avvicina con un’idea qualsiasi ad un qualsiasi Ufficio Brevetti.
Perdonatemi l’immagine che segue (nella quale vi ho riportato i titoli dei racconti), perché in realtà non esiste una copertina vera e propria del libro, in quanto non esiste un vero e proprio libro: i racconti sono stati pubblicati dalla rivista Wired, e il file dell’intera raccolta può essere scaricato gratuitamente dal sito www.wired.it .




Tenete conto che il file è abbastanza pesante (e quindi lento da caricare sui dispositivi mobili), perché i racconti sono illustrati con i disegni di Felix Petruŝka, dal simpatico stile che richiama le illustrazioni scientifiche ottocentesche.
Undici racconti che iniziano ognuno in un modo pressoché identico, con un impiegato di un Ufficio Brevetti che alza gli occhi sulla persona che è appena entrata e “ciò che vede non gli piace affatto”. Di volta in volta, di fronte a impiegati diversi in uffici diversi in tempi diversi, il visitatore che fa storcere il naso all’impiegato (che magari è sul punto di andarsene a casa) può essere un Leonardo da Vinci con le sue fantascientifiche macchine volanti, un Sir Timothy John Berners-Lee con le sue strampalate idee su come connettere il mondo, un John Lasseter affascinato dalla lampada metallica dell’impiegato, un Mark Zuckerberg ossessionato dall’idea di permettere a tutti di impicciarsi degli affari dei propri amici, un Douglas Engelbart che ha appena inventato un topo o uno Steve Wozniak che quel topo lo ha comprato per fargli muovere dei pixel, e perfino una Luisa Spagnoli antesignana del riciclo.
E non è detto affatto che il brevetto per quelle idee vada a buon fine, anzi.
Tre paginette per racconto in una raccolta dalla lettura piacevole, caratterizzata da quella vena umoristica che Marco Malvaldi infonde sempre nei suoi scritti. Si sorride spesso, ovviamente più a ragion veduta se si conosce già l’episodio reale dal quale è stato tratto lo spunto del racconto: se Leonardo e i Baci Perugina li conoscono tutti, questo non è affatto detto per Charles Babbage, né in molti sanno cos’è che ha inventato il signor Egidio Brugola (anche se il cognome è tutto un programma).
Il Lettore 

domenica 19 aprile 2015

Lo Squizzalibro di domenica 19 aprile

Salve salve. Oggi ho voglia di divertirmi, di conseguenza vi propongo uno Squizzalibro difficilissimo! Anche se il libro da indovinare è molto recente e l’autore molto famoso, ma…




1 – Il libro da indovinare oggi è una raccolta di racconti.
2 – Libro? In effetti un libro vero e proprio non esiste, in quanto questa raccolta non è mai stata pubblicata… Non è stata... ma sei scemo? Allora di cosa stiamo parlando? …non è mai stata pubblicata sotto forma di libro, tanto è vero che in libreria non l’avete mai visto e non ne esiste nemmeno una copertina! Sì, sì, sei proprio scemo. Ma famosa lo è, e lo è diventata sotto un’altra forma…
3 – L’autore è italiano, anche lui famosissimo, ma ovviamente non vi dico chi è altrimenti sarebbe troppo facile. Sto cominciando ad incazzarmi…
4 – Il fatto che l’autore abbia conseguito una laurea in una materia scientifica di sicuro lo ha aiutato non poco nello scrivere questi racconti. Che laurea? Col cavolo che te lo dico…
5 – I protagonisti dei singoli racconti sono famosi anche loro, chi più chi meno. Ahh, ora ho capito…
Sono contento per te, vorrà dire che il prossimo Squizzalibro lo farò ancora più difficile…
Freereader

venerdì 17 aprile 2015

La schiava

Bello scherzetto che vi ho fatto, eh? Dopo i racconti di Sette gocce di erotismo vi propongo (ma solo per scherzo, non prendetemi sul serio) questo La schiava, altro pseudoromanzo pseudoerotico della stessa Ilan Asmes autrice del precedente. Ma perché mai? Mi chiederete. Perché il sedere in copertina merita questo e altro, potrei rispondervi, ma in realtà la ragione vera è che mi sento di condividere con voi la fregatura che mi sono autoinflitto da solo.




