venerdì 31 ottobre 2014

Fiamma fredda

Dopo un’intera mattinata trascorsa a tagliare e spaccare legna, nell’ambito della mia campagna personale di aiuti pro bono agli amici, seguita da uno squisito pranzetto agreste, cos’è che sarebbe perfetto per rilassarsi? Ovvio, spulciare tra i volumi della libreria della padrona di casa, dove con stupore ho trovato uno dei miei autori preferiti mimetizzato nella striscia giallo-nera de “I romanzi neri del giallo Mondadori”, quasi fosse un romanzetto da quattro soldi. Ma un romanzetto da quattro soldi non parte in maniera così cruda dipingendo nell’incipit il cadavere di una madre “colato” sul materasso, sia pure “…solo in parte, e se lui teneva la porta sbarrata e puntava il ventilatore per respingere il fetore, non era poi questa schifezza.


Un autore come Joe R. Lansdale può permettersi il lusso di intitolare un romanzo con un ossimoro e di iniziarlo con un’immagine capace di scioccarti e poi di continuare per tutto il volume con scene che oscillano tra il raccapricciante e lo scandaloso senza mai farti venire la voglia di bruciare il volume. Non per niente qualcuno l’ha proposto per un Nobel che non prenderà mai, perlomeno finché continuerà ad usare nei suoi scritti una quantità di parolacce tale da far schiattare sul colpo un’educanda (ma ne esistono più?).
Dello stile e dell’opera di Lansdale non parlerò (se siete incuriositi guardate qui); dirò solo che in questo romanzo che riprende il più duro filone noir l’autore texano ha superato se stesso in quanto a crudezza di esposizione e di linguaggio, infilando pagina dopo pagina una sfilza di scene durissime e spesso rivoltanti che si susseguono per tutta la trama sfociando in un finale in cui i cattivi vincono alla grande e non si sognano nemmeno minimamente di redimere la propria anima. Ma anzi.
Ma sapendo leggere tra le righe, al di là del marcio che impregna quasi tutti i protagonisti, al di là dello splatter, al di là del grottesco e del surreale, al di là delle vagonate di sangue e di sesso, si intravede come l’autore sia sempre coinvolto da un universo di disperati che navigano senza saper dove andare, ricercando accanitamente una guida e una maniera per riscattare le loro esistenze perdute, senza futuro. Lansdale si nasconde dietro comportamenti bestiali per denunciare la povertà, l’emarginazione, il rifiuto da parte di una società sbagliata, la volontà dell’individuo di ricercare una redenzione situata sempre al di là della sua portata.
Una lettura dura, adatta solo a quelli che ritengono di avere uno stomaco forte, con personaggi che rimarranno impressi a lungo nella memoria del lettore.
Il Lettore 

mercoledì 29 ottobre 2014

Un indovino mi disse

Ovvero: il potere della superstizione. Quando anche un giornalista esperto e navigato come Tiziano Terzani si lascia influenzare dagli oracoli, allora viene da pensarci due volte a passare sotto una scala. Poi magari ci passi sotto lo stesso, ma pensare ci pensi. I gatti neri no, mai, mi piacciono troppo anche solamente per pensare di evitarli, a parte il fatto che dal momento che ne ho uno in casa dovrei cambiare strada trenta volte al giorno.


Non c’è gusto a recensire questo Un indovino mi disse. Primo perché lo conoscono tutti, come tutti conoscono Terzani, secondo perché è scritto troppo bene, da un vero professionista come lui era. Punto. Non è che ci sia molto d’altro da dire. A quei pochi che non l’avessero mai sentito nominare dirò solo: leggetelo.
Ma come post sarebbe troppo breve, e allora spiegherò anche che il plot del libro nasce da un allarmante responso fornito a Terzani da un indovino cinese, il quale lo avvertì che il 1993 sarebbe stato un anno per lui infausto, nel quale avrebbe rischiato di morire, e in particolare lo esortò a evitare i viaggi aerei. Capirete, togliere l’aereo a un giornalista internazionale è come costringere Pistorius a correre la finale dei 100 senza protesi (ammesso che in galera abbiano una pista per l’atletica).
Ma Terzani accoglie il consiglio e lo trasforma in una sfida: riesce a convincere i suoi datori di lavoro (a quel tempo era corrispondente di Der Spiegel) a lasciarlo viaggiare solo in nave e in treno, e si lancia in una scorribanda attraverso tutta l’Asia toccando Laos, Birmania, Thailandia, Cina e altri stati e su fino alla Mongolia e alla Russia da poco smembrata, stendendo nel frattempo una serie di reportage che in seguito sarebbero diventati questo libro. È finalmente l’occasione che Terzani aveva atteso per scrivere non solo di personaggi famosi come doveva fare per lavoro, ma della gente comune, dell’uomo di strada, degli usi e delle abitudini di paesi così lontani dal nostro pensiero di civiltà. Nel suo stile semplice ma coinvolgente Terzani parla di tradizioni, di rapidi cambiamenti, con un tocco di ironia e un occhio di riguardo ad ascoltare i pensieri di maghi, santoni, chiromanti e sciamani. Chissà, forse sperava che potessero annullare la “sentenza” del cinese? E cosa sarebbe successo se avesse ignorato l’avvertimento non si saprà mai, fatto sta che lo scrittore è morto undici anni dopo quel fatidico 1993.
Un perfetto libro di viaggio, e devo ammettere che tra tutti quelli che ho letto dell’autore fiorentino questo è senz’altro il migliore.
Il Lettore 

