sabato 27 febbraio 2016

Boldrino da Panicale

Tristo anche da morto! Recita il sottotitolo di questa storia a fumetti, a sottolineare come, se da vivo non è che fosse stato uno stinco di santo, anche dopo morto Boldrino da Panicale fu utilizzato dai suoi accoliti per trarne guadagni in maniera del tutto criticabile.
Ma si era intorno al 1300, i capitani di ventura la facevano da padroni combattendo ora per l’uno ora per l’altro signorotto locale, e dove non ci arrivavano ci tiravano il cappello. O un’ascia, una freccia o un’alabarda, per non parlare di pugnali e spadoni.




Giacomo Paneri era un giovanottone del piccolo borgo umbro al quale due delinquenti uccidono il padre per rapinarlo. Giacomo si vendica e li ammazza a sua volta, per poi darsi alla macchia temendo di essere perseguito dalla legge o di innescare una faida sanguinosa. Grazie anche alla sua stazza fuori della norma ― era ben sopra i due metri di statura ― ben presto Giacomo primeggia nelle armi e cambia il suo nome in Boldrino fino a diventare un condottiero la cui fama resterà temuta fin dopo la morte, sopraggiunta in seguito a un vile tradimento operato ai suoi danni dai signori di Macerata.
Su iniziativa dell’amico Claudio Paoletti, la storia di Boldrino è stata stampata a commemorare il secondo anno dalla scomparsa prematura dell’artista Marco Vergoni che ne ha disegnato le tavole su testi e sceneggiatura di Daniele Giovagnoni.
Nel corso della presentazione del volume, in una sala del Consiglio Comunale di Panicale stracolma di intervenuti, è stato ricordato come questa sia stata l’ultima opera completata da un disegnatore entusiasta della sua attività, sempre infervorato da ciò in cui era impegnato e alla continua ricerca di nuovi spunti per portare avanti il suo progetto di narrare storie e biografie del passato del territorio umbro per mezzo di quella forma d’arte che è il fumetto.
Dopo il Perugino, il Pinturicchio, la Rocca Paolina, la battaglia del XX giugno e numerosi altri soggetti, Marco Vergoni ha illustrato questa storia con la sua vèrve allegra e scanzonata, inserendo scene e immagini capaci di sollevare un sorriso anche in situazioni tragiche.



Vi basti guardare questa splash page di tavola 57, nella quale infuria una battaglia con ammazzamenti vari ma, come nelle migliori tavole di Jacovitti, vi si possono notare anche segnali di senso unico, sgabelli e padelle che escono dalle finestre, lische di pesce, i classici salamini firmati “Jac”, casse da morto, topi, gatti, conigli, lucertole e cartelli con scritto “sangue” su pozze nere, mentre due trombettieri spernacchiano nei propri strumenti, un micio scappa con la coda in fiamme e un bastardaccio piscia sull’angolo di un’abitazione. E non mancano nemmeno i pellerossa con arco e frecce. Un chiaro segno di una mente fervida fino all’ultimo nonostante la malattia, divertente e divertita da ciò che sta realizzando e intenzionata a divertire anche il lettore.
Ne deriva un fumetto spumeggiante, agile e leggero nel raccontare la biografia di un personaggio poco conosciuto (non era certo un Giovanni dalle Bande Nere!) e del quale restano poche testimonianze storiche attendibili.



Peccato per voi che il libro non si trovi in vendita e che le poche copie stampate siano letteralmente andate a ruba nel corso di quella presentazione soprattutto tra i panicalesi ansiosi di portarsi a casa una testimonianza relativa al loro storico concittadino, chiaro segno di come molte persone siano interessate al racconto dei fatti passati della propria terra.
E ora che il Maestro Vergoni non è più tra noi, esisteranno altri disegnatori interessati a portare avanti un’iniziativa del genere? Mah.
Di nuovo ciao, Marco!
Il Lettore 