Fregatura in senso metaforico, dal momento che i due testi in forma digitale non mi sono costati un euro. Il fatto è che mi sono imbarcato nella lettura di quest’altro scritto dichiaratamente pornosoft unicamente per verificare se il romanzo lungo fosse migliore dei singoli racconti.
Non lo è.
La trama: un giovane bellissimo e ricchissimo (ma guarda un po’!) rapisce una giovane socialmente insignificante ma ovviamente bellissima (e come ti sbagli?) per farne la propria schiava per scopi dichiaratamente sessuali. Lei dapprima lo odia a morte (e ci mancherebbe!), quindi inesorabilmente, dopo essere stata violentata più volte da lui e anche da negroni superdotati ai quali lui la concede sia pure con un pizzico di gelosia (violentata sì, ma in modo molto altruistico ponendo sempre in primo piano il piacere della protagonista, eccheccazzo), lei finisce con  l’innamorarsi di lui e comincia ad apprezzare questo essere sbattuta a tutte le ore del giorno e della notte; fino a che, udite udite, anche lui si innamora di lei, e il piacere raddoppia.
Per loro, per il lettore un po’ meno.
Il fatto è che leggere di una serie infinita di amplessi, sia pure con variazioni sul tema, all’interno di una trama scontata, dopo un po’ ti provoca un effetto che non è eccitazione, ma si avvicina pericolosamente alla comicità: ti viene proprio da ridere a pensare allo sforzo fatto dall’autrice a pensare di volta in volta per ogni amplesso ad un’ambientazione diversa, alle posizioni più bislacche, alle penetrazioni più astruse, al verdoniano famolo strano più spinto, con l’intento di provocare i soliti pruriti allo stesso target (femmina di età variabile, sessualmente insoddisfatta, ninfomane solo allo stato potenziale ma con fantasie piccanti) al quale erano destinati i precedenti racconti.
Non sono riuscito ad arrivare alla fine e ho interrotto molto prima del termine una tortura che si è rivelata peggiore del guardare la televisione.
Proprio in questo momento è rientrata mia moglie, mi si è piazzata alle spalle e ha scorso questa recensione in tempo reale. Lei ha letto la porcata prima di me, e una volta arrivata alla fine del paragrafo precedente ha esclamato: hai proprio ragione, è veramente una cosa oscena (oscena non nel senso di “scostumata” o “indecente”, ma in quello deteriore di “pessima”).
Tira là, qualche soddisfazione ogni tanto fa bene all’amor proprio.
Il Lettore che non ne può più del pornosoft

mercoledì 15 aprile 2015

Aufwiedersehen!

È strano venire a sapere che uno dei portavoce della democrazia tedesca degli ultimi decenni si era iscritto volontariamente, a suo tempo, nelle Waffen SS, e si capisce come Günther Grass questa cosa abbia sempre fatto di tutto per tenerla nascosta. Ma del resto qui in Italia abbiamo visto numerosi esempi di dichiarati fascisti che hanno improvvisamente cambiato ideologia politica alla fine della guerra, e per restare nell’attuale capita tutti i giorni che qualche politicante cambi partito ogni dieci giorni. Come a dire che ci abbiamo fatto il callo.
Perlomeno Grass ha avuto la scusante di essersi iscritto alle SS da giovanissimo, quando uno, oltre a non capire un cazzo del suo per la poca esperienza, è più sensibile agli allettamenti della demagogia.