lunedì 27 ottobre 2014

Doppio misto

Un altro scrittore assente nel mio elenco personale di autori italiani letti, che però da parecchio tempo pensavo di inserirvi, è Raffaele La Capria. Ne avevo sempre sentito parlare bene ma, come sempre, sono molto restìo ad accettare per oro colato qualsiasi altro parere finché non ne ho fatto un’esperienza personale.

Del resto, conosco molte persone a cui piacciono la Mazzantini e Coehlo.


Tra i tanti libri editi da questo scrittore e sceneggiatore novantaduenne, marito della splendida Ilaria Occhini, non conoscendone minimamente alcuno ho scelto questo Doppio misto, forse lasciandomi influenzare da quel Doppia coppia di John Irving,  letto non molto tempo fa, per il titolo simile, e dalla bellissima foto di copertina che lascia presagire un’eleganza degli interni fuori del comune.
E in effetti l’eleganza, nella prosa dello scrittore napoletano, c’è tutta, e sottolinea il racconto parecchio autobiografico di amori e rapporti che furono, con tutto ciò che caratterizza  la maggior parte delle relazioni fra uomo e donna: entusiasmi, innamoramenti, rimorsi, ricordi, abbandoni, tradimenti. Il tutto in una scrittura molto controllata, quasi sottotono, che lascia fluire i racconti senza mai lasciarsi prendere dall’euforia.
Pur apprezzandone lo stile devo dire che questi spunti autobiografici, nei quali non succede niente di particolarmente esaltante (per noi; forse per lui, all’atto di vivere le vicende che racconta, l’esaltazione c’è stata anche), appaiono leggermente piatti e scontati come possono esserlo i resoconti di vite “normali”, tanto da farti spesso pensare va be’, e allora?, e alla fine rimani nel dubbio nel dover decidere se questo libro ti è piaciuto o meno o se inserirlo nella categoria “quelli che scrivono bene ma non ti lasciano nulla e dopodomani ti sarai scordato tutto”.
Va be’, diamogli un’altra possibilità e rimandiamo la decisione al suo prossimo romanzo che mi capiterà di leggere.
Il Lettore 

sabato 25 ottobre 2014

L’anello di acque lucenti

In piena stagione venatoria mi piace recensire scritti che non parlano di caccia, ma al contrario tacitamente la condannano inneggiando ad una natura selvaggia e incontaminata. Questo  resoconto di Gavin Maxwell di qualche anno fa è uno splendido esempio di ritorno completo alla natura, roba che avrebbe fatto schiattare d’invidia Henry Thoreau.


