Da quando avevo letto questo mi era rimasta la voglia di
scoprire se i precedenti romanzi di Elizabeth
George fossero veramente migliori di quello che avevo recensito, come
sostenevano molti dei suoi lettori più affezionati. Dal momento che quello mi
era piaciuto, se per caso i suoi sostenitori avessero avuto ragione mi sarei
dovuto trovare di fronte veramente dei bei romanzi. Così, appena mi è capitato
questo Nessun testimone non ho avuto
dubbi nel prenderlo, non sospettando neppure che da molti è considerato in
assoluto il miglior romanzo della
George.
In questo caso avevano
ragione loro: ad onta delle quasi 700
pagine che possono sembrare
veramente troppe per un thriller, il
libro mi ha incatenato a sé fino a rendermi schiavo, non ha permesso che lo lasciassi
mai da solo e per qualche giorno ha voluto accompagnarmi dovunque andassi e
avessi cinque minuti di tempo per aprirlo e proseguire nella lettura.
Questa volta i consueti
personaggi seriali della George sono chiamati a indagare su un serial killer che uccide giovani maschi adolescenti lasciandone i cadaveri
sparsi per le strade di Londra. Il sovrintendente Thomas Lynley e i colleghi Barbara
Havers e Winston Nkata,
attorniati da decine di collaboratori a causa dell’estrema gravità dei fatti
che ha sollevato un vero e proprio tumulto nell’opinione pubblica, lavorano
incessantemente per cercare di scoprire l’assassino, e quando alla fine ci
riescono la soluzione non sarà indolore
per nessuno.
Scritto nel 2005, il romanzo
si pone temporalmente a circa due terzi
della saga delle avventure dei tre protagonisti principali, e alla fine si
scoprirà che segna un punto fermo
fondamentale nell’evoluzione delle loro storie personali. Anche per questo il
romanzo è molto lungo: contestualmente alle indagini per gli omicidi la George
racconta anche le vicissitudini
personali dei tre che ovviamente finiscono per intersecare la vicenda
principale. Ma questo allungare non diminuisce nel lettore l’interesse per la
vicenda né provoca dei cali di tensione, anzi. La George ha saputo miscelare
benissimo gli ingredienti, e quelle che possono dapprima sembrare digressioni
superflue alla fine invece appaiono perfettamente congrue al contesto.
Certo c’è da leggere
parecchio, ma lo stile della George è perfetto, piacevolissimo e mai noioso
anche quando indugia nei particolari, e i fatti si svolgono in un crescendo di
emozioni fino a sfociare in una serie di colpi di scena al cui confronto Jeffrey Deaver fa la figura del pellegrino
(impara Jeffrey, è così che si inseriscono i colpi di scena, al momento giusto,
non uno ad ogni pagina come fai tu).
Nello svolgere il giallo
l’autrice ha privilegiato la
descrizione dell’indagine poliziesca in tutte le sue sfaccettature, dal
brancolare nel buio all’avvicinarsi piano piano alla soluzione del caso,
condendola con gli inevitabili attriti personali che ci sono anche tra
poliziotti e con il pressing operato dai
mezzi di informazione alla ricerca continua di scoop che possano incrementare le vendite. E non ha tralasciato
nemmeno di parlare di temi gravi e più o meno attuali come quello della pedofilia omosessuale, della ricerca di
metodologie atte a contrastare lo sbandamento adolescenziale nelle metropoli e dell’integrazione razziale tra bianchi e neri ancora attuale al tempo d’oggi.
Dopo settecento pagine che si
leggono in un lampo resta la sensazione di aver letto un gran bel romanzo. Ora
il problema è: se questo come affermano è il romanzo migliore della George,
varrà la pena continuare a cercarne gli altri già sapendo che forse non mi daranno la stessa soddisfazione di questo?
Il Lettore