venerdì 28 luglio 2017

Battuta di caccia

Insieme a tutti i romanzi della George il mio editor mi ha fornito anche 7-8 romanzi di Jussi Adler-Olsen.
Nonostante le avessi detto che il primo non è che mi avesse soddisfatto un gran che.
A me sono piaciuti.” È stata la risposta. Va be’, forse avrà ragione lei, ho pensato, diamole fiducia. E così, nonostante non mi attirasse molto, ho messo mano a questa Battuta di caccia, il secondo della serie dell’ispettore Mørck e della sezione Q che si occupa di cold cases.
La recensione al primo caso la trovate qui, e questo romanzo è stata proprio una conferma. 
In negativo.




Ho retto una cinquantina di pagine, poi l’ho abbandonato, quindi non chiedetemi come va a finire. Stavolta i cattivi si sa da subito chi sono e quindi non c’è da capire nulla, se non come possa un investigatore asfittico e insignificante riuscire a risolvere la faccenda. Lo aiuterà il collaboratore Assad, che già l’altra volta mi era parso molto più interessante del protagonista, ma stavolta non brilla nemmeno lui, perlomeno nelle prime cinquanta pagine. Vi chiederete: ma rimani col dubbio? La risposta è sì, senza alcun tipo di rimpianto, rimango col dubbio, ma neanche me ne importa più di tanto e non sento proprio la curiosità.
Quando un libro ti annoia, ti mette pensiero ogni volta che lo apri, il protagonista non ti è simpatico, quello che fa non ti interessa, i personaggi di contorno sono facilmente ignorabili e in più non è scritto nemmeno superlativamente bene da poter dire va be’, lo finisco per la scrittura, non vengono rimorsi per l’abbandonarlo, tutto tempo guadagnato per leggere qualcos’altro di più meritevole.
Checché ne dica il mio editor, anche se viene tradotto in una quarantina di lingue e vende milioni di copie, a me questo danese non prende proprio. Sarà difficile che ci riprovi una terza volta.
Il Lettore 

mercoledì 26 luglio 2017

In Patagonia

In un quotidiano ho letto che in Liguria si sta allestendo una mostra delle fotografie che Bruce Chatwin ha scattato con la sua Leica nel corso dei viaggi che ha fatto per il mondo, e mi è tornato in mente questo libro che avevo letto diversi anni fa.
Forse il più famoso dei libri dell’inglese (e l’unico dei suoi che ho letto), un testo che rapidamente è diventato un cult book sull’onda della controcultura e della scoperta che dopo la guerra il viaggiare era diventato abbastanza facile.




Sarà anche diventato un libro di culto, ma da qui a dire che è un bel libro ce ne corre.
L’ho letto, ma non posso dire di rammentarne un gran ché. Ricordo solo che l’ho trovato noiosissimo, questo sì, l’unica sensazione che mi ha suscitato. No, ricordo anche che inizia con uno sfondone paleontologico, ma basta. Le vicissitudini di questo artista mancato e irrequieto, affetto da nomadismo galoppante e che alla fine si è messo a fare il viaggiatore a tempo pieno, morto di AIDS a 49 anni, in me non hanno lasciato alcuna traccia né suscitato emozioni.
Sarà che ho poca sensibilità.
Cavolo, dovrà pur esserci una ragione per la quale è diventato un cult book, no?
Non l’avrò saputa trovare io la ragione, non avrò saputo guardare con gli occhi curiosi del viaggiatore, pronti a bere e saziarsi di ogni nuova scoperta, non avrò acceso in me lo spirito del poeta che si lascia conquistare dal fascino del viaggio, la mia grettezza mi avrà reso impermeabile all’ebbrezza delle notti trascorse in sacco a pelo sotto immensi cieli di stelle, mi mancherà la curiosità di conoscere luoghi lontani e nuovi popoli. Tutto è possibile.
Può essere anche che questo libro sia veramente una sega.
Il Lettore casalingo 

lunedì 24 luglio 2017

I segreti di Gray Mountain

I segreti di Gray Mountain fa parte di una serie nuova, quella dal titolo: anche John Grisham può fare qualche bella caduta ogni tanto.
In effetti è il primo libro brutto di Grisham che mi sia capitato, quindi non posso dire che la serie sia tanto lunga, ma tanto per avvertirvi, se putacaso foste in procinto di leggerlo, cambiate pure obiettivo, non perdereste nulla.