Chi non ha mai provato in vita propria il desiderio di fuggire dal mondo e isolarsi in un luogo remoto a ritemprare le forze si faccia avanti. Il protagonista di questo libro è uno scrittore in un periodo critico, al quale viene offerto di abitare in un vecchio edificio ubicato in riva al mare lungo la costa delle West Highlands scozzesi, raggiungibile solo a piedi e senza alcuna comodità all’interno. La casa più vicina è a una distanza di qualche chilometro, il paese più prossimo a più del doppio, i dintorni incontaminati.
A Gavin Maxwell il posto appare da subito come un paradiso: lo ribattezza Camusfeàrna,  che in gaelico significa “La baia degli ontani”, e lo rende  abitabile utilizzando per mobilia vecchie cassette per il pesce abbandonate sulla riva dalla risacca, quindi vi si trasferisce recando con sé Mij, un cucciolo di lontra che aveva riportato dall’Iraq.
Il libro è il resoconto del periodo passato da Maxwell a Camusfeàrna insieme a Mij, che al pari del suo compagno umano si era trovato magnificamente bene in una natura cruda e spettacolare, tra oceano, brughiere e gelidi torrenti ricchi di leccornie per lontre. Non è facile immaginarsi una lontra come animale domestico, ma Maxwell riesce benissimo a rendere il carattere curioso e giocherellone di questi predatori, con quella tenerezza e quella comprensione che un appassionato cinofilo riserverebbe al proprio cane. Un po’ come nel libro di Farley Mowat recensito qualche giorno fa, le vicissitudini dei protagonisti assumono spesso delle tinte tragicomiche che portano sia al sorriso che alla commozione.
La solitudine e il luogo trasformano lo scrittore da cacciatore a fervente sostenitore della natura, tanto che alla morte di Mij Maxwell continuerà a vivere nello stesso posto “adottando” una famiglia di lontre autoctone e dedicando loro un affetto che sarà completamente ricambiato.
Alla faccia degli “sportivi” armati di doppietta.
Il Lettore 

giovedì 23 ottobre 2014

Ruggine

Bello. Veramente bello. Una via di mezzo tra un thriller e un romanzo di formazione che ti fa stare con il fiato sospeso fino alla fine e ti scandalizza con situazioni scioccanti fino al limite e un linguaggio crudo che più esplicito non si può.


Dice il saggio che chi va con lo zoppo impara a zoppicare, e Stefano Massaron di sicuro ha imparato parecchi segreti frequentando gente come Joe R. Lansdale, Jeffrey Deaver, Cornell Woolrich, Poul Anderson, Douglas Preston, Lincoln Child e Jonathan Coe, o meglio, più che frequentando, traducendo i loro romanzi in italiano.
Dell’esperienza condotta come traduttore l’autore ne ha fatto tesoro, prendendo il tocco migliore da ognuno degli autori che ha studiato e infondendolo in questo Ruggine: il processo di formazione adolescenziale di Lansdale, il gusto del colpo di scena di Deaver, le atmosfere cupe di Woolrich, la costruzione del thriller di Preston & Child eccetera eccetera
La storia è progettata benissimo, con un sapiente dosaggio di scene nel tempo attuale alternate a capitoli interamente in analessi, scrittura in prima e in terza persona oltre alla spietata identificazione con la mente del cattivo di turno che è fonte di un continuo susseguirsi di sentimenti forti nella coscienza del lettore: schifo, rabbia, compassione, ribrezzo. Lo stile è accuratissimo, il ritmo veloce ma non così massacrante da non lasciare spazio alle descrizioni e alle riflessioni dei protagonisti che sono dipinti magnificamente, sia nei flashback da adolescenti che nella loro vita adulta, giungendo perfino a differenziare tono e tecnica nei diversi capitoli con lo scopo di una maggiore caratterizzazione.
Della vicenda come al solito non dico nulla, anche se di sicuro molti la conosceranno per aver visto il film che ne è stato tratto con Valerio Mastandrea, Filippo Timi nella parte del cattivo e Stefano Accorsi, salvo considerare che non è per nulla facile scrivere un romanzo sulla pedofilia senza apparire scontati o ributtanti. Forse a causa di alcune scene molto forti ho letto diverse critiche negative, perfino di lettori che non sono riusciti a terminarlo per esserne stati scandalizzati, e posso anche comprenderli (ma non giustificarli).
Ripeto: a me è piaciuto molto e vi ho trovato una sola stonatura tecnica, proprio alla fine. Purtroppo non posso dirvi di che cosa si tratta: sarei costretto a raccontarvi tutta la trama finale compreso, ma credetemi, non pregiudica affatto la sensazione di aver letto un bel romanzo.
Il Lettore 

martedì 21 ottobre 2014

Il libro dei coniglietti suicidi

Su queste pagine non si dovrebbe parlare di politica perché, come sostiene un altro blogger del quale non faccio il nome, questo potrebbe non essere gradito dai lettori.