martedì 23 febbraio 2016

Forza interiore

Se non fosse per le mediocri vetrine di negozi discutibilmente alla moda e per gli spazi di Corso Vannucci inopportunamente occupati dai tavoli dei ristoranti, il centro di Perugia sarebbe ancora splendido.
Per quanto io lo ami, ogni volta che salgo non posso fare a meno di notare quanto continui ad essere rovinato dalle mode passeggere e dalla politica delle giunte municipali che si susseguono una più deludente dell’altra.
Rifletto su queste cose mentre cammino a passo svelto per il Corso insieme al mio editor, i baveri dei giacconi serrati fino a coprire bocca e naso per proteggerli dalle raffiche di tramontana mista a pioggia. Ci stiamo recando a una presentazione del mio ultimo romanzo, non posso mancare. Poche persone in giro in un pomeriggio freddo e plumbeo, ma tra quelle poche c’è immancabilmente il rompicoglioni di turno.
Tu devi essere una persona che legge, ti si vede dalla faccia!” mi apostrofa avvicinandomi in obliquo. Ci ha indovinato, ma non lo giustifico comunque. Mi giro trattenendo un vaffanculo: so bene che queste cose il mio editor non le sopporta. Il personaggio è conosciuto: capelli lunghi, sorriso alla mano, abbigliamento di una frivolezza studiata. Sono anni che gira per il Corso cercando di vendere a chiunque le copie del suo libro che tiene in mano con la scioltezza dell’abitudine e mi sventola davanti al viso. Gli dico che non mi serve nulla ma non molla, insiste, prega, continua ad insistere, cerca di convincere la mia lei, ci riprova con me, del resto in giro c’è così poca gente che non avrebbe altri bersagli, arriva a dire che anche se non glielo compriamo ce lo regala comunque. Io insisto con il no, alla fine la mia lei cede, gli dà qualcosa e prende il libretto.
A questo punto lo fermo mentre sta per andarsene. “Te la sei cercata,” gli dico, “porto avanti un blog nel quale recensisco i libri che leggo: se fa schifo ti sputtano in pubblico.” E gli do l’indirizzo di questo blog. Lui mi sorride, dice che sarà lieto di leggermi (ma quando mai!) e se ne parte in cerca di altri acquirenti.
Il tizio si chiama Gianluigi Venditti, e il titolo del suo libro è Forza interiore. La copertina di cui vedete la rappresentazione qui sotto l’ho dovuta fotografare io stesso perché in rete non ne esistono immagini con una risoluzione superiore a dueperdue pixel, e proponendovi quelle sarebbe stato come sottoporvi a un test di Rorschach. Non è che avreste perso molto comunque, perché la copertina è proprio brutta, e il titolo pure.
Come sarà il libro?




Complimenti, avete indovinato. Fa veramente schifo.
Percentualmente sono riuscito a leggerne circa il 40%, cioè 32 pagine su 74, prima di dargli il benservito per la piattezza, la banalità, la stucchevolezza e le sgrammaticature di quello che vorrebbe essere il racconto autobiografico di uno che nella vita decide di mettersi a vendere per strada i libri scritti da lui stesso, in un rigurgito di entusiasmo new age condito di infinite considerazioni personali su odori, colori, sapori (che come al solito non è dato di sapere quali essi siano) e su quanto è bello il mondo che ci circonda.
Non discuto sulle scelte di vita: se vuoi scrivere un libro e metterti a venderlo per strada ne sei padronissimo, auguri, ma quello che mi fa imbestialire è il rompere i coglioni ai potenziali acquirenti con un’insistenza sempre fuori luogo. E poi, vuoi scrivere un libro? Fallo, ma perlomeno siine capace.
E invece no. Questo non è nemmeno un libro, sono i pensieri mediocri di uno che pensa di essere uno scrittore e ha buttato giù di getto qualche frase sulla carta, pensando di fare colpo con la banalità, e per di più infarcendole di virgole tra soggetto e predicato. Non è riuscito a rendere interessante nemmeno il flirt con una straniera, il che è tutto dire. Frasi buttate giù alla come viene viene, senza un progetto coerente e senza alcuna rilettura critica.
Una cioféga, davvero.
Sarei curioso di sapere quanto gli ha dato il mio editor, ma anche fosse un solo euro sarebbe decisamente troppo. La prossima volta che lo incontro glielo dico di persona.
Il Lettore 

sabato 20 febbraio 2016

L’ultimo giorno

Glenn Cooper stavolta supera se stesso in quanto a esagerazione e voglia di far colpo sul lettore. Bisogna imparare da lui. Nel prossimo romanzo che scriverò dovrò metterci dentro Dio stesso come coprotagonista e la fine del mondo come tematica, altrimenti non vieni nemmeno preso in considerazione. Mo’ me lo segno.




