lunedì 28 aprile 2014

La regina degli scacchi

Nel 1983, in seguito all’uscita di questo romanzo di Walter Tevis, si scatenò una diatriba sul perché nel gioco degli scacchi le donne non fossero mai riuscite a raggiungere gli stessi livelli degli uomini.

Vennero tirate in ballo differenze nella bravura, ma andando a scavare la teoria non reggeva. Si dette la colpa all’intuizione, che secondo alcuni nelle giocatrici era carente, ma anche questa ipotesi non trovò suffragio. Fu una donna che andò a cercare la soluzione nelle mestruazioni, ma anche questa era sbagliata.


A parer mio in uno “sport della mente”, come da anni vengono riconosciuti gli scacchi e il bridge, la ragione della differenza di rendimento tra uomini e donne va individuata nella diversa capacità di mantenere un altissimo livello di concentrazione per lunghi periodi.
Tutte le donne che ho avuto l’onore di avere come partner bridgistiche in tornei ufficiali, pur non mancando affatto di una consistente dose di bravura non di rado superiore alla mia, nel corso di sedute di gioco che arrivavano spesso a sfiorare le 6-7 ore consecutive incappavano sempre in quel quarto d’ora in cui la loro mente se ne andava a viaggiare su altri lidi, dando origine talvolta a disastri irrimediabili. Non chiedetemi perché. Ho imparato che la mente femminile è fatta così, non ve la prendete con me.
(A proposito di concentrazione sul gioco ricordo ancora una partita libera in cui ero al tavolo contro quella che sarebbe poi diventata mia suocera. Era il suo turno di giocare, e la vedevo assorta in una lunga riflessione con gli occhi sul ventaglio delle proprie carte, tanto da farmi traversare la mente dalla maligna considerazione: “ be’, finalmente sta pensando…”. Dopo un intervallo di una lunghezza tale che se fossimo stati in torneo avrebbe infranto la liceità, finalmente alzò gli occhi verso la sua compagna ed esclamò: “Pensavo a quanto era carino quel maglioncino che avevi l’altro giorno!”).
Ma torniamo al libro, che merita.
La regina degli scacchi è uno splendido romanzo che racconta di come una bambina relegata in un orfanotrofio abbia imparato da piccola a giocare a scacchi e abbia perseverato tra mille difficoltà fino al punto, dopo pochi anni, di diventarne campione mondiale. Detta così in poche parole può sembrare riduttiva, ma vi assicuro che Walter Tevis è riuscito ad inserirci una serie di vicissitudini e di sentimenti che rendono questa trama densa di lotta, di sofferenze, di patimenti, di tenacia e riscatti personali, di indagini nei meccanismi psicologici dei combattimenti su scacchiera. Un libro profondo, che non a caso fa venire in mente le lotte politiche internazionali e quel Bobby Fischer che con tutta probabilità è stato il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi.
Lo stile è avvincente, senza alcuna concessione all’autorialismo, nessun concetto “gentilmente” elargito dal narratore. Tevis ti accalappia all’inizio senza farsi affatto percepire, e ti “costringe” a seguirlo fino alla fine emozionandoti nel contempo.
Del resto che cosa ci si sarebbe potuti aspettare dall’autore di quel fantastico L’uomo che cadde sulla terra? Una storia in cui la figura del protagonista alieno è dipinta con una bravura tale da far percepire al lettore tutta la fragilità e la malinconia che pervadono l’extraterrestre, il suo spaesamento, la disperazione di chi sa che non rivedrà più la sua terra. Bellissimo, un pugno in faccia a tutti quelli che considerano la fantascienza come una categoria di secondo livello.
E molte persone non sanno che Tevis è l’autore del romanzo Lo spaccone, da cui l’omonimo e indimenticabile film con Paul Newman come protagonista, nonché del sequel Il colore dei soldi.
La regina degli scacchi non è un “semplice” romanzo, così come gli altri romanzi di Tevis non sono “semplici” opere di fantascienza: Tevis faceva letteratura, e di altissimo livello. Leggi un suo romanzo e questo ti resta dentro, ti ci interroghi sopra, ne assapori stile e contenuti per parecchio tempo dopo averlo terminato.
Con lo stesso titolo è anche uscito un film della regista Claudia Florio nel 2002, ma la vicenda non è quella del romanzo.
Il Lettore 

sabato 26 aprile 2014

Un lampo nell’ombra

Innanzitutto diciamo che questo romanzo è catalogato come un Giallo per Ragazzi, tanto è vero che è uscito nella collana “Feltrinelli KIDS”, ma “per ragazzi” non lo è affatto.

Per diverse ragioni, e non fosse altro perché gli adolescenti di oggi non saprebbero apprezzare tutti i cammei di cui il testo è farcito.


