mercoledì 30 marzo 2016

Sconsacrato

Altro libro pompatissimo per pubblicizzare il quale si fa riferimento a Stieg Larsson e per l’ennesima volta si inventa in italiano un titolo che non ha nulla a che fare con la vicenda né tantomeno con l’originale inglese (The Abomination).
Quale segreto scorre nei sotterranei di Venezia? È la domanda che viene posta in copertina. Ora, a parte che anche il più babbeo dei lettori sa che a Venezia non esistono sotterranei, caso mai l’unico segreto da rivelare sarebbe quello di come fare a riuscire a terminare il libro senza addormentarsi di continuo sulle sue pagine.
E il fatto che in copertina sia anche riportata l’anticipazione che questo non è altro che il primo volume di una trilogia ti indurrebbe a strapparti i capelli ululando alla luna piena.




A parte gli scherzi il libro sarebbe anche leggibile, da parte di un palato che non pretende chissà che, ma presenta un mucchio di difetti notando i quali il riferimento a Larsson ti fa veramente cadere le palle. Di sicuro il richiamo è stato scelto perché fa moda e pubblicità gratuita, e l’unica giustificazione è che nel libro il personaggio più azzeccato è un hacker italianissimo, Daniele Barbo, che crea un sito internet, Carnivia, che è una specie di Second Life ambientato a Venezia nel quale incontrarsi in assoluto segreto grazie a una criptazione del tutto inattaccabile.
Certo è che Daniele Barbo, per quanto interessante, non è Lisbeth Salander, e l’unico spunto meritevole del romanzo non viene approfondito quanto avrebbe meritato ma lasciato piuttosto nel vago dando la preferenza alle indagini per degli omicidi che portano alla scoperta delle macchinazioni internazionali che a loro volta hanno dato origine alla guerra nella ex-Jugoslavia.
E da qui Jonathan Holt si sbizzarrisce nel volerci infilare di tutto: le interessenze della CIA e delle organizzazioni paramilitari private statunitensi nella politica italiana ed europea, l’uso dello stupro di massa (sul quale si insiste non poco) quale mezzo di dominio politico, il controllo da parte della mafia sull’immigrazione di ragazze dell’est da destinare alla prostituzione, la connivenza e la corruzione di alcuni magistrati italiani, il problema del divieto per le donne di essere ordinate sacerdoti, l’uso smodato dei droni da parte dell’esercito statunitense e come potrebbe mancare, udite udite, la storia d’amore tra i due investigatori?
Un mettere troppa carne al fuoco che uccide quel briciolo di interesse che poteva essere stato creato, per di più ricorrendo a personaggi che non emergono per congenita carenza di spessore. Per onestà devo ammettere che Holt ci ha anche provato a renderli interessanti, ma purtroppo per lui non gli è riuscito molto bene. Nonostante quelli che vorrebbero essere colpi di scena il romanzo diventa ben presto noioso e lo tiri avanti solo per vedere come va a finire, ma nel frattempo ti fa passare del tutto la voglia di leggere i volumi successivi della trilogia.
Il Lettore

mercoledì 23 marzo 2016

Lezioni di enigmistica

Ho cominciato a interessarmi all’enigmistica da adolescente, e uno dei ricordi più vividi di quel periodo è la costante difficoltà di riuscire a portare a termine il cruciverba a schema libero di pag. 41 de La Settimana Enigmistica. Difficilmente riuscivo a completarlo, vuoi per mancanza di esperienza o per carenza di cultura, ma ricordo ancora come le definizioni fossero sempre intelligenti e prive delle astrusità che caratterizzano schemi di altri giornali.
Pian piano, man mano che continuavo ad affezionarmi a questo tipo di passatempo, sono riuscito a portarli a termine tutti e anch’io ho cominciato a chiamare quel particolare schema con il nomignolo col quale era già famoso tra gli affezionati: il “Bartezzaghi”.