Già comincia in modo deprimente descrivendo la crisi globale del 2008 che in seguito al fallimento della Lehman Brothers ha portato alla bancarotta di una miriade di società con conseguente licenziamento di una valanga di persone. Oggi che ancora soffriamo di quella crisi, con in più tutte le nefandezze dei politici nostrani, non è per niente piacevole sentirselo ricordare.
Samantha Kofer è una giovane avvocatessa di New York tra quelle mandate a casa che, per non perdere del tutto qualche contributo previdenziale, o qualcosa di simile, si trova costretta ad accettare un lavoro a titolo gratuito in un’organizzazione di avvocati che operano pro-bono nel profondo Sud della Virginia. Si trasferisce così dalla Grande Mela in un paesino sperduto degli Appalachi, dove si troverà ad aver a che fare non più con ricchi ed eleganti squali-avvocati che viaggiano in limousine, ma con rudi montanari che girano armati in pickup e con un mucchio di povera gente angariata dalle potentissime società che controllano l’estrazione del carbone.
Conoscevo già, ancora prima di leggere questo romanzo, la tecnica di estrazione del carbone che oggi va per la maggiore nota come strip mining, e questa è la seconda nota deprimente.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, oggi, invece che scendere in profondità nelle viscere della terra tramite cunicoli scomodi e pericolosi, per estrarre il carbone si preferisce spianare completamente intere montagne fino a scoperchiare del tutto i giacimenti carboniferi per quindi coltivarli a cielo aperto (nel senso di estrarre il minerale), devastando del tutto il territorio e uccidendo irrimediabilmente qualsiasi ecosistema esistente. Cose da pazzi. Ma negli Stati Uniti si può fare, perché per assurdo non c’è nessuna legge che lo vieta.
Quindi la Kofer si trova a dover combattere le ditte assassine, si trova a dover difendere donne maltrattate dai propri mariti e anziane mamme succubi dei propri figli, si trova a prendere le parti di minatori ammalati della sindrome letale del polmone nero, in una serie inimmaginabile di disgrazie che rendono il tutto ancora più deprimente.
E in tutto questo non poteva ovviamente mancare la scontata storia d’amore, qualche scontata vittoria ogni tanto in tribunale e il finale scontatissimo nel quale, nonostante tutte le avversità, la protagonista decide di rimanere nel paesino per fare del bene agli altri invece di tornarsene di corsa a New York.
Come già detto, romanzo deprimente, scontato, noioso, che se non avesse portato in copertina il nome di John Grisham sarebbe stato interrotto dopo trenta pagine dall’inizio. Ma visto che c’è quel nome tu speri che prima o poi migliori, eccheccazzo, Grisham è sempre Grisham, no?
Mi dispiace, stavolta no.
Il Lettore 

venerdì 21 luglio 2017

I cani lo sanno

Approfondiamo la conoscenza di Andrea Scanzi come autore di libri. Di suo ho appena finito di leggere I cani lo sanno, dall’accattivante sottotitolo (per chi ha un cane) Elogio dello sguardo rasoterra.
Penso che chiunque abbia o abbia avuto un cane sia stato prima o poi tentato di mettere nero su bianco il proprio rapporto personale con quell’essere pulcioso e sbavante ma capace di infinita devozione. Ho amici che lo hanno fatto e io stesso ho cento buone pagine pronte sulla storia del mio cane, ma quando mi metto a scrivere le altre cento che servirebbero per terminare il libro mi blocco sempre. E so bene anche il perché, ma non ve lo dico. Affari miei.
Perlomeno lasciandolo in sospeso non rischio di cadere nel melenso come fanno tutti i compagni di cani quando scrivono del proprio rapporto.
Andrea Scanzi compreso.