Ma è di sicuro un libro che a Gil Grissom piacerebbe molto, perché oltre ad essere un giallo è anche un viaggio alla riscoperta degli albori della ricerca scientifica finalizzata alla criminologia, quella che ha raggiunto la sua apoteosi mediatica in CSI – Scena del crimine.
Sergio Rossi ha una formazione da Fisico; lavora come consulente editoriale; ha già pubblicato dei romanzi per ragazzi; è uno dei più ferrati esperti di Fumetto che ci siano in Italia, tant’è vero che ha dato alle stampe anche due interessanti saggi (sul fumetto erotico e politico italiano); è stato direttore della rivista Fumo di China; scrive su diversi giornali ed è tra i fondatori della Biblioteca delle Nuvole, con tutta probabilità la più grande biblioteca italiana di soli fumetti.
Tutto questo oltre ad essere un caro amico, di quelli che purtroppo si vedono ogni morte di papa. E se a questo punto dovessero sorgervi dei dubbi sulla mia integrità (e so anche a chi potrebbero venire…), sappiate comunque che se questo romanzo fosse stato una porcata non mi sarei tirato indietro dallo stroncarlo, o perlomeno lo avrei ignorato.
La trama di Un lampo nell’ombra parte dall’assassinio di due uomini e si dipana basandosi sulle indagini svolte da quella che era la polizia scientifica dell’epoca in una Bologna di inizio Novecento fervente di cambiamenti. I personaggi che man mano entrano in scena sono ben caratterizzati e non mancano di quella simpatia che li rende da subito piacevoli al lettore; lo stile è semplice e lineare benché ricchissimo di citazioni e riferimenti storici e in pratica la lettura è scorrevole fino alla fine che si rivela densa di intrighi internazionali e finti (o veri) tradimenti inaspettati.
Ma la vicenda è servita all’autore per soffermarsi anche su altri temi densi di interesse: la ricostruzione storica di una città importante, il ripercorrere le vicissitudini dell’avvento del fumetto, l’analisi del passaggio dalle teorie di Cesare Lombroso ad una più rigorosa investigazione del crimine, l’istantanea dello stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, la disamina delle abissali disparità sociali tra ceti diversi, gli intrecci della politica europea negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, e non poteva mancare una doverosa liaison dai toni romantici.
Il tutto condito da una quantità impressionante di citazioni storiche, scientifiche, fumettistiche, geografiche, letterarie e gastronomiche, più o meno palesi, con riferimenti che vanno da Verne a Marinetti, da Collodi a Mascagni, da Conan Doyle a Lombroso a Shakespeare, da Collins a Poe, da Vamba a Magnus e perfino a Douglas Adams in terzultima pagina, solo per citarne alcuni, senza mai cadere nel saccente ma anzi, fornendoti piacere quando riesci a riconoscere quelle più nascoste. E soprattutto senza annoiare, in questo supportato anche dal frequente uso del dialogo che il più delle volte è serrato con poche concessioni alle contestualizzazioni (e questo modo di colloquiare per iscritto ricalca quello di altri narratori di mia conoscenza…).
Una lettura piacevole, allo stesso livello dei gialli che per ragazzi non sono. Una piccola pecca che ho notato, amplificata dalla collocazione quasi a specchio alle pagine 100 e 101, sono ben due refusi: se questo si può perdonare in una piccola casa editrice, dai curatori di Feltrinelli non ce lo si aspetterebbe.
Un altro mio carissimo amico di gioventù, compagno di scuola e di basket, attualmente si trova proprio al vertice della sezione di medicina legale della questura di Bologna: chissà se avrà letto questo romanzo?
Il Lettore

giovedì 24 aprile 2014

La spada e la seta

Per un appassionato di arti marziali la lettura di questo romanzo autobiografico di Mark Salzman è come un tuffo in piscina per una persona accaldata: piacevole, rilassante e rinfrescante. Le arti marziali, e in particolare il ju jitsu, hanno ricoperto un ruolo importante nella mia vita e, anche se Salzman parla di kung fu, è sempre piacevole ripercorrere sentieri sui quali si è camminato e che pur transitando per itinerari diversi conducono tutti alla stessa meta.


L’autore, appassionato di arti marziali fin da bambino, decide di dare una svolta alla sua vita e di fare di queste discipline il centro della sua esistenza. Allo scopo si trasferisce in Cina e inizia a percorrere un lungo viaggio di addestramento e di formazione spirituale che lo porterà ad apprendere tecniche e segreti del wushu, cioè di tutte le forme cinesi di combattimento con e senza armi delle quali la più famosa è quel kung fu fatto conoscere al mondo cinematografico prima da quel personaggio unico che è stato Bruce Lee e quindi dal più umoristico, ma non meno bravo, Jackie Chan.
Il risultato trasposto in un romanzo è un prodotto godibile con rilassatezza: l’impatto tra un occidentale e la cultura cinese fornisce lo spunto per episodi con contenuti che vanno dal tenero all’umoristico, senza tralasciare l’importanza celata nel significato nascosto che è situato oltre l’aspetto esteriore e puramente formale del cammino delle arti marziali.
Da qualche altra parte in passato ho scritto: “Il karate, il jujitsu, il judo, il kungfu, l’aikido, il taekwondo, una qualsiasi di queste discipline, con la psicologia orientale che è loro connaturata permette, insieme all’allenamento fisico, di ricercare una dimensione spirituale nella quale si è portati ad approfondire la conoscenza di sé e in cui si consolidano di continuo i princìpi delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Di queste virtù dovrebbe essere dotato ogni essere umano. Esse non sono enfatizzate solamente dall’insegnamento religioso, che a volte spinge a dei veri e propri eccessi, ma fanno anche parte integrante del bagaglio psicologico delle arti marziali.”
Al giorno d’oggi potrebbe sembrare anacronistico il dover faticare anni per imparare a padroneggiare l’uso di una spada o di una lancia. Del resto, come dice uno dei personaggi del romanzo, quante occasione si avranno mai per poter usare un’arma del genere? Ma l’essenza dell’addestramento all’uso della spada va oltre il mero aspetto combattivo e non è altro che un espediente per raggiungere quella profonda conoscenza di sé che risulterà fondamentale in tutti gli aspetti della vita futura. 
Dal libro è stato tratto anche un film dal titolo italiano, “Ferro e Seta”, che ricalca l’originale inglese “Iron and Silk”, con protagonista lo stesso autore del romanzo.
Il Lettore 

martedì 22 aprile 2014

Il Vangelo secondo la scienza

A parer mio, tutti quelli che hanno criticato questo saggio e ne hanno sostenuto l’inutilità sono  del tutto in errore. In molti si sono scagliati contro Piergiorgio Odifreddi all’uscita di questo libro dal sottotitolo “Le religioni alla prova del nove”, e ciò perché forse si aspettavano di trovarvi delle risposte che, ovviamente, non ci sono.