“Bartezzaghi” dal nome del suo storico autore, Piero Bartezzaghi, rinomato enigmista e padre di quello Stefano Bartezzaghi che ha seguito in parte le orme paterne dedicandosi anche lui allo studio del linguaggio (il relatore della sua tesi in semiotica è stato Umberto Eco) e all’enigmistica come naturale conseguenza.
Bartezzaghi figlio, oltre a inventare anche lui cruciverba (come suo fratello Alessandro) e giochi di parole e a tenere rubriche su quotidiani e settimanali famosi, è anche autore di parecchi libri sull’argomento, tra i quali spicca questo Lezioni di enigmistica che si può considerare come un interessante manuale di avvicinamento a questa complessa branca sia dello scibile che del divertimento umano.
Nel libro l’autore specifica come l’enigmistica può essere divisa in tre grandi settori: l’enigmistica cosiddetta “popolare” e costituita dai più svariati tipi di cruciverba e di rebus, “un’enigmistica un po’ disprezzata dai cultori della seconda enigmistica, che la ritengono troppo facile…” dice lo stesso Bartezzaghi, riferendosi agli amanti dell’enigmistica del secondo tipo, cioè quella detta classica, e che dai suoi appassionati è considerata una vera e propria forma d’arte. Stiamo parlando di enigmi, crittografie e tutti quei giochi a base di parole che esistevano prima dell’invenzione del cruciverba. Il terzo settore è invece riservato a ciò che non è classificabile, come una qualsiasi domanda che richiede una risposta o le infinite possibilità offerte dalla permutazione delle lettere dell’alfabeto.
Bartezzaghi spiega come il primo e il secondo tipo di enigmistica non esisterebbero senza il terzo, e quindi passa a illustrare tutti i giochi possibili dei primi due settori, chiarendo come funzionano i rebus e quali sono i trucchi per risolverli, cosa sono le crittografie, sciarade, indovinelli, bifronti e palindromi, anagrammi e ambigrammi, per proseguire con gli svariati tipi di cruciverba, come si distinguono quelli più o meno “belli” e per quali ragioni lo sono, e perfino fornendo consigli sul come si costruiscono.
E non mancano neppure sezioni sulla storia dell’enigmistica o sul suo futuro, un glossario e una bibliografia di testi e giornali per esperti o dilettanti. Una completa enciclopedia dell’argomento.
Ho letteralmente divorato questo interessantissimo “manuale”, scritto benissimo e di una chiarezza esemplare, divertendomi nel leggere i numerosissimi esempi che Bartezzaghi riporta a esplicazione di ogni tipologia di gioco e imparando anche qualcosa, come ad esempio la tecnica di risolvere gli anagrammi “rompendo i legami subatomici tra le lettere”.
Sì, ma… costruendo poligoni geometrici o righe sfalsate di vocali e consonanti?
Il Lettore enigmista

giovedì 17 marzo 2016

Il cimitero dei vangeli segreti

E per restare in tema di frasi pubblicitarie impresse in copertina (in quarta) per spingere ad acquistare il libro di turno, vi segnalo anche queste: “Un thriller inquietante come Stieg Larrson, avvincente come Il silenzio degli innocenti…
Ma siamo seri… chi ci cade più? Io no, perché non ho sborsato quattrini nemmeno per questo romanzo e in ogni caso non l’avrei fatto, ma forse molti addetti al commerciale delle case editrici pensano ancora che paragonare qualsiasi romanzo a quelli veramente belli e conosciuti faccia ancora vendere, e forse hanno ragione loro: il numero degli imbecilli è sempre maggiore di quanto uno possa credere.
E ancora: il titolo del libro è Il cimitero dei vangeli segreti, ma non sperate di trovarvi cimiteri in cui sono abbandonati libri sacri, o che vi si parli di vangeli apocrifi et similia, perché il titolo non c’entra proprio nulla con il contenuto, né richiama nemmeno lontanamente la trama. Sì, c’è un prete di mezzo, basta. Un’altra geniale trovata delle nostre case editrici, tanto è vero che l’originale faceva The Priest’s Graveyard, ed era almeno un pochino più sensato.