Ma nel recensire questo libretto non posso fare a meno di pensare come esso risulti aderente ai tempi che stiamo vivendo, nei quali è la politica la causa principale di un fenomeno che mai prima d’ora si era manifestato in maniera così virulenta come oggi, oserei dire epidemica.
Un fenomeno che i nostri “governanti” (le virgolette sono messe apposta, a buon intenditor…) cercano di occultare, di non far risaltare, di nascondere per fingere e far sembrare che tutto stia andando per il verso giusto, state tranquilli, non è successo nulla, la crisi sta finendo, intascate questi ottanta euro e zitti, che mettiamo tutto a posto noi.
Ma ogni suicidio resta sempre una tragedia definitiva per chi lo attua, immane per chi resta.
Purtroppo in questi ultimi tempi tante persone sono state costrette a questo passo, e uno Stato democratico non può e non deve trincerarsi dietro una cortina di nebbia e ignorare bellamente dei fatti che sono comunque sotto gli occhi di tutti. Ma mi domando, stiamo vivendo in uno Stato democratico?

Per fortuna su questo tema qualcuno ci scherza anche sopra, forse perché vive in Inghilterra e non in Italia. Andy Riley ha immaginato un mondo abitato di paffuti e teneri coniglietti, la cui unica attività è quella di cercare la maniera più cervellotica per mettere fine alla propria esistenza senza mai esplicitare una motivazione valida che li spinga a farlo.


Il libro dei coniglietti suicidi è un volumetto uscito nel 2003 e al quale subito hanno fatto seguito Il ritorno dei coniglietti suicidi, Il superlibro dei coniglietti suicidi e Altri coniglietti altri suicidi, per un totale di centinaia di migliaia di copie vendute. Sono libricini in cui ogni pagina è una vignetta nella quale uno o più coniglietti si ingegnano in ogni modo di ammazzarsi scegliendo  allo scopo i metodi più fantasiosi ed efferati.


L’altro giorno mio figlio mi ha domandato: Papà, che cos’è la faglia di San Andreas? Dopo avergli spiegato esaurientemente cosa fosse, forte delle mie conoscenze sul tema e tirando in ballo anche il terremoto di San Francisco del 1906, gli ho chiesto cosa avesse innescato la domanda,  e la risposta è stata che non aveva capito una vignetta di questo libro nella quale un coniglietto sfrutta una delle caratteristiche di una faglia trascorrente per porre fine ai suoi giorni. C’è anche questo, oppure questo:


O quest’altro:


O metodologie più complesse:


Tirando in ballo spesso anche riferimenti a film o fumetti molto conosciuti. Ogni riquadro, in un bianco e nero dal tratto semplicissimo, propone un coniglietto che tenta o attua il suicidio in modo diverso. Nei modi più disparati e cervellotici. E ad ogni vignetta tu non sai mai se sorridere per la macabra fantasia dell’autore o lasciarti inorridire dal raccapriccio.
Giornalisti e psicologi si sono domandati il perché di un tale successo di vendite per un libro che tratta un argomento così difficile come la morte autoinflitta, e hanno scritto delle erudite interpretazioni sviscerando il problema fin negli angoli più nascosti della mente umana. Ma forse la risposta è molto semplice: siamo sempre portati a sorridere, anche della morte, proprio della morte, per poterla esorcizzare.
Fatto sta che la fervida fantasia dell’autore ti porta a ridere spesso scorrendo le vignette, e ti fa anche dimenticare l’esorbitante prezzo di copertina.
A proposito, mi viene in mente che in quella comunità di coniglietti i politici devono essere ben peggiori dei nostri.


Il Lettore 

domenica 19 ottobre 2014

Crimini imperfetti

Sciropparsi 1200 (milleduecento) pagine filate di thriller non è roba da poco: ci sono riuscito in una decina di giorni o poco più, ovviamente alternandolo anche ad altre letture. Ma non lo rifarei (almeno non a breve). Non perché il libro non mi sia piaciuto, quanto perché nel caso di queste raccolte sarebbe meglio leggere i singoli romanzi a distanza di un po’ di tempo l’uno dall’altro, evitando così l’affastellarsi in mente delle singole vicende che alla fine creano un po’ di confusione.