Un altro Premio Nobel che se ne è andato, un intellettuale politicamente impegnato, uno scrittore sempre in prima linea nelle battaglie contro il riarmo e contro l’influenza degli Stati Uniti in Europa.
Non ho mai letto nulla di suo, e questa è una lacuna che più e più volte mi sono riproposto di colmare non raggiungendo mai lo scopo. Capita. Forse lo farò ora, magari cominciando da quel Il tamburo di latta che è il suo libro più famoso.
La morte arriva sempre inaspettata. Per oggi mi ero riproposto di pubblicare un post scherzoso, poi ho letto la notizia e ho voluto rimarcarla su queste pagine. Per sorridere un po' dovrete aspettare venerdì.
Freereader

lunedì 13 aprile 2015

Sette gocce di erotismo

Questo post farà contento colui che mi ha rimproverato di non fornire mai recensioni di romanzi erotici. In questo caso sono racconti ma fa nulla, la sostanza è la stessa. Anche se “sostanza”, a dire la verità, è una parola veramente troppo grossa per una raccolta di sette racconti del tutto insulsi il cui pregio più grande è quello di non superare la novantina di pagine. Anche la parola “erotici” mi sembra abbastanza inappropriata e del resto, a pensarci bene, anche la parola “racconti” è del tutto fuori luogo: Cechov sarebbe inorridito.




Prendete un bicchiere di sciroppo d’acero, aggiungete una tazzina di melassa, mescolate, incorporate quindi quattro cucchiai di zucchero e per finire scioglieteci dentro una quantità a piacere di pasticchine di saccarina. Agitate. Bevete. No no no, non un solo sorso, scolate il bicchiere fino in fondo (aiutatevi con un cucchiaino per ripulirlo bene). Fatto? Come vi sentite? Ecco, ora avete una vaga idea dell’effetto “erotico” che innescano questi racconti di Ilan Asmes. Che poi… ma si può scegliere un nome più brutto da mettere in copertina? Ma è lui stesso, anzi, “lei”, che in fondo al libro ci spiega che tale nome non è altro che l’anagramma di “Messalina” (cazzo! originale!): l’anagramma di uno pseudonimo, manco fossimo alla Cia. Si vede che da quanto l’autrice si è vergognata per aver scritto una tale puttanata ha fatto di tutto e di più per rendersi irriconoscibile.
Ma non crediate che non ci sia sotto qualcosa. I racconti di Sette gocce di erotismo sono pessimi, è vero, ma in realtà dietro di essi si sente la mano di un professionista. Un professionista dello scrivere che conosce grammatica e sintassi, che sa benissimo qual è il target di lettori al quale è destinato il libro e sa come soddisfarli, e sa anche come confezionare un prodotto per consentirgli di vendere qualche copia in più. Di fronte a ciò la vera qualità passa in secondo piano.
Mi sono trovato questa raccolta sotto forma di epub in un blocco di scritti provenienti da amici che ho scaricato sul telefono, e preso dalla curiosità ho cominciato a leggerlo in un momento in cui avevo voglia di qualcosa di leggero. La prosa è decente e l’argomento sarebbe potuto essere interessante, ma i racconti non sanno di niente, mancano del tutto di un minimo colpo di scena finale e sono scritti con un linguaggio il cui scopo è quello di risvegliare dei pruriti in donzelle plurietà inconsciamente frustrate e sessualmente insoddisfatte, che anelano a quel pizzico di trasgressione che non avranno mai il coraggio di trasformare in realtà. Il lessico è studiato apposta per questa fascia di utenza: i sinonimi “pene” e “membro” sostituiscono il più volgare “cazzo”, mentre, forse perché le destinatarie hanno con essa più confidenza, la parola “fica” viene riportata tale e quale senza usare alleggerimenti quali “vulva” o “vagina”. La componente femminile viene sempre tenuta in primo piano, sia come autorealizzazione sia come autonoma capacità decisionale, e le protagoniste riescono sempre a provare orgasmi su orgasmi fino ad uno sfinimento del tutto appagante aiutate in questo da personaggi maschili sfacciatamente altruisti e un pelino al di fuori della realtà. Ma quando mai.
Questo per dire che di eccitante, per un uomo, non è che ci sia un gran ché. Se teniamo conto di ciò e se consideriamo che la struttura di un racconto senza un colpo di scena finale è come una pastasciutta senza soffritto, alla fine restano situazioni scialbe e per nulla interessanti (ma cosa vuoi che me ne freghi di un settantenne che sfoga la sua libidine in una vagina di plastica?).
Se l’intento dell’autrice era quello di accendere i sensi, questo libretto sarebbe molto più utile per accendere il fuoco nel camino di casa Carvahlo.
Il Lettore eccitato nauseato