C’è da considerare anche che la maggior parte di quelli che l’hanno criticato sono credenti e inseriti nell’ambiente clericale, e va da sé che avrebbero criticato qualsiasi cosa scritta da un non credente.
Quello che colpisce del libro di Odifreddi, come per molti altri suoi scritti, è il livello di erudizione e la cultura enciclopedica, che ti fanno sentire l’ultimo degli ignoranti perché magari non conosci qualcuno dei personaggi che lui cita e il relativo pensiero. Il problema è che ne cita una marea.
In pratica l’autore si pone il quesito se sia lecito porsi la domanda, o le domande, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? e su questa base opera un excursus sui pensieri di tutti i pensatori di tutte le religioni di tutti i tempi in tutte le aree geografiche del nostro pianeta, confrontandoli con i risultati raggiunti dalla scienza fino ad oggi per cercare un punto di contatto che riesca a chiarire le idee su quelli che sono i più grandi interrogativi che l’uomo possa porsi (no, non vi è contemplato il cosa faccio per cena stasera?).
Da qui una serie interminabile di religioni, teorie scientifiche, pensatori e filosofi che hanno cercato di risolvere l’enigma ognuno a modo proprio, suffragati o meno dalla concretezza di una miriade di scoperte e teorie scientifiche che a volte avvalorano, ma il più delle volte sono in contrasto con il pensiero delle persone credenti in un qualche Dio che abbia creato il Tutto (e da qui le critiche).
Non poche volte questa serie di cose pensate lascia il tempo che trova e te le scordi subito dopo averle lette, provando il desiderio di giungere subito alla fine che, nonostante tu te lo aspettassi, ti lascia deluso per la mancanza (ovvia) di qualsiasi certezza, sia che essa provenga dalla scienza che da qualsiasi religione.
Alla fine sì, la domanda è lecita, ognuno può porsela (grazie al cazzo), ma ad essa finora non esistono soluzioni (arigrazie al cazzo) a meno che tu non sia credente e riponga tutto nella Fede.
Se ti scordi per un attimo quella che è veramente un’interessante disamina del pensiero profondo nel corso dei secoli, in effetti può anche venirti il sospetto che Odifreddi abbia scritto un qualcosa di completamente inutile…
Il Lettore 

domenica 20 aprile 2014

Lo Squizzalibro di domenica 20 aprile

Una felice Pasqua a tutti! Per me è già cominciata male, come tutti gli anni: il bar dove di solito faccio colazione in questo giorno resta chiuso, così come a Natale, e sono costretto a giri inenarrabili per trovare un altro posto dove poter cominciare la giornata con un sandwich decente e un caffè bevibile. Ma ognuno ha i suoi problemi, quindi passiamo subito al quiz di oggi che vi preannuncio difficilissimo, la cui soluzione è un libro di certo non per tutti e che probabilmente hanno iniziato in pochi, e ancora in meno ne avranno visto la fine.


Pronti?
1 – Non è un romanzo, ma un saggio.
2 – L’autore è italiano, conosciuto da molti, ma non è uno scrittore. O perlomeno è anche uno scrittore, ma la sua professione principale è un’altra.
3 – Ho letto altri scritti di questo autore rimanendone sempre colpito dalla sua erudizione, dalla profondità del pensiero, dall’ampiezza del lessico e dalla capacità di ragionamento. Alcune volte anche dalla sua incomprensibilità.
4 – L’argomento del saggio non sta in cielo e non sta in terra. O forse sta in cielo e non in terra, ma secondo alcuni sta sicuramente in terra ma non in cielo. Che terra e cielo siano una cosa sola? O entrambe appartengano al vacuum? Sì, lo so, non ci si capisce nulla, ho cercato maldestramente di copiare lo stile dell’autore.
5 – Nel saggio vi sono domande, ma non vi si trovano risposte.
La prossima volta la faccio più facile, promesso.
Freereader

venerdì 18 aprile 2014

Il re è morto, viva il re!

Ieri è morto Gabriel Garcia Marquèz, uno dei massimi esponenti della letteratura latinoamericana del novecento e Premio Nobel 1982.
Un altro grande scrittore che se ne va, uno di quelli dalla faccia simpatica e dalla penna feconda, lasciando che si infoltisca la schiera di quelli scarsi.
Con lui ho sempre avuto un rapporto contrastato: pur ammirandone e riconoscendone le qualità dello stile e della prosa, non sono mai riuscito a terminare qualcosa di suo. Così come del resto per una buona altra parte degli scrittori latinoamericani. Pur approcciandomi a più riprese ai suoi scritti, da Cent’anni di solitudine, del quale non sono mai riuscito a superare la centesima pagina, a Memoria delle mie puttane tristi, pur insistendo reiteratamente nel corso degli anni a provare ad apprezzare le sue storie dal profondo contenuto sociale, alla fine il segnalibro restava sempre inserito in qualche punto del volume senza mai andarsene del tutto.
Idiosincrasie quasi ingiustificate, delle quali mi restano ancora parecchi rimorsi con i quali però ho accettato di convivere. Ne riconosco la bravura, ma la noia e soprattutto il disinteresse hanno sempre preso il sopravvento. Del resto, un romanzo dove tutti i protagonisti si chiamano Aureliano Buendìa resta ben oltre la mia capacità di sopportazione.