Ammazzando un po’ di persone ed estraendone dal cervello un liquido non ben specificato proprio nel momento della loro morte, un ricercatore sintetizza una droga potentissima il cui trip ti porta sull’orlo del paradiso fino a incontrare la persona morta che ti è più cara, alle cui spalle intravedi sempre Dio stesso. Lo stato di beatitudine e di rivelazione è tale che vuoi solamente ripetere l’esperienza e raggiungere quella persona che hai perso, fregandotene di tutto il resto e abbandonando lavoro e vita normale, fino addirittura ad ucciderti per riunirti per sempre con essa in un eden incomparabilmente bello.
La droga ha un successo planetario immediato fino a scardinare le basi della società civile: una marea di gente smette di lavorare per dedicarsi solo ad essa, le basi economiche distrutte, il numero dei suicidi in crescita esponenziale, fino a… niente, l’autore non ce lo dice e non sfiora nemmeno di striscio il problema, lasciando spazio solo ai vaghi destini dei protagonisti principali in un finale deludente e troppo rapido rispetto al ritmo dei primi tre quarti del libro.
Le tematiche sfiorate sono importanti: la religione, l’esistenza o no di un Dio, il dilagare di sostanze stupefacenti dall’assuefazione critica, l’accettazione consapevole di se stessi, il dramma del suicidio, la delicatezza di una società civile sempre in equilibrio precario tra l’evoluzione e il tracollo, ma solo accarezzate senza essere approfondite, con un’escalation fino a situazioni irrecuperabili la cui soluzione viene ignorata completamente.
Le risposte alla maggior parte dei problemi che Cooper aveva innescato vengono lasciate in sospeso e il romanzo si chiude in maniera raffazzonata. Di sicuro perché neanche l’autore sapeva più come districarsi dal ginepraio nel quale si era cacciato con le sue mani. Ma cosa importa? La data stabilita dall’editore è rispettata, il romanzo venderà, chissenefrega dei destini della società civile.
Il problema è che Glenn Cooper sa scrivere, anche se quello che mette dentro ai suoi libri è  perlomeno criticabile. Però sa come far susseguire una frase all’altra in modo da innescare la scintilla dell’attenzione e tenerla sempre accesa, e anche quando ti accorgi della vacuità del contenuto e ti domandi ma cosa cazzo sto leggendo? continui a leggere perché ormai sei curioso di sapere come va a finire. E alla fine… delusione.
Peccato, un talento sprecato.
Il Lettore 

martedì 16 febbraio 2016

Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta

Perché recensisco ora questo libro dopo… vediamo… almeno trentacinque anni che l’ho letto (e apprezzato)? Perché l’altro giorno l’hanno citato in una di quelle cagate di classifiche che fanno nei giornali on line inserendolo tra i dieci libri che tutti fingono di aver letto.
Insieme a questo c’erano Il giovane Holden (sopravvalutato, e fin qui ci può stare); Siddharta (giudicato noiosissimo (!)); Il vecchio e il mare (che l’autore della lista rimpiange di aver letto (!!)); La morte a Venezia (non sapendo a cosa attaccarsi per parlarne male l’autore della lista se la prende con chi pronuncia il nome dell’autore all’inglese) e alcuni altri.
Anche il romanzo di Robert Maynard Pirsig è giudicato noiosissimo (!) al punto che l’autore dell’articolo, sedicente giornalista, ammette di non averlo mai nemmeno terminato.
‘N ti gusti ‘n ce se sputa, diciamo qui a Perugia, ed è del tutto vero, del resto nemmeno io sono mai riuscito ad andare oltre la ventesima pagina de I promessi sposi, ed è vero anche che Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è uno dei libri più millantati perché è considerato un cult book, preso come stemma, portato in palma di mano da una generazione di beatnik, hippies e sessantottini in un periodo in cui le motociclette e la filosofia Zen erano molto di moda, ma il sentirlo denigrare alla stregua di un mattone qualsiasi mi ha fatto male. A me è piaciuto, l’ho letto con interesse e ne ho tratto degli insegnamenti, l’ho consigliato a qualche amico, e penso che chiunque ne parli male non abbia nemmeno fatto la fatica di tentare di capire cosa ci fosse scritto dentro.