Al protagonista Danny Hansen vengono stuprate e uccise sotto gli occhi la madre e le sorelle durante la guerra nell’ex Iugoslavia, e in seguito a questa tragedia il ragazzo dapprima si trasforma in un esperto combattente e quindi, trasferitosi negli Stati Uniti, frequenta il seminario e diventa un prete dedicando la sua vita ad aiutare il prossimo.
Un prete con un hobby particolare: nel suo tempo libero Danny rapisce persone abiette, assassini, stupratori, pedofili, i cosiddetti “cattivi” insomma, e cerca di convincerle a ravvedersi cambiando del tutto il loro modo di essere. Se lo fanno buon per loro, altrimenti Danny le uccide senza stare a pensarci più di tanto. Il cosiddetto angelo vendicatore al di fuori della legge.
Il problema sorge quando libera una vittima, Renee Gilmore, dai suoi aguzzini e i due finiscono ovviamente con l’innamorarsi complicandosi non poco la vita e dando origine a una serie di peripezie nelle quali la tematica di fondo è se sia lecito ed eticamente sostenibile usare il male per combattere il male.
Un romanzo leggibile, scritto bene a parte qualche esagerazione nel comportamento dei protagonisti e che ti permette di arrivare ad un finale un poco sbrigativo ma in fondo plausibile. Non così buono da spingerti a leggere di nuovo lo stesso autore, ma tutto sommato decente.
Una tecnica particolare usata da Ted Dekker è quella di impiegare due narratori diversi per lo svolgimento della trama: le parti in cui agisce Danny sono raccontate in terza persona dal classico narratore onnisciente, mentre il punto di vista di Renee è raccontato da lei stessa in prima persona. Schiribizzi autoriali, ma in fondo la cosa non dà fastidio e contribuisce alla fluidità dell’insieme.
Il Lettore 

giovedì 10 marzo 2016

L’inganno

Ancora una volta mi colpisce la frase riportata in copertina per pubblicizzare questo romanzo di Jonathan Kellerman, frase che in questo caso si riferisce ai due investigatori protagonisti del libro e li paragona nientedimeno che a Sherlock Holmes e al suo fido Dottor Watson. Nel caso in esame, Milo Sturgis è un tenente della omicidi di Los Angeles e Alex Delaware, oltre che vestire i panni dell’io narrante, cioè di colui che racconta la storia,  è un docente di psicologia che aiuta Sturgis nelle sue indagini.
Il paragone tra le due coppie mi ha colpito perché ha sottolineato una volta di più come uno scrittore abbia bisogno della figura della spalla per consentire al protagonista di essere raccontato. Avete mai visto Watson fare qualcosa di concreto? Intervenire in maniera sostanziale in un’indagine di Holmes? Prendere un’iniziativa? Io non mi ricordo. Sta lì solo per consentire a Holmes di parlare e a porgli domande le cui risposte chiariranno al lettore molte situazioni.
Così Delaware. Il narratore di questo romanzo di Kellerman sta lì solo a guardare e a raccontare. Non fa mai nulla  se non permettere a Sturgis di abbuffarsi approfittando del proprio frigorifero. Né Sturgis sembra essere particolarmente illuminato dai dialoghi con Delaware per giungere alla risoluzione del caso.
Una spalla perfetta, un anodino gentiluomo che svolge la sua funzione senza essere invadente. Il fatto è che Delaware non è Watson, così come Sturgis è ben lontano dall’essere un Holmes.
Quindi per favore lasciamo perdere l’originalità della coppia. Hap e Leonard sono avanti anni luce.



Con questo non voglio dire che questo L’inganno non meriti, anzi, mi ha soddisfatto abbastanza e l’ho considerato una buona lettura pur non essendo un capolavoro. Ma la trama si regge, i personaggi sono sufficientemente caratterizzati e non ci sono cali di tensione sostanziali.

Il romanzo si legge benissimo grazie al ritmo molto veloce dovuto soprattutto all’abbondanza di dialoghi: tutta l’indagine su un omicidio è condotta dai due investigatori solamente parlando con le persone interessate, che siano testimoni, parenti, amici o colleghi della vittima, altri poliziotti, delinquenti, emarginati, prostitute, studenti o rappresentanti del potere economico di LA, e solamente “intervistando” una marea di persone i due giungono alla soluzione del caso, senza stonature narrative o improvvise rivelazioni piovute dal cielo tipiche del romanzetto di quart’ordine. I dialoghi reggono, sono cuciti su misura per i singoli parlatori e sono sufficientemente intelligenti da non far storcere il naso a un lettore smaliziato.
Cosa vuoi di più? Nella catasta dei libri da leggere ne ho un altro dello stesso autore, e ben presto mi metterò a leggere anche quello con lo spirito un po’ sollevato: perlomeno ora so che Kellerman scrive in modo decente.
Il Lettore 