Il Lettore 

mercoledì 16 aprile 2014

I segreti della Sistina

Michelangelo Buonarroti amava la scultura e non era attratto dalla pittura; in un ambiente esteriormente omofobico amava gli uomini e le donne non lo interessavano; la sua formazione, supervisionata da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, aveva instillato in lui un sapere non comune e una profonda conoscenza dell’ebraismo; non condivideva affatto la politica vaticana dell’epoca e Papa Giulio II gli stava anche un po’ sul cazzo.
Nonostante ciò ha accettato l’incarico di dipingere quello che poi è diventato uno degli affreschi più famosi al mondo, se non il più famoso, sulla base di una committenza che avrebbe voluto sul soffitto della Cappella Sistina una glorificazione e del Cristo e della famiglia di Giulio II, i Della Rovere.

Ma la sua genialità gli ha permesso di realizzare tutt’altra cosa, riuscendo perfino a non farsi giustiziare al termine dei lavori.


È ciò che emerge dalla lettura di questo libro veramente interessante, teso come un giallo d’azione e dall’impostazione in crescendo, scritto da Roy Doliner, storico dell’arte e guida vaticana, e Benjamin Blech, rabbino esperto di Talmud, dall’esplicativo sottotitolo: Il messaggio proibito di Michelangelo.
L’enorme affresco di 1100 metri quadri avrebbe dovuto rappresentare una glorificazione del Cristo, ma allora perché sul soffitto della Sistina non si individua nemmeno un personaggio del Nuovo Testamento? Non solo, perché non c’è nemmeno una figura cristiana ma solo personaggi biblici? Perché l’Albero della Conoscenza è un fico, e non un melo? E perché Eva nasce dal fianco di Adamo e non da una costola? Perché vi è disegnata per ben due volte una mano con il pollice infilato tra l’indice e il medio, atteggiamento che è l’equivalente cinquecentesco dell’odierno dito medio che fuoriesce eretto dal pugno chiuso? E come è riuscito Michelangelo a scampare agli anatemi di un Papa più che irascibile dopo aver rappresentato il profeta Zaccaria nel punto esatto dove Giulio II aveva ordinato invece ci fosse la figura del Cristo?
Le risposte a questi interrogativi le forniscono i due autori anche sulla luce dei recenti restauri dell’opera che hanno permesso la scoperta di molti particolari nascosti dalla patina del tempo, come i cerchi gialli sulle tuniche di alcuni personaggi, ricamate su ordine della Chiesa a testimoniare la loro origine ebraica, e tutte le spiegazioni portano a concludere come, in spregio agli ordini ricevuti, Michelangelo abbia voluto dipingere non una semplice glorificazione del Cristo, ma un inno al neoplatonismo e alla fratellanza universale, nonché un incitamento alla riunificazione di tutte le religioni e una denuncia della corruzione dilagante nell’ambiente clericale. E ciò sulla base del suo alto grado di erudizione derivante dall’aver studiato sotto le due massime menti dell’epoca, che gli hanno anche impartito la conoscenza della cultura ebraica sulla quale l’artista ha impostato tutto l’affresco.
Ad una lettura critica alcune delle interpretazioni degli autori appaiono un po’ forzate e di non così facile comprensione (della serie: su tutto bisogna fare un po’ di tara, soprattutto sulle affermazioni di studiosi dichiaratamente di parte), ma nella maggior parte delle situazioni ci si domanda come nessuno sia riuscito a capire prima quale fosse il vero scopo del pittore e com’è possibile che non sia stato smascherato per cinque secoli.
Questo perché Michelangelo ha dipinto impostando le immagini su tre livelli di lettura: il più immediato è quello fruibile dal volgo “ignorante”, l’apparenza che soddisfa l’occhio, e propone un affresco tra i più belli che ci siano al mondo con scene che illustrano i più eclatanti episodi biblici. Il secondo livello di lettura è stato concepito per le persone colte, quelle che sanno cogliere il messaggio simbolico inserito in ogni immagine del dipinto e conoscono la storia e i significati esteriori delle allegorie. Il livello superiore è quello riservato ad uso esclusivo degli “iniziati”, cioè coloro che condividendo il pensiero di Michelangelo conoscono anche i risvolti nascosti dei messaggi trasmessi dal genio fiorentino. I 22 metri di altezza del dipinto da terra e la scarsa illuminazione dell’epoca hanno fatto il resto.
Un esempio tra tanti: la conoscenza dell’anatomia umana è stata molto carente fino al secolo scorso, anche a causa del divieto imposto dalla Chiesa di sezionare cadaveri (cosa che scienziati ed artisti facevano di nascosto). È per questo motivo che è stato solo pochi anni fa che il chirurgo statunitense Frank Mershberger si è accorto, nel corso di una sua visita alla Sistina, che uno dei suoi pannelli più famosi, quello di Dio nell’atto di infondere il soffio vitale in Adamo, non è altro che l’esatta rappresentazione della sezione dell’emisfero destro del cervello umano:


(tratto da: www.debernardis.it)

All’epoca, anche le persone colte del clero non avrebbero saputo interpretare questo disegno (se qualcuno ci fosse riuscito, Michelangelo sarebbe stato bruciato in Campo dei Fiori), cosa che invece sarebbe risultata facile a tutti coloro con cui Michelangelo condivideva un sapere che andava oltre gli insegnamenti canonici.