Ricordo che lo presi appena pubblicato in Italia, affascinato dal titolo (bellissimo!) e non sapendo ancora cosa fosse lo Zen, perché all’epoca ero un motociclista appassionato e puro (nel senso che non possedevo alcuna automobile e me ne andavo in giro estate e inverno, col sole, la pioggia e la neve sulla mia Honda 450 bicilindrica), e sarò sincero, lì per lì ho pensato che parlasse più che altro di motociclette. Beata gioventù ignorante!
Pur accorgendomi ben presto che non era propriamente così, ho proseguito comunque nella lettura e mi sono lasciato trasportare in quel doppio viaggio che il protagonista effettua attraverso gli Stati Uniti e all’interno di se stesso.
È vero, il ritmo è lento, e la modalità di lettura cambia man mano che si procede nel libro: da un inizio quasi leggero, nel quale i problemi contingenti fanno sorgere la necessità di partire per tentare di risolverli, si vedono questi problemi cambiare aspetto, fino a immergersi in una vera e propria ricerca di risposte alle domande che prima o poi tutti ci facciamo nella vita, su livelli differenti e con un grado diverso di profondità, e per le quali ognuno arriva a trovare soluzioni diverse da quelle di qualsiasi altro.
I problemi relativi alla manutenzione della motocicletta vengono risolti in modi diversi a seconda della moto e del carattere del suo pilota: in genere, se si rompe una levetta su una BMW da 15.000 euro (difficile…), il suo proprietario pretenderà un perfetto e costosissimo ricambio originale pervenuto dalla Germania, ma se la stessa cosa succede su una Triumph di 15 anni non sarà difficile che il guasto si possa accomodare con un pezzo di ferro sagomato per l’occasione. E così per i problemi psicologici di ognuno di noi.
Il protagonista, durante il viaggio in moto con il figlio, lascia volare il pensiero su questi interrogativi ed elabora la sua interpretazione della teoria della Metafisica della Qualità, cioè la ricerca della propria personalità in rapporto con il principio ontologico delle basi dell’essere, interrogandosi sui principi basilari della vita in una fusione tra pensiero occidentale e pensiero orientale.
Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore” dice Fedro, l’alter ego del protagonista del libro, e questa frase mi riporta a un altro libro che ho molto amato qualche tempo più tardi: Il Tao della fisica, nel quale gli stessi concetti vengono analizzati in maniera più scientifica da Fritjof Capra, e la stessa commistione tra mentalità occidentale e filosofie orientali ho potuto apprezzarla anche in Lo Zen e il tiro con l’arco, un altro stupendo cult book di Eugene Herrigel.
È della ricerca del Divino che tratta il romanzo, della ricerca dell’Enthousiasmós, cioè l’entusiasmo da mettere in tutte le cose che si fanno, per mezzo di un viaggio entro se stessi sotto forma di chautauqua, cioè di conversazioni rappresentate in teatri ambulanti nelle quali si confrontavano opinioni sui più svariati argomenti.
Fedro tenta di risolvere i problemi suoi e quelli del figlio con la riflessione, partendo dalle necessità oggettive del mezzo su cui stanno viaggiando e sugli aspetti dei luoghi che stanno attraversando, e per sopravvivere a se stessi in modo dignitoso cerca di farlo con  tutto l’enthousiasmós che gli è possibile.
Per quanto ad un impatto superficiale possa apparire ingannevolmente noioso, e ripeto: ingannevolmente, non penso che un testo del genere possa essere liquidato con la leggerezza da incompetente che adopera l’autore dell’articolo.
Anzi, scrivere questo post mi ha fatto venire una certa voglia di rileggerlo… dopo quasi quarant’anni… quasi quasi…
Il Lettore 

domenica 14 febbraio 2016

Lo Squizzalibro di domenica 14 febbraio 2016

Voglio inaugurare gli Squizzalibro del 2016 con un testo che… ma diamo spazio subito agli indizi che se ora dico troppe cose poi non so più cosa metterci. Ecco, bravo, facciamola corta che è meglio…




1 – Il libro da indovinare in questa domenica di febbraio non è recente, la prima edizione italiana risale al 1981 ed era già alla quinta nel 1983, mentre la prima pubblicazione in assoluto era avvenuta nel 1974… Come al solito noi si arriva sempre in ritardo…
2 – …negli Stati Uniti. Successo mondiale fin da subito (ma da noi ci son voluti sette anni…), il libro scala rapidamente le classifiche fino a diventare un bestseller mondiale ed essere considerato da allora un cult book fra i più osannati di tutti i tempi. Ahh, ma allora dovrebbe essere facile!
3 – L’autore è statunitense, ancora in vita (è nato nel 1928), ed è una delle poche persone al mondo ad avere un quoziente intellettivo superiore a 170. Ho già capito! Ecco perché il protagonista del libro ha tutti quei problemi psicologici…
4 – Oltre a questo romanzo, nel quale ha illustrato una sua visione particolare del mondo, l’autore ha scritto solo un altro libro, pubblicato nel 1991, e pochissime altre cose, e ha condotto una vita molto ritirata dedicandosi a viaggi transoceanici con la sua barca. Mi ricorda un po’  Salinger, e anche il periodo storico è quello…
5 – In effetti il libro è un romanzo… ma anche un saggio di psicologia, parla di viaggi… ma anche di filosofia, e non trascura la meccanica spicciola… Basta con gli indizi, oramai hanno indovinato tutti! Ma toglimi una curiosità, non mi dire che tu l’hai letto solo ora!? Ma di cosa ti impicci? Fatti un po’ gli affari tuoi, và… Come ti è venuto in mente di recensire tanto bene questo romanzo di quarant’anni fa? Lo spiego nel post, ma non hai nulla da fare? Sono curioso… Ma vatti a fare in giro in moto e non rompere!
Freereader