sabato 11 aprile 2015

L’ex avvocato

Cosa c’è di meglio per rilassarsi di un giallo di John Grisham? Parecchie altre cose… mi risponderete, e in effetti non posso darvi torto, perché a pensarci bene mi vengono in mente almeno quattro o cinque altre attività da non disprezzare affatto. Comunque, in mancanza di meglio anche un buon Grisham aiuta, tanto più che questo l’ho letto tutto sul telefono, per diverse mattine dalle 7.45 alle 8.00, aspettando i comodi dell’altro scribacch scrittore (ehm…) col quale ho un appuntamento fisso tutti i giorni per prendere il caffè insieme e parlare di diversi argomenti tra i quali la letteratura è solo uno dei più innocenti.
L’altra mattina mi ha stupito: è arrivato con più di dieci minuti di anticipo sul suo solito orario. Era in piena crisi di astinenza per aver finito le sigarette. Santa pazienza…




Diciamo subito che questo L’ex avvocato non si colloca nella top ten dei romanzi migliori di John Grisham, ma non per questo è del tutto da disprezzare. In effetti, se cercate una lettura rilassante, che scorre via come l’acqua, il prodotto di un professionista che sa come confezionare un prodotto fruibile dalla gran parte dei lettori, allora con Grisham è difficile che ci si sbagli. Il romanzo si legge con piacere, la trama fila, sin dall’inizio viene innescata quella curiosità che ti permette di arrivare in fondo e non c’è nessuna pecca plateale di quelle che ti costringono ad abbandonarlo. Come si diceva parlando di bridge: un professionista è colui che non sbaglia mai i contratti semplici. E anche nel campo della narrativa il professionista si riconosce perché anche un romanzo sottotono sa impacchettarlo con stile, senza quegli errori marchiani nei quali cadrebbe un dilettante.
Come al solito Grisham mostra una conoscenza profonda del sistema legislativo statunitense e in particolare, in questo caso, del sistema carcerario e delle leggi che regolano le scarcerazioni in seguito a delazioni risolutive di altri casi con il conseguente programma federale di protezione testimoni. L’ex avvocato del titolo, in galera per una colpa non del tutto sua, avvalendosi di questo articolo 35 denuncia il colpevole dell’omicidio di un giudice ed esce di prigione, ma è costretto a cambiare identità e vita per sempre per non essere lui stesso oggetto di ritorsioni.
C’è quanto basta perché la vicenda sia interessante, e anche se il tutto non è eccezionale si legge comunque con piacere; i colpi di scena non sono eclatanti ma in ogni caso ben dosati, e l’aspettativa viene mantenuta fino alla risoluzione della vicenda. Hai passato qualche oretta di spensieratezza, che vuoi di più?
Qualche oretta di sesso selvaggio? Qualche oretta di venticello tra le palme e mare cristallino? Qualche oretta a scivolare su una pista innevata? Qualche oretta a cercare asparagi? Qualche oretta appisolato al sole? Qualche oretta…
Sì, va be’, non ricominciamo…
Il Lettore 

giovedì 9 aprile 2015

Il gene egoista

Abituati come siamo a mettere noi stessi al centro del mondo, a considerare che tutto quello che ci ruota intorno si è evoluto in maniera tale da permetterci di arrivare ad essere ciò che siamo, a considerare l’uomo, di più, noi stessi, come punto di arrivo di una macchina evoluzionistica perfetta ― checché ne dicano tutti coloro che ancora non credono nel concetto di darwinismo -, leggere questo libro equivale a darsi una martellata dove fa più male: un duro colpo per la nostra autostima.