E così via con la sagoma di alcune delle figure rappresentate che ricalca la forma delle lettere dell’alfabeto ebraico, o con le braccia e le gambe del serpente tentatore, delle quali la Bibbia cristiana non fa cenno, ma che invece sono descritte nei testi ebraici.
Per non parlare delle anticipazioni futuristiche: tutti pensano che sia stato Georges-Pierre Seurat a introdurre il pointillisme, ma se si va a guardare da vicino il volto della Madonna nel Giudizio Universale, dipinto da Michelangelo 22 anni dopo la volta, ci si accorge che è stato realizzato con la tecnica del puntinato…
Ho visitato la Cappella Sistina nel lontano 1991 e ricordo ancora di essere rimasto impressionato soprattutto dalla sensazione di tridimensionalità dei dipinti che sembravano voler fuoriuscire da un soffitto lontano e protendersi verso di te, e mi immagino quale meraviglia debbano essere oggi dopo il restauro. E ancora di più alla luce delle informazioni tratte da questo saggio.
Due pecche per un libro così interessante: ci sono parecchi refusi, cosa che da Rizzoli uno non si aspetterebbe, e le immagini in bianco e nero sono penalizzate dalla cattiva qualità di stampa (perlomeno c'è l'inserto a colori su carta patinata). Per il resto, è assolutamente consigliato a tutti coloro che si interessano di storia, di pittura o di religione.
E scusa se è poco.
Il Lettore 

lunedì 14 aprile 2014

Il più grande uomo scimmia del Pleistocene

L’altra sera, al circolo di letture di cui faccio parte, ho portato un dialogo tratto da Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, di Roy Lewis: la chiacchierata è tra una donna neanderthaliana e l’homo sapiens che l’ha inseguita per dodici giorni a chiaro scopo di libidine, e dimostra chiaramente come fin dagli albori della preistoria sia sempre stata la donna a decidere dove, come e per quanto tempo essere inseguita, e soprattutto da chi, e quale sia il momento giusto per essere raggiunta.


Ho sempre pensato che la fine del Pleistocene sia stato un buon periodo per viverci: natura incontaminata, aria salubre, cibo abbondante e soprattutto poca gente in giro. Tutt’al più si doveva fare attenzione a non incocciare in qualche tigre dai denti a sciabola. Ho anche pensato di ambientarci un qualche racconto, e non è detta che prima o poi non mi metta a scriverlo.
Roy Lewis l’ha fatto, e il suo libro è diventato subito un cult book grazie alle situazioni comiche che vi sono state inserite: “Il libro che avete tra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni” esordisce la prefazione, e in effetti le avventure del protagonista e della sua famiglia sono piacevoli, spiritose e fanno sorridere spesso, anche se non è che siano talmente esilaranti da rotolarsi in terra come promesso.
Chi narra la vicenda è il figlio di colui che è considerato Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, e nel corso del romanzo il figlio racconta il perché a suo padre sia stato conferito questo titolo. Si scopre così che questo homo di ingegno  è stato colui che è ha scoperto, tra le altre cose, il fuoco, la lancia e il matrimonio, e ha fornito al mondo il famoso precetto: “cucinare senza essere cucinati e mangiare senza essere mangiati” che sembra sia valido ancora oggi e non solo tra le popolazioni antropofaghe.
Il messaggio nascosto nel libro è invece quello sul confronto tra l’uomo e la scienza, il pensiero e la tecnologia, tema che era molto sentito dagli scrittori statunitensi a cavallo degli anni ’60, quando è stato scritto il romanzo, in piena guerra fredda e conseguente incubo nucleare. Attraverso una serie di episodi e situazioni Lewis opera un confronto, talora con risvolti anacronistici, tra la situazione della sua epoca e i problemi quotidiani degli ominidi, facendo sorridere con uno sguardo sempre rivolto ad un domani incerto.
Un romanzo piacevole ancora oggi, magari non proprio comico come promette la pubblicità ma divertente e scorrevole, che tratta dell’evoluzione da un punto di vista leggermente differente dal consueto.
Chissà perché Roy Lewis, dapprima economista e quindi giornalista, ha scritto solo questo romanzo limitandosi poi solamente ad una produzione narrativa limitata a qualche racconto. I grandi misteri degli scrittori… (chi è che ha nominato Salinger?).
Il Lettore 

sabato 12 aprile 2014

La Settimana Enigmistica

Mi domando come ho fatto a tralasciare fino ad ora su questo blog una delle letture che per me sono un appuntamento fisso e irrinunciabile, una lettura alla quale dedico parecchie ore alla settimana (ritagliate nei momenti riservati ad attività, diciamo così, scatologiche), fonte di soddisfazioni intellettuali come poche altre e importante funzione di allenamento delle nostre cellule grigie: La Settimana Enigmistica.