venerdì 12 febbraio 2016

La passione di Artemisia

Prima del diciannovesimo secolo di donne pittrici ne sono rimaste famose poche. Anzi, probabilmente Artemisia Gentileschi è la prima donna che sia giunta agli apici della fama nel campo della pittura.  Questo perché per secoli, e complice esecrabile la Chiesa cattolica, la condizione della donna è stata relegata a quella di strumento di lavoro e di piacere per l’uomo. Una piaga sociale che non si è ancora finito di combattere. Con questo non voglio dire che io sia favorevole all’innalzamento delle quote rosa: ritengo che nel genere femminile ci sia esattamente la stessa percentuale di imbecilli che nel genere maschile, e di conseguenza un aumento del numero di donne tra i politici lascerebbe del tutto invariato il livello di incompetenza.
Ma torniamo in tema.




Susan Vreeland racconta la storia di Artemisia Gentileschi, donna che ha cercato di farsi valere in un mondo in cui veniva data importanza solamente agli uomini, facendola narrare da lei stessa in prima persona in un’autobiografia che privilegia l’aspetto romanzesco e calca la mano nel denunciare la condizione della donna nel 1600, ma sottolinea anche la psicologia femminile nell’interpretare le situazioni, le tecniche, e soprattutto i sentimenti che dovevano essere rappresentati nei quadri.
Il risultato è un po’ come il realismo caravaggesco (il Caravaggio frequentava spesso casa Gentileschi) che Artemisia ha preso come ispirazione per le sue tele: denso di pathos ma non scevro di una certa retorica, indotta più che altro dalla costrizione dovuta al dover rappresentare determinati soggetti; buon racconto ma manieristico, che mi ha dato il sapore di un romanzo rosa (seppur ricco di tragedia) condito di molti trucchi atti a far intenerire il lettore e soprattutto la lettrice. Ma in fondo si legge bene ed è scorrevole, anche se per dare spazio agli aspetti romanzati la Vreeland ha leggermente modificato la realtà dei fatti e ha condito il tutto con una spolverata della melensaggine che piace tanto a un certo tipo di donne.
Stuprata da un amico di famiglia, tradita negli affetti dallo stesso padre Orazio, torturata in un processo-farsa non dissimile da quelli cui sono sottoposte ancora oggi le donne oggetto di violenze, reiteratamente cornificata dal marito, delusa dagli interessi frivoli della figlia, Artemisia tenta di farsi strada nel mondo dell’arte tra forti osteggiamenti e pregiudizi. Ma la bravura c’è, e riesce ad arrivare ad essere ammirata da personaggi famosi come Cosimo de Medici, dal pronipote di Michelangelo Buonarroti (che le regala pure un pennello appartenuto al celeberrimo prozio) e Galileo Galilei che la prende in simpatia prima di essere travolto dalle accuse di eresia (la Bibbia dice che il sole è puro a immagine di Dio, quindi è impossibile che ci possano essere sopra le macchie che tu dici di vedere con le tue lenti, no? Eehh, birichino di un Galileo…).
Nel romanzo la protagonista ha una sola figlia, mentre nella realtà ne ebbe quattro dal marito Pierantonio Stiattesi, e c’è una forte discordanza di date nel succedersi delle sue permanenze nelle varie città italiane e Greenwich, ma in fondo tutto ciò interessa marginalmente coloro che si vogliono solo gustare un buon romanzo, solo che la Vreeland altera anche i ritmi di lettura concedendo ad esempio molto spazio agli avvenimenti svoltisi a Roma, Firenze o Genova e quasi sorvolando sulle permanenze a Venezia e Napoli.
I sentimenti e i desideri di riscatto della condizione femminile vengono però sempre tenuti in primo piano insieme ai combattimenti interiori tra l’orgoglio e il riuscire a perdonare coloro che ti hanno inflitto dei torti, e il succo del romanzo sta proprio nel capitolo finale in cui la protagonista resta indecisa fino all’ultimo sull’opportunità di riavvicinarsi al padre morente, colui che le ha insegnato tutta la sua arte per poi tradirla, o abbandonarlo al suo destino.
Sicuramente un libro apprezzato molto di più dal gentil sesso che da un burbero maschiaccio come me, ma devo dire che in fondo non l’ho trovato poi così malaccio. Sarà che alle rappresentazioni bibliche ho sempre preferito l’impressionismo, ma se Artemisia Gentileschi fosse vissuta trecento anni più tardi, con la sua passione per i colori accesi sarebbe riuscita a dare dei punti anche a una Georgia O’Keeffe.
Il Lettore 