Secondo quanto scrive Richard Dawkins in questo interessantissimo saggio originariamente scritto nel 1976 e quindi ampliato più volte, noi non siamo altro che delle semplici macchine in carne e ossa, sia pure coscienti, ma nient’altro che dei mezzi costruiti unicamente per conservare, salvaguardare e far proliferare quelle piccolissime molecole incoscienti, ignare di se stesse, senza alcuna consapevolezza ma del tutto egoiste che vengono chiamate geni.
Sono solamente loro, e il fatto che pur non essendone coscienti vogliono lo stesso replicarsi a tutti i costi, che permettono la costruzione degli involucri (noi) che li contengono, che ne determinano la nascita, la crescita, la decadenza e la morte in un ciclo inesorabile (per noi) ma costruttivo per loro stessi. Come recita il sottotitolo: La parte immortale di ogni essere vivente, sono solamente i geni che si perpetuano e che comandano la strategia che fa loro più comodo. E questo senza che neanche ne siano consapevoli! Certo, come concetto è abbastanza difficile da capire e ancor più ostico da accettare: ma come! E la nostra coscienza? La nostra intelligenza superiore? L’assioma che l’Uomo si pone in cima alla piramide degli esseri senzienti di questa terra? Tutte cazzate.
Sono i geni che ci hanno costruito che continuano a governarci, che ci indirizzano verso un’evoluzione a noi sconosciuta, e il bello è che questo punto di arrivo è sconosciuto anche a loro.
Il gene egoista è un saggio destinato sia agli esperti che ai profani nel quale Richard Dawkins espone in maniera chiara e accessibile a tutti l’intero percorso che ha seguito per giungere alla sua teoria. Attraverso esaurienti incursioni nella fisica, nella chimica, nella biologia fino alla teologia, Dawkins ha scritto un libro di divulgazione scientifica che nel giro di poco tempo da quando è stato pubblicato è diventato un testo fondamentale e ha scatenato un putiferio di discussioni tra chi lo ha giudicato uno dei libri più importanti del ventesimo secolo e chi invece ne è rimasto infastidito, urtato da questo nuovo modo di interpretare le asserzioni che stanno alla base della biologia e della nostra stessa esistenza.
Nonostante sia saturo di concetti non facili da assimilare il libro si legge benissimo ed è scritto in maniera chiara e lineare. La cosa a mio parere forse più importante è quella che le ipotesi rivoluzionarie di Dawkins dischiudono degli orizzonti ai quali normalmente non pensiamo, e si resta stupiti di fronte a un nuovo modo di pensare al significato della nostra esistenza su questa terra.
È uno di quei casi in cui arriva una luce improvvisa ad illuminare le tenebre: quello che ti rivela può anche non piacerti, ma ora sai che è lì e devi per forza tenerne conto.
Il Lettore 

martedì 7 aprile 2015

Uomini e topi

John Ernst Steinbeck Junior ha scritto questo romanzo subito dopo la grande crisi statunitense del 1929: se lo andiamo a rileggere ora, nel pieno della crisi italiana odierna, possiamo trovarci dentro dei parallelismi deprimenti tra le due situazioni. Ma non disperiamo, che i nostri illuminati governanti continuano a dirci che tutto sta andando bene e la ripresa è alle porte!