Qualcuno dirà: ma non è una lettura! Perché no, rispondo io, non vi sono forse le rubriche solo da leggere? Oltretutto è un’ottima palestra per la ricerca di sinonimi, un serbatoio di cultura generale, oltre a una lettura periodica di quelle che tengono il cervello impegnato, un modo diverso di leggere e di interagire con la pagina. La “Settimana” (confidenzialmente…) contiene giochi per tutti i gusti, dai più facili delle prime pagine ai più difficili via via che si avanza verso la fine del fascicolo
Personalmente la compro il giovedì mattina e la domenica sera è già finita. Parto dall’ultima pagina controllando le soluzioni ai giochi della settimana precedente che non sono riuscito a risolvere (pochi…), quindi procedo all’indietro risolvendo i giochi più difficili e arretrando man mano verso i più facili che molte volte lascio in bianco perché sono veramente troppo facili e non c’è gusto.
Come schemi prediligo i “Triplici incroci obbligati”, il “Gingillo”, gli “Incroci obbligati” e pure quelli “Sillabici”, la “Sinfonia di parole crociate”, i “Senza schema” (anche quelli bifrontali), le “Parole crociate a partenza numerata” e le “Parole crociate senza pari”, oltre alle “Cornici concentriche”, alle “Bifrontali” e agli “Incroci mnemonici”, per non parlare di tutti gli altri giochi, rebus e curiosità di cui la Settimana è densa.
Settimana solo di nome, però, perché di fatto a me dura dal giovedì mattina alla domenica sera, e dal lunedì mattina al giovedì mattina resto angosciato perché non esiste un’altra rivista simile che le stia alla pari per qualità: tutte le altre peccano per carenza di precisione, impaginazione o in-esattezza delle definizioni. Odio quando in uno schema compaiono definizioni del tipo “Piccolo fiume del Buzzurkistan”: significa solo che ti sei inventato lì per lì una giustificazione per una sequenza astrusa di lettere che non sapevi come incrociare.
Un aspetto particolare della Settimana è il suo essere sempre politically correct: nessun riferimento al sesso o alla politica attuale, nessuna parolaccia, solo riferimenti a religioni universalmente riconosciute, e le frasi che costituiscono le soluzioni di molti giochi sono sempre edificanti e dal profondo significato morale. Sa un po’ di conservatorismo puritano, ma basta farci l’abitudine.
L’esperienza mi ha insegnato che per scriverci sopra la penna migliore è una Pilot EnerGel 0.7 che uso in diversi colori (adopero matita e gomma solo per gli schemi veramente ostici), e ad uso esclusivo della Settimana è anche dedicato un leggìo inclinato in legno con base in acciaio pesante su ruote pivottanti: chissà perché molti degli ospiti che entrano nel mio bagno ne escono ridendo…
Il Lettore Enigmista

giovedì 10 aprile 2014

Educazione siberiana

Alla fine mi sono deciso a leggerlo, dopo tutta la pubblicità che gli hanno intessuto intorno, dopo che ha scalato le classifiche dei bestsellers, dopo che ne hanno tratto un film, dopo… eccetera eccetera. Come avrete già capito, sono sempre un po’ restìo a seguire le mode del momento.


Senza contare che non avevo seguito tutte le discussioni che erano state intessute intorno a Educazione siberiana, e questo sempre per la mia reticenza congenita nei confronti dello stare a sentire ciarle di cui parlano tutti, e di conseguenza ho iniziato la lettura con animo candido confortato anche dal parere di mia moglie che essendoselo accaparrato per prima me ne aveva fornito una valutazione positiva.
Ma già dopo poche pagine il mio sesto senso librario ha cominciato ad affibbiarmi dolorose gomitate nei fianchi (avete presente? Come quando state leggendo una cosa che vi pare tanto una puttanata e vi chiedete se ciò sia possibile o se vi stiate sbagliando), e la curiosità ha preso il sopravvento spingendomi a fare una ricerca in rete. Tra me e me ho fatto i complimenti al mio sesto senso librario: come si può leggere in questo articolo e anche in quest’altro, il tanto decantato romanzo (che poi del romanzo non ha un gran ché ma è solo una serie di vicissitudini autobiografiche per aver passato le quali Nicolai Lilin dovrebbe avere un’ottantina d’anni e invece ne ha solo 34) parrebbe non essere altro che una bella bufala concepita ad arte da editors professionisti.
Dubbi ne fa nascere fin dal primo capitolo: dalle falangi di poliziotti che si comportano come coniglietti di fronte ai criminali che saranno protagonisti, ai rilasci di delinquenti arrestati senza nemmeno uno straccio di identificazione, dall’incensamento esagerato del codice d’onore della criminalità siberiana ai continui episodi di sangue tra adolescenti che uno si domanda come hanno fatto ad arrivare ad essere adulti. Era questo che mi aveva fatto insospettire: l’esagerazione. E anche lo stile.
L’autore dice che l’ha scritto direttamente in italiano. Ora, Lilin ha 34 anni perché è del 1980, si è trasferito in Italia nel 2004 dopo una vita passata più a combattere che a studiare e "ha scritto" Educazione siberiana, che è stato pubblicato nel 2009, in un italiano del tutto corretto. La domanda che viene spontanea è: dove, e soprattutto quando ha imparato la nostra lingua al punto da scriverla da professionista? E quanto il romanzo è stato modificato da un editor? Per carità, tutto può essere, ma è il conto degli anni che pare poco verosimile: dai 12 ai suoi 24 anni, quando si trasferisce in Italia, Lilin riesce a: 1 – diventare un criminale; 2 – finire sotto processo in Russia; 3 – scontare due periodi di detenzione in Transnistria; 4 – svolgere tre anni di servizio militare in Cecenia; 5 – passare due anni come mercenario tra Israele, Iraq e Afghanistan; quindi si placa, emigra e scrive un romanzo in perfetto italiano.
Tutto può essere, ma io ai geni ci credo poco, e sono più propenso a credere a un team di professionisti che ha confezionato un grazioso pacchetto, crudo un po’ al limite, nel quale si sente la presenza di parecchio “mestiere”. A partire dalla metonimia dell’incipit che promette da subito adeguati sviluppi.
Il resto brilla per la mancanza di una trama in un concatenamento di episodi in cui il sangue la fa da padrone, l’uso di pistola e coltello è osannato ai massimi livelli e viene conclamata l’apoteosi del codice d’onore della criminalità siberiana che nel libro viene dipinto in maniera smielatamente affascinante. Tutto è scritto in modo da condurti al parteggiare per il criminale che sembra conduca una vita retta e nobile, facendoti accantonare il trascurabile fatto che il modo di vita che esso conduce è sbagliato (l’ossimoro dell’etica dei criminali onesti non è male).
Sto scrivendo questo post che ancora non ho finito di leggere il libro, né so ancora se lo finirò: sapere che i fatti narrati sono tutte panzane incide un po’ sul patto di sospensione dell’incredulità. Si potrebbe obiettare che in ogni caso si potrebbe leggerlo come un’opera di fantasia, ma non è affatto la stessa cosa. La consapevolezza è una brutta bestia, e resta sempre la faccenda non trascurabile delle continue esagerazioni che alla fine ti fanno cadere le palle.
Ma la cosa peggiore è che mia moglie ha scaricato il film dalla rete, e mi sta pillottando affinché io finisca alla svelta di leggere il libro per poter poi guardarlo insieme…
Il Lettore 

lunedì 7 aprile 2014

Smettetela di piangervi addosso, scrivete un bestseller!