martedì 9 febbraio 2016

Mi chiamo Ugo

Qualcuno di voi sicuramente ricorderà che nel lontano agosto del 2013, poco dopo aver iniziato l’avventura di questo blog, avevo pubblicato questo post:
Andate a dargli un’occhiata, capirete meglio quello che segue. Nell’articolo, per ovvie ragioni, non avevo potuto citare l’autore né il titolo del romanzo che avevo trovato meritevole di pubblicazione, né accennare al soggetto o alla trama.
Bene, oggi sono veramente contento di poter rivelare l’arcano.




Come anticipavo nel post il romanzo mi era piaciuto, ma avvertivo anche l’autore, Massimo Bertarelli, che, pur consegnando all’editore un responso positivo, la strada per la pubblicazione sarebbe stata ancora lunga e difficoltosa, tanto è vero che all’epoca non si concretizzò nulla nonostante fossero intercorsi anche rapporti diretti tra gli interessati. Colpa anche della distanza fisica: ogni editore locale lavora e promuove nella propria area, e a 600 chilometri di distanza si muove meno bene.
Ma Massimo Bertarelli è un tipo tenace e non ha abbandonato le speranze, proponendo Mi chiamo Ugo ad altre case editrici fino a che non è stato pubblicato. Ed eccolo qui. Non avevo dubbi che ci sarebbe riuscito: il romanzo merita a partire dall’impeccabile presentazione all’editore per proseguire con lo stile e finire con i contenuti, e prima o poi anche qualcun altro, oltre me, se ne sarebbe accorto.
Appena venuto in possesso della copia stampata, con tanto di dedica personale e ringraziamenti, non vedevo l’ora di rileggerlo e vedere se gli fossero state apportate modifiche rispetto alla  versione digitale che avevo letto a suo tempo. Purtroppo, come è entrata in casa della copia se ne è appropriata il mio editor, e ho dovuto aspettare a denti stretti il mio turno. Ma la cosa che mi ha reso soddisfatto, come conferma alle mie intuizioni, è stata quella che l’altra sera mentre leggeva se ne è uscita con la frase: “questo Bertarelli scrive bene…”.
Finalmente venutone in possesso avevo pensato di confrontare le due versioni, ma ben presto ho rinunciato all’idea e mi sono tranquillamente lasciato prendere dalla lettura nonostante conoscessi già lo svolgimento dei fatti.
Ugo è un barbone, un senzatetto, un clochard che vive nelle strade di Monza ed è in una di queste che una sera viene preso di mira da un gruppo di delinquenti che tentano di dargli fuoco. Il malcapitato si risveglia in una stanza d’ospedale con diverse ustioni sul corpo, ed è da questa stanza che parte il romanzo portando il lettore a scoprire che il barbone è un ex ingegnere caduto in disgrazia oltre che un profondo conoscitore del significato intrinseco dei nomi, il quale comincerà un’indagine personale su quanto gli è accaduto arrivando a scoprire l’esistenza di intrighi di una profonda importanza sociale.
Al lettore il protagonista appare da subito simpatico, esteriormente cinico e disincantato ma interessato all’umanità delle altre persone, e comincia ad appassionarsi alle sue investigazioni che, se da una parte lo costringono in ospedale a più riprese, dall’altra permettono la conoscenza di una serie di persone per le quali i senzatetto non sono solo dei reietti da evitare ma esseri umani degni di considerazione che magari hanno avuto solo più problemi degli altri.
Vi ho ritrovato lo stile che avevo conosciuto, semplice e discorsivo, la leggibilità fluente fino al termine senza cadute di interesse e lo svolgimento coerente con le premesse, insieme alla mancanza di refusi e stonature che sta ad indicare una meticolosa curatela editoriale.
E un altro aspetto in cui Bertarelli è stato bravo è quello di parlare di Monza senza esagerare: in troppi romanzi scritti da non professionisti la contestualizzazione viene enfatizzata, il luogo in cui si svolgono i fatti viene descritto in modo aulico e ridondante per esaltarne le attrattive fino a superare quel sottile limite che separa il credibile dallo stucchevole, e così facendo rovinano irrimediabilmente i romanzi. È sempre un camminare in bilico sullo strapiombo, e per fortuna Bertarelli non è caduto dalla parte sbagliata.
Un bel lavoro, e sono contento che dopo molte peripezie abbia visto la luce.
Tanto per essere pignoli (e solo per essere coerenti con il mio, di cinismo), se proprio devo andarci a trovare un difettuccio sarebbe quello che, ad eccezione dei cattivi di turno, tutti i personaggi sono un po’ troppo politicamente corretti per apparire del tutto reali: tutti umani e altruisti, comprensivi, intelligenti, intuitivi e di gran cuore, a partire dai poliziotti per finire con infermiere e barbieri, ma è solo la mia anima bastarda che fatica un po’ ad accettare la credibilità della cosa. Tanto è vero che non credo molti altri ci abbiano fatto caso…
Bravo Massimo, e bravo Ugo. Acc… se per questo blog non usassi uno pseudonimo, pagherei volentieri un euro per il significato del mio nome di battesimo…
Il Lettore soddisfatto