lunedì 7 marzo 2016

La città d’oro

Mi ha tenuto sveglio fino all’alba. Un libro meraviglioso!” C’è scritto sulla copertina di questo libro (in alto a sinistra, controllate pure), e queste parole dovrebbero essere state pronunciate da Douglas Preston, ma sì, quello che insieme a Lincoln Child è diventato famoso dapprima con il romanzo Relic e quindi con la creazione di uno degli investigatori più interessanti di questi ultimi tempi: Aloysius Pendergast, senza il quale l’FBI sarebbe ridotto a una manica di pezzenti.
Ma io dubito che Preston abbia mai pronunciato queste parole, e dubito anche che il libro lo abbia letto davvero. O forse si è confuso con qualcos’altro. O forse lo ha tenuto sveglio perché quella notte il vento ne faceva sventolare le pagine. O forse perché per una scossa di terremoto il libro è caduto dal comodino svegliandolo.
Ma è possibile anche che un autore in gamba prima o poi si rincoglionisca. Va a sapere.




Fatto sta che questo La città d’oro è veramente brutto. Non tanto da piantarlo a metà ma abbastanza da farti provare un profondo senso di delusione alla fine. Un polpettone storico nel quale l’autore Leonardo Gori ha voluto mischiare la pestilenza di Firenze con i primi viaggi nel nuovo mondo, la visione di governo di Niccolò Machiavelli con quella utopica di Tommaso Moro e le lotte tra Inghilterra e Spagna per il predominio sui mari nel ‘500.
Un polpettone (e due) che ti spazientisce perché vorresti scoprire subito come va a finire e invece sei costretto a sorbirti viaggi interminabili, novelli agenti segreti dei quali non capisci né il senso né le capacità, inspiegati e inspiegabili personaggi di contorno, assassini feroci del tipo supereroe invincibile e uno o due amori tanto per gradire. Il tutto in una storia completamente priva di una plausibilità concreta, nella quale il cosiddetto protagonista non serve assolutamente a nulla, nel corso del romanzo non fa mai qualcosa di interessante di sua spontanea volontà e alla fine si lascia manovrare come un pupazzetto. Bel modo di trattare il protagonista.
Un polpettone (e tre) pieno di personaggi stereotipati e di azioni che si sente come siano state messe lì senza alcuna ragione apparente se non quella di fare colpo, come la quasi totalità degli ammazzamenti che non sono neanche giustificati da ragioni fondate, tanto da far vacillare più volte il patto di sospensione dell’incredulità. Si naviga nel banale e nell’assurdo sfiorando spesso il ridicolo.
Bah, l’unica consolazione è quella di non aver speso soldi per comperarlo.
Il Lettore 

martedì 1 marzo 2016

I duri non ballano

Ricorrendo ad un sillogismo del tutto sbagliato potrei anche pormi una domanda azzardata: dal momento che non mi è mai piaciuto ballare, sono io stesso un duro? Dilemma esistenziale di non poco conto, sul quale potrei anche non dormirci la notte. Ma questa affermazione è uscita da una personcina del calibro di Frank Costello, e se crediamo a Renzi possiamo credere anche alle parole di uno dei più grandi delinquenti italo-americani.