Per carità, non che il libro sia brutto, anzi, si legge benissimo, è scritto da professionista e spesso fa anche ridere, ma anche il giornalista non è riuscito ad evitare di cadere nelle sdolcinature e di enfatizzare non poco i sentimenti che si provano condividendo la vita con un cane, dalle gioie più elettrizzanti ai dolori più estremi, finendo inevitabilmente con il rimarcare il banale.
Un cane è pace, bussola, riferimento.”
Evidentemente, quando si intende scrivere di cani non si può fare a meno di andare sempre a finire così.
Scanzi racconta il suo rapporto a tre con le due Labrador nere con cui da qualche anno condivide la vita: Tavira e Zara, mamma e figlia, ognuna con le proprie particolari caratteristiche somatiche e caratteriali che l’autore descrive minuziosamente analizzando ogni peculiarità e trovando anche lo spazio per inserire riallacci, come suo solito, alla musica, ai fumetti, alla cinematografia e alla letteratura, non disdegnando di lanciare qualche frecciatina politica (ma questo in modesta quantità).
Ne deriva una scrittura rapida, acuta e briosa, anche piacevole, ma che man mano scade nel banale, nel già vissuto, con vicende attraverso le quali, con poche differenze, sono passati tutti i compagni di cani.
Questo indubbiamente è un sistema per suscitare empatia in un’ampia cerchia di persone, e basta guardare i commenti al capitolo del blog di Scanzi dedicato a questo testo per essere sopraffatti dal tedio suscitato dall’infinità di interventi che inneggiano a questo libro… i cui autori subito dopo si sentono in dovere di raccontare la propria vicenda personale.
E io non ne posso più del banale.
Mille volte ho pensato di buttare via le mie cento pagine e non pensarci più, ma ancora non l’ho fatto perché a tratti, rileggendole, mi faccio i complimenti da solo per quanto sono stato bravo a scriverle, ma quanto a completarle… E poi, il cane di cui parlo io si comportava più da gatto che da cane, e già questo basterebbe a uscire dal piattume. Ma va be’.
Il Lettore cinogattofilo

martedì 18 luglio 2017

Gladly, l’orsacchiotto strabico

L’ennesimo Ed McBain che non avevo ancora letto. E ogni volta è una sorpresa.
McBain non è secondo a nessuno nello scrivere i dialoghi, pagine e pagine di parlato che scorrono via senza il minimo intoppo e dalle quali non riesci a staccarti. Un vero maestro.



Stavolta il protagonista non è l’87° distretto, ma il romanzo fa parte della serie in cui il personaggio principale è l’avvocato Matthew Hope, un legale del nord trasferitosi nella bollente Florida.
Una designer di giocattoli progetta un orsacchiotto con la caratteristica particolare di essere strabico e l’azienda per cui lei stessa lavorava in precedenza le copia l’idea e sembra voglia mettere in commercio un peluche quasi identico.
Elaine Commins querela l’azienda e la porta in tribunale per difendere i suoi diritti e il suo copyright, e sceglie come suo avvocato Matthew Hope, da poco reduce di un attentato nel quale si è beccato due pallottole che lo hanno mandato in coma per una decina di giorni.
Le cose si complicano quando il proprietario dell’azienda viene assassinato sul suo yacht e dell’omicidio viene incolpata la stessa Commins che era stata vista sulla barca alla stessa ora del fatto.
L’avvocato Hope però è convinto dell’innocenza della sua cliente e si dà da fare per cercare le prove a sua discolpa, impedito in parte un po’ dal progredire della sua convalescenza e un po’ dal non riuscire a rintracciare gli investigatori privati di cui di solito si fida che sembrano scomparsi entrambi nel nulla.
Le vicende dei due investigatori costituiscono il secondo plot del romanzo che corre di pari passo alla trama principale, e McBain è un asso nel saper alternare le due avventure lasciando sempre nel lettore la curiosità di come entrambe evolveranno.
Come al solito quando si parla di McBain, un romanzo di più di trecento pagine che si legge in un lampo, con dialoghi serratissimi e vicissitudini che vengono risolte una dopo l’altra non lasciando nulla al dubbio, ricchissimo di particolari che non annoiano sia sulla contestualizzazione che sui caratteri dei personaggi.
Sarà anche un “gialletto” Mondadori, ma lo stesso una gran lettura.
Il Lettore 

domenica 16 luglio 2017

La rivoluzione del coniglio

Quando al mattino il mio editor accompagna il pargolo a scuola e va a lavorare, per rendere i tragitti più piacevoli ascolta alla radio Il ruggito del coniglio, la trasmissione di Marco Presta e Antonello Dose che registra una media di ascoltatori pari a circa un milione di persone al giorno.
Lei dice che le piace molto. Io non l’ho sentita nemmeno una volta. Non sopporto ascoltare la gente blaterare a vanvera di persona, figuriamoci per radio.
Ma apprezzo l’arguzia e, così come mi ero gustato i libri di Marco Presta (uno lo trovate qui), ho letto con piacere questo La rivoluzione del coniglio del suo partner artistico.