venerdì 5 febbraio 2016

Nemico, amico, amante…

L’altro giorno mi è capitato di soffermarmi su Rai 5 mentre stavano trasmettendo una rappresentazione della Fedra, un’opera sinfonica di Sylvano Bussotti del 1988. Per la serie: se proprio devo accendere la televisione, perlomeno cerco canali che trasmettano un qualcosa di culturale. Ce ne sono pochi, intendiamoci, ma ogni tanto si incappa in qualcosa di interessante.
Non è stato questo il caso.
Questo tipo di musica sinfonica contemporanea ritengo sia del tutto inascoltabile. Ci ho provato, giuro, mi sono sforzato di apprezzarla, di capire perché fosse ritenuta degna di plauso e quindi riproponibile da una grande orchestra, ma più insistevo, più il mio cervello si rifiutava di apprezzare quello che sentivano le mie orecchie. Non entro nei particolari tecnici perché non è questo il luogo, ma la stessa riflessione si può applicare anche in campi diversi.
Va bene la cultura seria, ma penso che una delle sue componenti fondamentali debba essere quella di porsi in modo piacevole. Se ciò che senti non è piacevole, perché dovresti continuare ad ascoltare?
Se ciò che leggi non è piacevole, perché continuare?




È stato questo il caso del Premio Nobel 2013 per la Letteratura, Alice Munro. Ho voluto iniziare la sua raccolta di racconti Nemico, amico, amante… perché non avevo mai letto questa autrice, ma ho faticato ad arrivare al terzo racconto che ho lasciato a metà, dopo che nei primi due mi era capitato di addormentarmi sulle pagine o di dover tornare indietro perché non ricordavo nulla di cosa avevo letto la sera prima.
Per carità, non perché fossero scritti male, anzi! La Munro scrive benissimo, con uno stile da Grande Maestro supportato da una tecnica narrativa mirabile, ma i suoi racconti non sono per nulla piacevoli da leggere. Superficialmente si potrebbe affermare che sono noiosissimi, il che non sarebbe così lontano dalla realtà, ma in questo caso preferisco dire, proprio perché mi sono reso conto di trovarmi di fronte una grande scrittrice ― che purtroppo a più riprese mi ha fatto addormentare ― che non hanno suscitato in me quell’interesse necessario a poter proseguire nel leggere una cadenza lenta, rarefatta, e il cui contenuto è molto lontano dal mio vissuto personale.
Gli spaccati di vita normale rappresentati dalla Munro, privilegiando il contenuto dell’anima femminile, di persone che abitano un mondo diverso dal nostro come può essere quello dell’interno del Canada, non hanno fatto scattare in me nessuna molla di interesse, pur comprendendo benissimo i giochi sottili, velati, enigmatici, che si andavano formando tra i protagonisti e che sono stati realizzati con una grande tecnica.
Grande stile, grande tecnica, noia infinita. È la mancanza della piacevolezza del leggere che mi ha fatto abbandonare il libro, e me ne dispiace perché ho colto la bravura dell’autrice, ma d’altra parte non capisco perché per gustarmi un autore bravo io debba per forza soffrire. Sono sicuro che a molti altri possa piacere veramente molto e insegnare qualcosa, ma non nel mio caso.
O forse, per alcuni libri bisogna avere la fortuna di leggerli al momento giusto. È possibile che non si riesca ad apprezzare un romanzo se lo si prende in mano in un momento sbagliato, quando la nostra esistenza è dominata da pensieri che con il contenuto di quel testo non hanno nulla a che fare o ne sono in contrapposizione.
Magari ci riproverò fra una decina d’anni.
Il Lettore 