Non è un’esortazione che vi rivolgo io, ma il titolo di un libretto di Renato Di Lorenzo, della serie “manuali per la scrittura”.


L’autore è un giornalista e scrittore che in poco più di 150 pagine riversa la sua esperienza per permettere a qualunque principiante di migliorare la propria scrittura fino al punto di farne  un mestiere che gli consentirà di viverci. A parole è facile: già nel primo capitolo Di Lorenzo porta a conoscenza del lettore il fatto che un romanzo di buona qualità vende circa 20000 copie, con un introito netto di circa 28000 euro per l’autore. Un romanzo all’anno e sei a posto, secondo lui.
Tutto sta quindi, sempre secondo lui, nello scrivere un romanzo di buona qualità.
Ma le cose non stanno propriamente così. A parte che in questo momento storico la cifra di ventimila copie vendute è raggiunta solo da pochissimi titoli, non è assolutamente detto che un romanzo di buona qualità abbia un minimo di successo, per ottenere il quale occorre invece una concomitanza di fattori che sono totalmente avulsi dalla mera qualità: notorietà dell’autore, importanza della casa editrice, attualità dell’argomento, battage pubblicitario, ruffianeria. Tanto per dirne solo alcuni. Anzi, la buona qualità può essere spesso controproducente, o almeno superflua, a giudicare dalle porcate che salgono in testa alle classifiche.
Comunque, a parte queste considerazioni economiche (Di Lorenzo si occupa di finanza), il manuale è molto discorsivo e piacevole da leggere e indaga più o meno tutti, e più o meno approfonditamente, gli argomenti necessari da comprendere e per migliorare la propria scrittura, citando numerosi esempi di autori famosi e il perché abbiano scritto quel brano in quel modo piuttosto che in un altro. Dalla tensione narrativa al plot ai personaggi alla riscrittura vengono accennate molte delle tecniche più comuni che occorre assimilare perlomeno per tentare di scrivere qualcosa di decente.
Nel libro è riportato anche uno scambio di battute tra James Joyce e un suo amico, a proposito del concetto di inserire nei propri scritti solo le parole che servono e non di più, che come aforisma a me piace molto e che testimonia come Joyce scrivesse con il contagocce: l’amico chiede a Joyce: “Quanto hai scritto stamattina?”
Tre parole” risponde Joyce.
Per te sono molte.”
Ma non so in che ordine metterle” è la conclusione dello scrittore.
Il Lettore 

sabato 5 aprile 2014

Racconti di pirati

L’altro giorno ho corretto le bozze di stampa di una raccolta di racconti che sarà pubblicata a breve, ad opera di una piccola casa editrice di quelle che se non ci fossero il mondo ne uscirebbe peggiorato.

Sì, perché sono i piccoli editori quelli che riescono a scovare le idee per editare delle piccole perle come questi Racconti di pirati. Più che una perla però direi un’ostrica, con all’interno sette perle, da assaporare condita nientepopodimeno che dai disegni di quel maestro dell’illustrazione che è stato Sergio Toppi.


Sergio Toppi è morto nel 2012 a quasi ottant’anni, trascorsi a creare disegni, illustrazioni, fumetti e immagini per libri, riviste, quotidiani ed enciclopedie, fino a diventare uno dei disegnatori più conosciuti al mondo. La sua tecnica sopraffina era rivolta all’esplorazione di ambientazioni esotiche, leggende e tradizioni folkloristiche, privilegiando per le sue storie i più svariati contesti storici nei quali profondeva il suo tratto particolarissimo e inconfondibile.
Le undici tavole inedite delle quali è impreziosito il libro provengono dagli studi che Toppi ha svolto sull’ambiente sempre affascinante della pirateria, e l’editore ha avuto l’idea di associarle ad una piccola raccolta di racconti sul medesimo tema richiesti a scrittori poco o niente famosi,  ma non per questo poco capaci, ricavandone un’antologia nella quale l’aspetto grafico va a braccetto con quello letterario.
La cosa interessante, come mi è stato fatto notare da uno dei curatori, è che commissionando dei racconti su un tema specifico ci si aspetterebbe di ricevere una serie di storie che oltre ad avere un denominatore comune siano costituite anche da stereotipi simili, quali si possono ritrovare nella classica iconografia piratesca: arrembaggi, tesori sepolti, Caraibi, sciabole, saccheggi, ammazzamenti, galeoni, pappagalli, gioielli eccetera. E in effetti questi luoghi comuni si ritrovano tutti nelle vicende pubblicate, sparsi nei sette racconti, ma allo stesso tempo le storie sono tutte diverse tra loro e attingono dalle più svariate esperienze che le letture sul tema comune e il cinema hanno operato sui diversi autori.
Così come sono differenti gli stili e i ritmi di narrazione, le contestualizzazioni e gli intenti, spaziando dal serio al grottesco, dal riflessivo all’ironico, dal biografico al fantastico, tutti collegati da quel filo comune delle affascinanti tavole di Toppi. Sette racconti tutti diversi tra loro e undici disegni che costituiscono un’unità omogenea.
Un’opera pregevole, della quale non vedo l’ora di prendere in mano una copia rilegata.
Il Lettore 

giovedì 3 aprile 2014

Troppo bello per essere vero

Il libro di oggi, dal sottotitolo Autobiografia di un falsario, rientra sicuramente nel novero delle migliori autobiografie che abbia mai letto, e gareggia alla pari con le biografie di professionisti come Isaacson e Moehringer, nonostante l’autore sia sì un professionista, ma in tutt’altro campo.