In un romanzo di 120 pagine John Steinbeck mette in scena con piglio teatrale la vicenda di Lennie e George, due poveri braccianti che migrano da un lavoro di fatica a un altro sempre con la speranza di un futuro migliore. Lennie è dipinto come un omone dalla forza erculea e dal cervello debole, George come l’amico affezionato che si prende cura dell’ingenuo compagno e cerca di evitargli i guai che potrebbero derivargli dal non saper controllare la sua forza. Nel corso delle peregrinazioni alla ricerca di un lavoro che permetta loro di guadagnare abbastanza per poter rendere reale il loro sogno ― una casetta, un orto, quattro animali da allevare, un coniglio da carezzare ― i due amici si scontrano con la realtà della miseria umana, con le bassezze, con la cattiveria, la prepotenza e la prevaricazione, e l’ineluttabilità di certe scelte che conducono ad un finale tragico attraverso un crescendo che viene lasciato presagire con angoscia.
La bravura di Steinbeck è stata quella di creare una tensione crescente innescata solamente dai fatti che si succedono e dal comportamento dei personaggi, una tensione che monta pian piano del lettore facendogli temere, come infatti succede, che si possa arrivare al dramma. Il tutto utilizzando un linguaggio semplicissimo, con nulla di ricercato, con dialoghi che si susseguono tra gente semplice, di poche pretese e magnificamente caratterizzata. In un susseguirsi di fatti semplici il lettore è preso da vicende intense e commoventi, ma sente che la tragedia è incombente, che qualcosa di irrefrenabile è stato innescato e porterà ad un finale che vorrebbe non dover leggere.
Uomini e topi è un romanzo che tutti dovrebbero assaporare e sul quale tutti dovrebbero riflettere.
Purtroppo una pecca del romanzo, a ottant’anni dalla pubblicazione, è la traduzione in italiano che nel 1937 ne è stata fatta da quel sia pur grandissimo scrittore che è stato Cesare Pavese. Probabilmente anche a causa delle imposizioni e delle censure operate dal regime fascista, Pavese ha usato un linguaggio politicamente corretto per l’epoca, ma che al giorno d’oggi non trova più riscontro e per questo appare obsoleto e molte volte perfino impreciso. Insieme a vere e proprie perle in cui il nostro autore lascia emergere tutta la sua vena poetica, a partire dallo stesso incipit, si incontrano periodi che non rendono il tono originale, con significati del tutto travisati come ad esempio “mascalzone” per “son of a bitch - figlio di puttana” o l’ancora più stucchevole “lazzarone” a tradurre l’epiteto “bastard - bastardo”, rendendo di molto meno incisiva l’intenzione dell’autore. Un editore illuminato dovrebbe prendersi la briga di farlo ritradurre, le nuove generazioni ci guadagnerebbero.
Così come qui da noi ora, anche subito dopo il 1929 negli Usa c’erano una miriade di persone che non sapevano dove sbattere la testa, al punto che in molti hanno scelto di sbatterla direttamente sul marciapiede dopo un volo di qualche piano. Le scelte dei governanti americani di allora, seppure opinabili, in effetti hanno permesso il risollevamento di una situazione disastrata nel giro di pochi anni, mentre qui continuiamo a trastullarci con discutibili placebo e diciamo che va tutto bene. E aumentiamo le tasse.
E non abbiamo nemmeno degli Steinbeck che possano far vedere a tutti com’è veramente la realtà.
Il Lettore 

domenica 5 aprile 2015

Lo Squizzalibro di domenica 5 aprile

Buona fredda Pasqua a tutti, compresi tutti quelli che vogliono farti sentire in colpa perché non la pensi come loro. Scusate, stavo facendo una riflessione tra me e me e in questo augurio ho accomunato diverse categorie di persone che hanno in comune solo il fatto di fare del proprio fanatismo un’arma con la quale tentare di colpevolizzarti per condurti a pensarla nel loro stesso modo. Gli integralisti di qualsiasi credo religioso e i politicanti ridicoli sono solo due di queste categorie.
Ma lasciamo perdere i discorsi seri che oggi è festa. Per lo Squizzalibro di Pasqua ho pensato di farvi arrovellare su un libro famosissimo, una delle colonne portanti della letteratura mondiale del secolo passato. Poi dite che non ho il cuore tenero.




1 – Il libro da indovinare oggi è un romanzo. Pure corto, 120 pagine in tutto, della serie nelle botti piccole sta il vino buono.
2 – Anche se corto è un romanzo impietoso, che mette a nudo problemi di emigrazione, di sfruttamento del lavoro altrui, di emarginazione e povertà, di ingiustizie e sofferenze umane.
3 – Al punto 2) sono elencate tutte problematiche odierne, nelle quali stiamo sguazzando tutti i giorni, ma in realtà, anche se la sua attualità è sconcertante, il romanzo in questione è stato scritto ottant’anni fa.
4 – Ovviamente dell’autore (maschio) vi fornisco solo alcuni indizi, altrimenti sarebbe troppo facile: a soli 14 anni e dopo un’infanzia serena (incredibile!) ha deciso che da grande avrebbe fatto lo scrittore e la cosa gli è riuscita molto bene, diventando uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi; ammirato in tutto il mondo, è diventato amico di capi di stato, scienziati e gente dello spettacolo; ha scritto una ventina di romanzi tutti diventati famosissimi (e pressoché da tutti sono stati tratti dei film), parecchi saggi, articoli per giornali e diverse opere teatrali; lui stesso ha trasposto in chiave teatrale il romanzo da indovinare, ottenendo un immediato successo di critica e di pubblico; è stato uno dei principali esponenti di una delle correnti letterarie più importanti del secolo scorso.
5 – Una carriera da invidiare, coronata, qualche anno prima della morte e ben 25 dopo aver pubblicato il romanzo da indovinare, dall’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura.
Vabbè, stavolta ve l’ho fatta proprio facile, ma non ci prendete il vizio.
Freereader