Anche questa lettura è una dritta del mio pusher musicale che, buddista già da molti anni, sapendo della mia curiosità intellettuale verso questa religione me lo ha consigliato per approfondirne l’approccio.
La rivoluzione del coniglio in pratica è l’autobiografia di Antonello Dose che decide, all’età di cinquantacinque anni, di raccontare di se stesso focalizzando due aspetti fondamentali della sua esistenza: il suo avvicinamento al buddismo e la sua omosessualità.
Devo dire che ha fatto un ottimo lavoro su entrambi i temi.
Raccontandoci null’altro che la sua vita, Dose ci spiega i molti problemi che ha dovuto affrontare a causa della sua omosessualità e della sua accettazione in primo luogo da parte di se stesso e quindi degli altri, e come alcuni di questi problemi li abbia risolti con l’aiuto della pratica buddista.
“Da molti anni pratico il buddismo di Nichiren Daishonin. Ho iniziato per curiosità, per fiducia verso chi me ne aveva parlato e aveva insistito tanto affinché partecipassi a una riunione in una casa privata. 'Metti dei calzini puliti' mi disse Betta, 'ti chiederanno di togliere le scarpe.'”
Per toccare con mano ho partecipato anch’io ad alcune riunioni buddiste ma, a parte che fortunatamente nessuno mi ha chiesto di togliermi le scarpe, nonostante condividessi i princìpi di fondo e lo spirito che muove gli adepti di questa religione il mio scetticismo congenito ha avuto la meglio ancora una volta e non ho proseguito nell’approfondimento. Però riconosco che i princìpi sono del tutto giusti, così come del resto sono quelli del Vangelo di Gesù Cristo, e andrebbero tutti seguiti indipendentemente dalla religione che li enuncia. Ecco, appunto, le intenzioni sono buone, peccato però che poi gli uomini si inventino delle sovrastrutture per tentare di ingabbiarti.
Così come è giusto seguire i propri orientamenti sessuali qualsiasi essi siano, a patto che si rispetti sempre il prossimo, e quindi trovo del tutto fuori luogo qualsiasi tipo di omofobia e capisco come l’essere additati con una qualsiasi etichetta possa dar luogo a disagi non di poco conto. La cosa che invece non capisco, e non giustifico, è lo sfruttare le lotte per la liberazione sessuale perché in questo momento vanno di moda, e i pubblicitari si sentono in dovere di infilare omosessuali dappertutto.
Dose parla anche con franchezza della sua sieropositività ripercorrendo il cammino svolto dalla ricerca scientifica nei confronti di questa immunodeficienza e di come, anche in questo caso, la religione lo abbia aiutato a superare i momenti più difficili.
Un bel libro, che ho letto con piacere, una testimonianza diretta da parte di una persona famosa e seguita da un considerevole numero di fedelissimi.
Prima o poi dovrò riprovarci.
A recitare Daimoku, che avevate capito?
Il Lettore 

giovedì 13 luglio 2017

Manuale di lettura creativa

“Io sono un lettore compulsivo. Il che, presumo, sia una specie di malattia. I sintomi sono chiarissimi: a casa mia ho tolto dei mobili fondamentali per far spazio ai libri; abito in un appartamentino dove ci sono circa 4500 volumi; e sono uno che, se si dimentica di prendere un libro per andare in bagno, legge tutte le indicazioni per l'’ammollo dei detersivi e tutte le composizioni degli shampoo.
Sono le parole con cui Marcello Fois inizia questo Manuale di lettura creativa e, se non fosse che quando sono al bagno preferisco risolvere La Settimana Enigmistica piuttosto che leggere libri, le condivido in pieno e le avrei potute scrivere io stesso.
Quando ho terminato la Settimana mi ritrovo a leggere le etichette della carta igienica.