Per quelli che fossero incuriositi la brutta notizia è che, a detta del cugino che gentilmente me lo ha prestato, il libro è praticamente introvabile (ma in rete ho visto che c’è in giro qualcosa in versione epub).


Troppo bello per essere vero è l’affascinante autobiografia di uno dei più famosi falsari nel campo dell’arte, attivo nella seconda metà del secolo scorso, che ha fatto mettere le mani nei capelli a quei cosiddetti esperti e critici che hanno acquistato le sue opere attribuendole di volta in volta ad artisti più o meno famosi vissuti dal Quattrocento all’Ottocento.
Il libro è divertente, dominato dal classico humour inglese con un pizzico di understatement, e fornisce un quadro scanzonato del mondo del mercato dell’arte e di tutti quelli che vi gravitano intorno: dai collezionisti agli esperti, dagli amatori agli pseudo-intenditori, dagli artisti ai mercanti. Tutte categorie che Eric Hebborn è riuscito ad ingannare con la sua straordinaria abilità nel riprodurre, o per meglio dire “creare”, disegni “originali” di autori del passato. Hebborn non copiava, ma ritraeva “di nuovo” alla maniera di, e in genere lasciava che fosse qualche “esperto” ad attribuire la paternità dell’opera da lui “ritrovata” in qualche mercatino.
L’autore illustra anche le tecniche che di volta in volta ha utilizzato per far passare un suo disegno per un Castiglione o un Van Dyck, per un Parri Spinelli o per un Rubens, descrivendo anche come è riuscito a reperire le carte e i colori originali dell’epoca dalla quale il disegno doveva provenire, fornendo in definitiva una feroce presa in giro dell’ambiente del mercato artistico.
Oltre alle disquisizioni tecniche, affascinanti anche per l’appartenere a quel mondo romantico del falsario che ruba a un ceto ricco, il libro è interessante anche per la vita passata da Hebborn  a spostarsi da Londra a Roma in ambienti dove il culto del bello è dominante, e per il modo con cui l’autore tratta il tema della propria omosessualità. O meglio, il fatto che non lo tratti proprio, e che lasci apparire nel testo questo suo lato dandolo per scontato, in un modo del tutto spontaneo e naturale, come una cosa normalissima, è come uno schiaffo per tutti coloro che in questo momento storico fanno della liberalizzazione dell’omosessualità una bandiera da sventolare solo per mettersi in mostra.
Per fortuna tra i miei interessi non c’è il collezionismo di disegni antichi, altrimenti a quest’ora invece di scrivere mi sarei trovato a piangere.
Il Lettore 

martedì 1 aprile 2014

La bambina che salvava i libri

Un altro libro sull’Olocausto e la tragedia degli ebrei tedeschi dopo l’avvento al potere di Hitler e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La bambina che salvava i libri è il romanzo di Markus Zusak da cui hanno tratto il film Storia di una ladra di libri, con Sophie Nelisse, Emily Watson e Geoffrey Rush. Il particolare curioso è quello che dal momento che il titolo originale del romanzo è The Book Thief, non si capisce perché nell’edizione italiana sia uscito con un titolo diverso per poi tornare a riconvertirlo. Misteri dell’editoria.

Io l’ho letto prima che diventasse un bestseller, che decidessero di farne il film e che gli ricambiassero titolo, e ho preso lo spunto per scrivere questo post dall’incessante martellamento pubblicitario con il quale ci stanno martoriando in questi giorni per promuoverlo.


La protagonista è una bambina di una decina d’anni affetta dalla compulsione del possesso dei libri, e dal momento che la situazione della sua vita è critica i libri li ruba: già di per sé questo modo di comportarsi testimonia un amore per la lettura superiore, che raggiunge l’epifania quando arriva a salvare un volume direttamente da uno dei falò in cui i nazisti bruciavano i libri (e dai quali Ray Bradbury rimase talmente impressionato da prenderne spunto per scrivere il suo Fahrenheit 451).
Il romanzo è piacevole e interessante anche se tragico, è dotato di uno stile frammentario con spunti di originalità come l’utilizzo di inserire alcune frasi in neretto (non dico di più per non togliervi il gusto della scoperta), e si inserisce a pieno titolo nella mole enorme di scritti densi di sentimento che si ricollegano alla tragedia patita dagli ebrei nel corso dell’ultima guerra.
Un altro aspetto particolare è quello della figura del Narratore. Sì, perché la vicenda è narrata direttamente dalla Morte in persona, antropomorfizzata al punto da rischiare in qualche tratto di non essere pienamente credibile, ma che nel complesso contribuisce a mantenere vivo l’interesse con la sua ovvia onniscienza non rivelata.
A mio parere un buon motivo per guardare il film potrebbe essere quello di rivedere all’opera quel Geoffrey Rush  che ha fornito una prova spettacolare ne Il discorso del re; per il libro posso dire che di sicuro soddisferà molti lettori, mentre qui in famiglia i pareri si sono rivelati discordi: pur apprezzandolo entrambi nel complesso, mia moglie ha trovato leggermente noiosa la parte iniziale, mentre io quella centrale.
Il Lettore