giovedì 2 aprile 2015

Obiettivo pericoloso

Avete presente quando i due protagonisti si baciano… ed è l’apocalisse? L’apoteosi, i fuochi d’artificio, rulli di tamburi, musiche paradisiache, profumi inebrianti, scoppiettìi in testa, esplosioni a catena, inarrestabili erezioni e scioglimento dei sensi, laghi tra le gambe fino a sentirsi del tutto sfinite, e tutto per un semplice bacio! Cavolo, magari, ci sarebbe da augurarsi. Oltretutto se i due sono bellissimi e affascinanti. Aricavolo, lo voglio anch’io, dov’è che si deve firmare?




Il problema è che i due protagonisti di questo ridicolo thriller di Pamela Clare si baciano ogni due o tre minuti e ogni volta è l’accensione di un fiammifero che dà fuoco alle pagine (a detta della pubblicità di copertina), così scottante che per non ustionarti le dita dopo un po’ sei costretto a posare il libro e rifugiarti nel fazzoletto. Direi meglio per soffocare le risate, o impedire i conati di vomito.
Lui è un poliziotto sotto copertura, alto, bello, misterioso e invincibile, incredibilmente affascinante, innamorato e protettivo, pressoché perfetto. Lei una giornalista testimone di un omicidio, strafiga (ma guarda un po’!), coraggiosa e bravissima ma imbranata quel tanto da apparire del tutto deficiente, con evidenti problemi di ritenzione uterina non appena lui fa l’atto di comparire all’orizzonte. Entrambi affetti da grossi problemi personali che li dovrebbero rendere doppiamente interessanti e dalla capacità innata di ficcarsi continuamente nei casini, oltre ad un nemico comune sotto forma di uno spietato delinquente assassino e stupratore. Come potrebbe non sbocciare l’amore?
In Obiettivo pericoloso questa tale Pamela Clare mette in scena un sexi-thriller stuccoso fino allo stomachevole, costruito con tutta la serie di stereotipi che hanno fatto la fortuna delle Cinquanta sfumature e condito da scene di sesso scritte ad uso e consumo di giovanette (e meno giovani) sull’orlo del calore e desiderose di incontrare l’uomo della loro vita sotto forma di quel poliziotto che le farà sciogliere senza ritegno, sì, ma che per fortuna è giustificato dall’amore smisurato che prova irrefrenabilmente nei loro confronti. Eccheccazzo. Mica ci si può sciogliere così per uno che poi ti pianta per una più bruttina di te o che prima o poi si accorge che sei completamente cretina!
Sì, penso che “ridicolo” sia la definizione giusta per questo romanzetto in cui, oltre ai personaggi ricalcati dai più comuni clichet, l’autrice indugia in una trama decisamente scontata, in un linguaggio discutibile, in accadimenti improbabili, nella ricerca di fatti sensazionalistici e nel continuo ricadere sul sesso per rendere il tutto più piccante ma con il risultato invece di finire nel melenso e nel paradossale.
Ho retto fino a un terzo, poi non ce l’ho fatta più: adiòs, señora Clare, evidentemente il target per il quale hai scritto questo romanzo non contemplava la categoria maschio, italiano, maturo, scafato ed erudito un minimo.
Il Lettore 