Allora, questo Crimini imperfetti è di Massimo Lugli ed è la raccolta, come dice il sottotitolo, di Tutte le indagini di Marco Corvino, che sarebbe l’alter ego dell’autore in quanto giornalista, scrittore e appassionato di arti marziali. Queste indagini vanno a costituire l’ossatura di quattro romanzi (Il carezzevole – L’adepto – Il guardiano – Gioco perverso) nei quali il protagonista si trova di volta in volta a dover a che fare con spietati e sadici assassini, con riti satanici, con le più segrete scuole di arti marziali e con gli abissi della perversione nelle pratiche sado-masochistiche. Capitano tutte a lui, una bella sfiga. Ma dal momento che Marco fa il giornalista, ne trae ogni volta l’occasione per centrare un qualche scoop che puntualmente manda in bestia i suoi rivali della carta stampata.
Non solo: in ogni romanzo la tranquillità psico-fisica del protagonista è messa a dura prova dagli accadimenti nella sua vita privata, tra avventure sentimentali, problemi familiari, tradimenti, divorzi, riappacificamenti, nuove separazioni, amanti scomode e presenze esoteriche, nei confronti dei quali il nostro non sempre reagisce in modo talmente specchiato da farlo apparire del tutto simpatico. Anzi, spesso si comporta proprio come un coglione nato e posto, tanto da far pensare che l’autore abbia voluto infondergli un po’ troppa aura da antieroe.
Di Massimo Lugli avevo già parlato bene qui, e queste storie hanno confermato il valore della sua scrittura: uno stile sincero e diretto, veloce, ritmato, che non si tira indietro nell’usare una terminologia cruda ma efficace, con dialoghi fulminanti e perfettamente plausibili. Per fare un confronto con altri autori di thriller nostrani, mi viene in mente Donato Carrisi (vedi qui e anche di qua) di fronte al quale Massimo Lugli a mio parere esce nettamente vincitore nonostante si senta parlare molto di più del primo.
In questi quattro romanzi un amico ha trovato un po’ troppo pedanti le parti riguardanti le arti marziali, in specie il karate e il tai chi, che Marco Corvino pratica regolarmente: io al contrario le ho trovate divertenti e frutto di una profonda ricerca, forse perché ho passato anch’io lunghi anni sul tatami e mi ha divertito il ritrovare nel libro quelle discipline: mi ha fatto tornare alle narici la puzza di sudore della palestra, la fatica e i muscoli doloranti frutto di interminabili allenamenti. Ma capisco che per un “non cultore” le sfilze di termini giapponesi incomprensibili in cui si incappa ogni tanto potrebbero tramutarsi ben presto in un potente antidoto contro l’insonnia.
Comunque quattro bei godibilissimi noir, e l’unico consiglio che mi sento di ripetervi è quello di gustarveli lasciando passare almeno un paio di mesi tra l’uno e l’altro.
Il Lettore
Lugli, Lettore 

giovedì 16 ottobre 2014

La sezione aurea

Pubblico la recensione di questo La sezione aurea perché mi ha incuriosito il trovarlo pochi giorni fa nella classifica dei 100 libri più venduti della settimana: la prima edizione infatti è uscita nel 2002, mentre io avevo comperato e letto a suo tempo una ristampa del 2010.

Sono contento per l’autore: io l’avevo trovato molto affascinante.


Il sottotitolo è: Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni
E qual è il numero in questione?
Semplice: 1.618… (unovirgolaseicentodiciottoecceteraeccetera) dove i puntini stanno ad indicare una sequenza infinita di altre cifre non ripetitive. E che cos’ha di particolare questo numero? Che è un numero irrazionale, cioè non può essere ottenuto con una divisione tra numeri interi. 
E allora? Sai quanto ce ne può freg… calma, fatemi finire, dicevo che è un numero irrazionale come il Pi greco, il famoso 3.14… che tutti conoscono, e che questo 1.618…, altrimenti detto Phi (Φ), rappresenta un’entità chiamata sezione aurea la cui definizione esatta è la seguente: la sezione aurea è il rapporto fra due lunghezze disuguali, delle quali la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due.
E perché questo numero è così importante? Mi andrebbe di rispondervi: leggetevi il libro di Mario Livio, ma rischierei di apparire alquanto antipatico. In effetti detta così può sembrare ostica, ma il fatto è che questo rapporto, cioè questo numero Phi, lo ritroviamo in talmente tante situazioni naturali che c’è di che sbalordirsi: basta saperlo scoprire. Phi esiste nelle foglie degli alberi, nelle spire di una conchiglia, nella disposizione dei semi di una mela, negli avvolgimenti della coda di un ippocampo, nella collocazione dei petali di una rosa, nel meccanismo riproduttivo dei conigli, nell’ordinamento dei semi di un girasole. Per non parlare dei rapporti reciproci tra i numeri della Serie di Fibonacci e altre amenità matematiche.
E quando dalla natura questo rapporto è stato trasposto ad opera dell’uomo nelle creazioni artistiche, sia in campo pittorico (da Leonardo a Dalì a Mondrian) che scultoreo o architettonico  (guardate il Partenone) che musicale (da Stradivari a Bartok) fino alla letteratura, le opere che ne sono derivate sono risultate nettamente più potenti di altre. Per riportare un esempio semplice: in fotografia, una buona regola della composizione, cioè della costruzione dell’inquadratura, è quella dei terzi, che in soldoni sta a significare che non si deve porre un soggetto al centro dell’immagine ma è preferibile collocarlo in corrispondenza di un terzo dell’inquadratura, sia orizzontalmente che verticalmente, con lo scopo di ottenere una fotografia più gradevole. Bene, questa regola non è altro che un’applicazione pratica della sezione aurea, altrimenti detta la divina proporzione.
E perché?
Questo perché ve lo lascio spiegare da Mario Livio (stavolta sì) in questo interessantissimo excursus tra le varie branche del sapere e delle scienze, ripercorrendo la storia della matematica fin dagli albori e nello stesso tempo indicandoci dove guardare e come saper interpretare per trovare esempi dell’esistenza di questa proporzione. Ricordo bene che quando l’ho letto il saggio mi aveva incuriosito e mi era piaciuto molto, tant’è vero che con la scusa di scrivere questo post ne ho rilette parecchie pagine a casaccio.
La curiosità che ancora mi resta è quella di sapere come mai è tornato in classifica dopo diversi anni che è stato pubblicato. Mi piacerebbe proprio conoscerne la ragione.
Il Lettore