Questo libro è costituito da una serie di brevi saggi che Fois aveva già pubblicato in precedenza e che trattano sia di consigli di scrittura che delle letture che hanno attraversato la sua vita.
Quando si ha qualcosa da raccontare la scrittura trova il suo percorso come una perdita d’acqua che si insinua tra le pareti e sbocca dove non ti aspetti.
Analizzando gli scritti di autori internazionali che Fois ha amato, quali Poe, Faulkner, Carver e altri, emergono consigli che Fois ha sperimentato prima di tutto nel suo modo di scrivere e che ora riporta insieme alle emozioni che hanno suscitato in lui molti autori sia stranieri che italiani.
Fra gli italiani non può mancare uno sguardo approfondito sulla letteratura sarda, da Grazia Deledda a Gavino Ledda passando per Salvatore Satta, e su quanto questa sia stata condizionata dagli autori continentali per poi acquisire una fisionomia propria, né una vera e propria apologia di autori più conosciuti quali Alessandro Manzoni o Leonardo Sciascia.
Fois spiega perché questi scrittori sono stati così importanti per il suo percorso di lettura personale cercando di far assumere al tutto un carattere di valenza generale, e riuscendo a rendere il tutto anche piacevole: il libro si legge bene ed è anche interessante, facendoti venire voglia di approfondire la conoscenza di alcuni.
Ma non riuscendoci per altri: non credo proprio che qualcuno riuscirà mai a farmi venire la voglia irresistibile di leggere la Deledda o Manzoni.
Il Lettore 

lunedì 10 luglio 2017

Scuola omicidi

Della serie: mi piace leggere Elizabeth George e mi sono ripromesso di farmi tutti i suoi gialli in ordine cronologico, anche perché il mio editor me li ha procurati tutti in formato epub, ma sono costretto a centellinarli, perché non posso annoiarvi pubblicando a ripetizione i post che la riguardano.
Questo Scuola omicidi del 1990 è il terzo della serie con l’ispettore Lynley.




In questa puntata Lynley e Havers devono investigare sul cadavere di un ragazzo abbandonato in un cimitero fuori mano e questo li porterà a scavare nei segreti di docenti e alunni di una scuola privata del tutto simile a quella che il poliziotto nobiluomo ha frequentato quand’era ragazzo. Simile alla Charterhouse, per intenderci con i musicomani.
Di nefandezze ne emergeranno a vagonate, il tutto però tenuto accuratamente nascosto dall’aura di segretezza che avvolge il cosiddetto ceto inglese “rispettabile”. Inenarrabili fenomeni di bullismo, tradimenti, torture, omosessualità non consenziente, fino a sfociare nell’assassinio che i due tutori della legge alla fine risolveranno dopo una paziente e approfondita indagine.
Una delle cose belle di questo, e in genere degli altri romanzi della George, è che vedi gli investigatori all’opera, vedi i fatti venire fuori man mano e non ti cadono dall’alto sotto forma di rivelazioni improvvise e miracolose o improbabili colpi di scena come nei peggiori gialli di Jeffrey Deaver. Non ci sono colpi di scena ogni quattro righe ma un lavoro paziente, preciso e metodico, con scoperte successive che via via ti fanno sospettare di aver individuato l’assassino in qualche personaggio per poi veder infrangersi le ipotesi fatte dopo ogni nuova rivelazione.
Insieme all’indagine la George inserisce ogni volta ulteriori tasselli a delineare in modo sempre più accurato le figure dei protagonisti: fa evolvere la conoscenza del modo di pensare di Lynley e dei suoi amori; aggiunge accadimenti alla storia familiare di Havers; scava a fondo nei problemi psicologici degli amici di Lynley Simon St. James e sua moglie Deborah, fino a costruire, avventura dopo avventura, un mosaico accurato che ti fa affezionare ai suoi personaggi.
Mi dispiace per voi, e magari non nel prossimo post, ma a breve aspettatevi ancora qualcos’altro della George.
Il Lettore 

venerdì 7 luglio 2017

Scacco alla Torre

Marco Malvaldi ha ripreso pari pari la strada di Andrea Camilleri. E non solo in campo puramente letterario. Da quando ha scoperto che i suoi libri vendono non si è più fermato, e continua a pubblicare a raffica un volume dopo l’altro. Romanzi, rapporti scientifici, resoconti di viaggio, trattati sportivi, saggi ironico-scientifici, senza dimenticare le guide cittadine. Vorrà raggiungere anche lui il record delle 100 pubblicazioni come Camilleri?
Ma come criticarlo? Quando vendi vendi, lo fareste anche voi. C’è solo da augurarsi che la qualità della sua scrittura (e del suo spirito creativo) non scada nel pattume. Attento Marco, ci siamo vicini.