martedì 2 febbraio 2016

Atlantis Genesi

Della serie: se li conosci, li eviti.
Avevo giusto bisogno di uno spessore in garage per zoccare il tavolo da lavoro su cui tengo la morsa, e il volumone di più di 500 pagine potrebbe essere proprio adatto allo scopo. Altri utilizzi non ne vedo e, visto che odio disfarmi di qualsiasi tipo di libro, questa potrebbe essere una soluzione.




Un’ennesima porcheria che secondo la pubblicità dovrebbe risultare “enigmatica come Dan Brown”; che tratta dei più profondi misteri della storia e nella quale l’umanità rischia seriamente di scomparire ma per fortuna intervengono gli eroi di turno. Anche in questa c’è di tutto: terroristi, astronavi aliene, stragi sanguinose, il trito e ritrito mito di Atlantide, malattie contagiose, sottomarini nazisti, medici che fanno esperimenti sulla pelle di poveracci, sette segrete alla “uomini in nero” che controllano i destini del mondo, ricercatori puri ed integerrimi e soprattutto tanta, ma tanta esagerazione che dopo poco ti satura irrimediabilmente.
Ho retto poche decine di pagine, con la sfiducia e la delusione che andavano crescendo man mano che leggevo descrizioni raffazzonate che non lasciavano vedere situazioni chiare ma facevano restare tutto nel fumoso, in cui non si capiva bene nemmeno chi faceva cosa a chi e tantomeno il perché, fino a che ho deciso che non potevo continuare a perdere tempo in questo modo. Perlomeno il tavolo con la morsa tornerà ad essere stabile.
Dicono (ripeto: dicono, ma non è detto che sia la realtà) che questo romanzo abbia venduto oltre un milione di copie negli Stati Uniti e che sia stato tradotto in 20 paesi. Ammesso che ciò sia vero, sarebbe solo un altro esempio della potenza della pubblicità e della dabbenaggine degli americani. Anche solo per la palese mancanza di plausibilità delle scene che, ripeto, sono scritte veramente male.
Per fare un esempio, dopo poche pagine dall’inizio si incontra una situazione in cui un gruppo di persone è oggetto di un esperimento: vengono tutte rinchiuse in una stanza nella quale viene calato (non si sa da dove) un automa umanoide alto quattro metri che solo con la sua presenza, e non è dato di sapere in quale modo esattamente, uccide quasi tutti i presenti. E fin qui ci può anche stare, magari il come e il perché li spiegheranno in seguito, pensi. Il fatto è che per calare l’automa da non si sa dove utilizzano quattro cavi d’acciaio ognuno dello spessore di 25 centimetri (sic).
Ora, possibile che nessuno si sia accorto dell’incongruenza? Un’unica fune d’acciaio normale del diametro di soli 25 millimetri regge circa 35 tonnellate di carico (da considerare che raddoppiando il diametro del cavo il carico supportato quadruplica: una fune da 50 mm regge circa 140 ton). Quanto avrebbe dovuto pesare l’automa per giustificare l’uso di 4 funi ognuna con un diametro dieci volte maggiore? A occhio e croce avrebbe dovuto avere la stazza di una portaerei, non essere alto solo 4 metri. Senza considerare un’altra faccenda: da che cosa sono retti i cavi? Quale soffitto avrebbe potuto sopportare un’installazione del genere?
Ma sembra che nessuno ci abbia fatto caso, non gli editor né tantomeno i lettori. Certo, è possibile un refuso, un errore nell’unità di misura (del resto anche nei telegiornali vengono allegramente scambiati metri con chilometri e velocità con accelerazioni), un errore di traduzione, o forse sarà che sono io che sono pignolo, che sto a cercare il pelo nell’uovo. Uffa, che noioso che sei!
Perdonatemi, sarò fatto così, ma quando leggo questi sfondoni immancabilmente mi cadono le palle.
Il Lettore demoralizzato