mercoledì 1 aprile 2015

Riti di morte

Non è che sentivo proprio il bisogno impellente di leggere un altro giallo di Alicia Giménez-Bartlett, ma questo Riti di morte mi è capitato in un blocco di prestiti e non ho potuto fare a meno di prenderlo: tra un attimo vi spiego il perché.
A proposito di prestiti: da queste parti girano un mucchio di libri in prestito, e dal momento che io sono uno che ai libri ci tiene, anche a quelli degli altri, mi sono organizzato così: i libri che presto in lettura, solo a persone fidate, li segno in un taccuino dedicato unicamente a questo scopo, così non corro il pericolo di dimenticarmi a chi li ho dati (purtroppo in passato è già successo diverse volte), mentre i libri che ricevo li incasello in orizzontale sopra altri libri riposti in verticale sui miei scaffali, appiccicando al muro, sopra di essi, una striscia di nastro adesivo di carta con su scritto il nome di chi me li ha prestati. Così non corro il rischio di dimenticarmi a chi appartengano. Dal momento che in questo periodo ho circa una trentina di libri di altri, da rendere o ancora da leggere, sono costretto a usare questo sistema altrimenti ben presto si finirebbe nel caos.
Il problema è che gli ospiti che ignorano le abitudini di casa si mettono sempre a ridere quando notano la sfilza di nomi appiccicati al muro col nastro adesivo. Sono sempre ben accetti consigli su altri sistemi per gestire la faccenda. Che funzionino, beninteso.




Tornando a Riti di morte, che ora riposa in cima alla pila di dieci volumi sotto la striscia con su scritto “Massimo”, dicevo che ho dovuto prenderlo perché non solo non l’avevo ancora letto, ma è anche la prima avventura della coppia di investigatori seriali della Bartlett, e quindi non ho potuto fare a meno di rendere edotto me stesso sui primi passi del loro rapporto. Il romanzo è stato scritto nel 1994, ha visto la prima edizione nel 1996 ma in Italia è stato pubblicato solo nel 2002 preceduto da ben altre tre avventure successive della premiata ditta Delicado-Garzòn. I soliti misteri dell’editoria italiana.
Fatto sta che in quest’avventura l’ispettore Petra Delicado e il vice-ispettore Fermìn Garzòn si conoscono per la prima volta e sono posti a lavorare insieme a un caso di stupro; lei ex-avvocato entrata in polizia per sfida, lui quasi al termine di una carriera giudiziaria trascorsa nei seminterrati; entrambi relegati a incarichi di terzo piano, quasi reietti e considerati meno di un due di briscola.
La vicenda si dipana tra alti e bassi, molti alti e bassi, decisamente troppi, sia inerenti il caso in oggetto che ben presto si trasforma in più casi di omicidio, sia riguardanti le vicende personali dei due fino alla risoluzione con la quale entrambi si guadagnano i riconoscimenti che prima erano stati loro negati. Il romanzo è leggibile ed è caratterizzato dal solito stile molto discorsivo della Bartlett che indugia decisamente sul lento, consentendo al lettore di venire a conoscenza degli sviluppi delle indagini di pari passo con gli investigatori.
Mettendo in pista questi due nuovi personaggi che diventeranno sempre più importanti nei successivi romanzi, capisco come l’autrice abbia voluto insistere nella costruzione delle due figure, delineando accuratamente entrambi insieme al loro reciproco rapporto che dopo una partenza disastrosa man mano acquista spessore e si consolida con la nascita di una stima reciproca che permetterà loro di lavorare insieme collezionando risultati positivi. Di sicuro al rapporto tra i due viene conferito più peso che all’indagine stessa, che alla fine lascia un po’ il tempo che trova.
In effetti qualche pagina la Bartlett avrebbe potuto risparmiarsela, insieme a diverse incongruenze, a partire dai personaggi che cambiano nome dopo poche pagine, delle quali si sarebbe accorta se avesse fatto un lavoro di editing più accurato. La Bartlett insiste troppo sui pensieri e sulle problematiche personali della protagonista e questo, oltre che allungare a dismisura, dopo un po’ ti fa calare l’interesse nei suoi confronti di pari passo con il crescere di un fastidioso disturbo alle parti basse.
Basta, per finirlo l’ho finito, ma per un po’ di tempo di Petra Delicado non ne voglio proprio nemmeno sentir parlare.
Il Lettore