In questo Scacco alla torre Malvaldi ci fornisce una guida a modo suo della città di Pisa, cercando di convincerci che ci sono cose molto più interessanti da guardare che limitarsi a correre verso la Torre.
In un libricino poco più che striminzito il pisano raccoglie i punti più salienti di quella che dovrebbe essere una gita culturale fatta come si deve in quella città, raccontando monumenti, luoghi, particolari, dettagli, aneddoti e curiosità sui personaggi che l’hanno abitata o che la abitano.
Lo stile è il suo solito: ironico e piacevole da leggere. Per lo meno Malvaldi riesce a essere sempre divertente. Scade di molto solo nell’ultimo capitolo di questo che lui stesso definisce “una semplice e amichevole descrizione della mia città”, quando comincia a parlare del Pisa calcio, dei suoi giocatori e dei suoi tifosi.
E non si è risparmiato sul banale, e a detta di molti anche sul non veritiero. Su questo io non so che dire, visto che non sono di quella città. Ma al mio editor il libro è piaciuto. Del resto non poteva essere altrimenti, visto che lei ha studiato e si è laureata proprio a Pisa, e si sa, gli anni universitari restano nel cuore.
Il Lettore 

martedì 4 luglio 2017

La battaglia dei sassi di Perugia

Sarà capitato a tutti di giocare a lanciarsi palle di neve, tra lazzi, frizzi e risate, cercando di coinvolgere quanta più gente possibile e di colpirla in una qualsiasi zona del corpo per segnare un punto. E a tutti sarà capitato di ricevere pallate, dalle più morbide e farinose alle più dense e pesanti, quelle accuratamente pressate tra le mani prima del lancio, e ognuno avrà sperimentato su se stesso quanto queste ultime facciano molto più male delle prime quando colpiscono.
Ecco, ora pensate a quanto dolore possa causarvi, al posto della palla di neve, una bella pietra da tre o quattro etti.




Io l’ho provato sulla mia pelle, quand’ero ragazzo e ci dividevamo in bande e “giocavamo” a prenderci a sassate lungo l’allora periferia di Perugia, quella che adesso in pratica è l’anello a ridosso del centro storico, rievocando, a quel tempo inconsapevolmente, il "gioco" medioevale che Mauro Menichelli ha descritto in modo estremamente minuzioso in questo interessantissimo libro dal sottotitolo Storia e vicende di un antico gioco popolare.
Dal 1200 al 1800 La battaglia dei sassi di Perugia è stato uno dei “giochi” più in voga tra il popolo in questa città e in altre dell’Italia centrale, fino ad essere accuratamente regolamentata per poter organizzare dei tornei e poter portare in trionfo una squadra vincitrice in modo legittimo e ufficializzato.
Ma, dal momento che in genere ci rimaneva sempre qualcuno, o quantomeno qualcun altro usciva dal gioco con le ossa rotte, le “autorità” hanno osteggiato questa pratica fin dall’inizio, salvo poi parteciparci di nascosto loro stessi, fino a riuscire ad eliminarla dalla vita sociale.
A questo punto vi domanderete il perché di una pratica così sanguinaria e pericolosa. I motivi sono tanti: gli istinti innati nell’uomo di rivaleggiare, sfidarsi, combattere, primeggiare, vincere, che sono oggi sfogati negli sport; la facilità e l’economicità di reperimento delle materie prime occorrenti per il suo svolgimento; le concorrenze e le gelosie tra zone o rioni; il desiderio nascosto di appianare delle rivalità; un sistema alla portata di tutti per allenarsi nell’eventualità di guerre tra città vicine o invasioni di eserciti nemici; il desiderio atavico di poter dire “ti ho colpito, ti ho messo sotto, dormi, pecora?
Per ben sei secoli i Perugini hanno fatto a sassate tra loro o con chiunque altro intendesse partecipare.
E i non-perugini, oggi, ci accusano di essere troppo chiusi.
E vorrei vedere! Tra il Papa da una parte e il rischio continuo di beccarti una sassata dall’altra, io lo chiamerei puro e semplice istinto di sopravvivenza!
Mauro Menichelli ci racconta il come è nata e il perché di questa usanza, in un trattato storico molto rigoroso e particolareggiato, ripercorrendone tutti gli aspetti e riportando un’impressionante quantità di citazioni da testi originali a testimoniare la veridicità delle affermazioni. Per questo motivo capita spesso che leggere il “volgare” del Trecento renda la lettura meno piacevole e fluente, ma come ho detto del resto questo è un libro di storia e non un romanzo, e l’interesse è suscitato dai fatti in sé.
Oggi del gioco qui a Perugia è rimasto solamente il nome di una strada, Via Campo Battaglia, proprio uno dei posti in cui il gioco si svolgeva di fronte alla Chiesa di Sant’Ercolano. Non c’è nessuna lapide a ricordarne i non pochi caduti.
Per finire voglio lanciare una proposta: al posto di quella immane boiata di Perugia 1416 che la nostra amministrazione comunale (il minuscolo è intenzionale) continua a propinarci facendo contenti solo quei quattro gatti che partecipano unicamente per potersi scattare un selfie e rivedersi su Facebook in abiti d’epoca gratificando così il proprio narcisismo, perché non ripristinare la Battaglia dei Sassi? Ma senza alcun tipo di regola, e riservando i posti nelle prime file per tutti i nostri amministratori comunali e regionali, che tanto amano farsi vedere e blaterare in pubblico in ogni occasione.
In questo caso, al contrario di quell’altra schifezza, la tradizione storica c’è tutta, e sono sicuro che io e i miei concittadini sapremo essere adeguatamente precisi.
Il Lettore allenato