Di Norman Mailer avevo letto, molto tempo fa, quell’Antiche sere che molti ritengono sia il suo romanzo migliore, un’opera affascinante ancorché impegnativa, ambientato nell’antico Egitto tra faraoni, dei, mummie ed esoterismo.
Con questo I duri non ballano invece l’autore torna ad un presente costituito dalla media borghesia di paese dell’East Coast statunitense, realizzando una mistura tra giallo, noir, romanzo di vita e denuncia delle schifezze della società americana in pieno edonismo reaganiano .
Il protagonista Tim Madden, mediocre scrittore abbandonato dalla moglie, dopo una solenne ubriacatura della quale non si ricorda nulla trova due teste di donna mozzate nella sua coltivazione privata di cannabis. Inizia allora un’indagine tortuosa per scoprire se sia stato lui stesso ad uccidere le donne o chi altro, cercando nel contempo di non farsi accusare dei delitti dalla polizia.
Per come è scritto, questo romanzo potrebbe anche essere collocato, insieme ad Antiche sere, nello scaffale riservato alla letteratura più alta, se non fosse per il tono noir e l’ambientazione bukovskiana, tra continue ubriacature, sniffate, omosessuali sordidi, plateali americanate, orge, tuffi nell’esoterico, donne di costumi estremamente facili, pervertiti viziosi e descrizioni particolareggiate di organi sessuali, palpeggiamenti, coiti e fellatio tanto spinte da sfiorare la pornografia.
Mailer però fornisce una prova di prosa penetrante, fluida ed estremamente particolareggiata, con continue concatenazioni che allontanano temporaneamente il lettore dal filone principale ma forniscono delucidazioni su svariati aspetti della vicenda fino a comporre un quadro completo ed esaustivo.
Nei suoi scritti, Norman Mailer estrinseca una logorrea irrefrenabile (di quelle che quando leggi sei portato a pensare che lui scriva tutto ciò che gli passa per la testa senza operare alcun tipo di cernita), insieme a una capacità descrittiva fuori dal comune. A questo proposito mi viene in mente ciò che scrivevo in un post di pochi giorni fa riguardo i dilettanti della scrittura che, pensando di risultare sufficientemente evocativi, nel descrivere una qualsiasi situazione tratteggiano qualcosa del genere: “tutti quegli odori, colori, sapori mi ammaliavano…”, senza specificare quali siano le reali qualità di questi sostantivi. Un po’ come esclamare solo “buona!” dopo aver assaggiato un’aragosta alla Demidoff. Mi è tornata in mente questa mia considerazione mentre leggevo questo brano di Mailer:
 “Dalla cima di una di quelle modeste alture, se il vento era forte, si poteva scorgere in lontananza l’acqua del mare barbagliare fra scaglie di luce e spume, mentre il colore delle pozze restava d’un bronzo scuro e sporco. Fra l’uno e l’altro colore, c’era tutta la tavolozza del bosco. Mi piaceva il verde opaco dell’erbaccia sulle dune e il pallido verde degli sterpi e, in quel panorama di tardo autunno allorché le foglie hanno perso il rosso sangue e l’arancione bruciato, i colori si riducevano al verde e al grigio e al bruno, ma con quale gioco frammezzo! Il mio occhio era uso trovare una danza di tinte superstiti fra i grigi dei campi e il grigio tortora, il grigio lilla e il grigio fumo, il bruno delle felci e il bruno delle ghiande, il bruno volpe e il grigio topo e il grigio allodola, e il verde bottiglia del muschio, e il colore dello sfagno e il verde abete, il verde dell’agrifoglio e il verde dell’acqua del mare all’orizzonte. Il mio occhio era uso dardeggiare da un lichene su un tronco all’erica in un campo, dentro e fuori delle erbe palustri e dell’acero rosso (non più rosso ma color corteccia bagnata) e l’odore del pino resinoso e le forme contorte dei quercioli erano dentro la quiete del bosco mentre arrivava il vento tra le foglie più alte, insieme al fragore della risacca.
Altro che lasciare nel vago! Contrariamente a quanto riesca a un dilettante, Mailer ti fa sentire proprio al centro di quella situazione, vedi quello che vede lui, lo senti con precisione, ne percepisci quel preciso odore, rabbrividisci stringendoti nel tuo giaccone per proteggerti dalla brezza autunnale, ne capti tutte le sfumature senza che nulla venga lasciato alla vaghezza di una generalizzazione. Ma già, dimenticavo, Norman Mailer è un professionista.
Anche nel campo della regia cinematografica: nel 1987 questo romanzo è stato trasposto da lui stesso nell’omonimo film con Ryan O’Neal nella parte del protagonista Tim Madden, e Isabella Rossellini in quella della sua ex amante Madeleine, della quale nel romanzo è descritta la fica in un modo talmente meticoloso che ti sembra di stare lì ad annusarla e contemplarla dalla  distanza di un palmo.
Lì per lì avevo pensato di riportarvi anche questo brano,  ma avrei rischiato veramente di cadere nello scabroso.
Il Lettore