domenica 2 luglio 2017

Lo Squizzalibro di domenica 2 luglio 2017

Sorpresa! Un altro Squizzalibro a distanza di una sola settimana dall’ultimo. Non ve l’aspettavate, eh? Arieccoce… contento tu… Avevo già pensato da tempo di propinarvi un post su questo libro che posseggo da molti anni, fino a che l’altro ieri l’ho ripreso in mano, ne ho rilette delle pagine e mi sono detto: perché no? Ma non avevi proprio altro da fare?
Sì, in effetti avrei da fare, riparare i danni che lo scroscio improvviso dell’altra notte ha provocato sulle mie piantine, per esempio, ma il rileggere questo libro mi ha scatenato dentro uno spirito civico che… ve lo spiego martedì. Spirito civico? Tu? Ma fammi il piacere…




Via con gli indizi:
1 – Quello che dovrete indovinare oggi è un libro di storia. Di storia? Ma siamo tornati al liceo? Be’, dovreste già sapere che io leggo di tutto e non disdegno affatto qualche saggio ogni tanto. Sulle materie più disparate, l’importante è che siano interessanti.
2 – L’autore è italiano. O almeno presumo che lo sia. Il nome è italianissimo, ma cercando in rete notizie su di lui non ho trovato assolutamente nulla. Ci sono è vero diverse figure con il suo nome su Facebook o Linkedin, ma non avevo proprio voglia di andare a frugare nei loro profili per accertarmi che coincidessero con questo autore. È fortemente possibile anche che sia della mia stessa città, visto che…
3 – …il libro tratta un aspetto storico particolare di questa città. Molto, particolare. Ma molto molto. Fammi pensare, tutti i modi per preparare la torta al testo attraverso i secoli!
4 – Ancora più intrigante: tratta di un fenomeno che ha coinvolto l’intera Perugia dal tredicesimo al diciannovesimo secolo, comprendendo quindi quei 330 anni in cui è stata sottoposta alla tirannide papale. Ho capito. I sotterranei segreti della Rocca Paolina! La descrizione di tutti i sistemi utilizzati per sbarazzarci dei papi che ci facevano visita!
5 – Nulla di così blasfemo, benché… be’ sì, c’è di mezzo il sangue, e anche qualche ammazzatina… Diavolo, la cosa si fa veramente affascinante…
Vero? Chissà perché, se schiatta qualcuno i fatti si rivestono sempre di un interesse maggiore.
A martedì!
Freereader