martedì 14 ottobre 2014

La vendetta

Se putacaso siete anche un minimo depressi, o se per un qualsiasi futile motivo non siete più che in pace con voi stessi e il vostro equilibrio psicologico non è più che ben saldo, allora vi consiglio di non leggere questi racconti.


L’autrice della Trilogia della città di K (vedi) mette in scena questa volta 25 racconti brevissimi, ognuno lungo al massimo tre pagine, narrazioni angoscianti che rappresentano istantanee surreali e taglienti, feroci nella loro nudità, talmente potenti (in negativo) da far vacillare la propria saldezza mentale.
Sono racconti in cui tutto è essenziale e tutto contribuisce a trasmettere un senso di devastazione, di solitudine, di alienazione, di perdita da parte di personaggi anonimi, vite alla deriva capaci di gesti estremi ed estreme rassegnazioni. Lo stile è scarno ed essenziale, perfetto per gli intendimenti che vuole trasmettere, e fa capire come Agota Kristof  possegga una superba capacità di sintesi e di attenersi al concetto senza inutili divagazioni. Il problema sta nel fatto che tutti i racconti ti sprofondano in un baratro senza fine dal fondo del quale non vedi più neppure un barlume di speranza, per non parlare di ottimismo e futuro roseo.
Ritengo che i racconti più pubblicizzati o dei quali si è discusso di più, come quello in cui la moglie uccide il marito solo perché russa, o l’altro in cui uno studente uccide i professori per salvarli (!) dalla crudeltà dei compagni, siano a mio parere i meno incisivi, rispetto ad altri  contenenti pura violenza psicologica e un angosciante senso di ineluttabilità e di futuro del tutto senza speranza.
Sempre parlando di stile, l’ho trovato più coerente rispetto alla Trilogia, più maturo, e perlomeno in questo volumetto quasi tutti i racconti sono comprensibili anche se spesso il surreale la fa da padrone.
Bene, io vi ho avvertito. Poi, se volete farvi del male, accomodatevi pure.
Il Lettore (sull’orlo della depressione, e in più oggi piove pure).
Kristof, Lettore 

domenica 12 ottobre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 12 ottobre

Lettori vicini e lontani buona domenica! Dal momento che ho scritto questo post qualche giorno fa, avvantaggiandomi sul ritmo delle pubblicazioni, non so ancora come sarà il tempo di questa domenica mattina, ma bello o brutto vi auguro una buona giornata in entrambi i casi. Magari, se dovesse piovere, potreste approfittarne per leggere qualche pagina.

Non angosciatevi prima del tempo, vedrete che il quiz di oggi sarà facilissimo.


1 – Oggi il libro da indovinare è una raccolta di racconti. Venticinque, per l’esattezza.
2 – L’autore è una scrittrice ungherese, e questa non è la sua opera più famosa.
3 – Una particolarità di questi racconti è che sono tutti brevissimi, tant’è vero che il volumetto non conta più di un’ottantina di pagine.
4 – Ma non lasciatevi ingannare dalla brevità, perché se la lunghezza è ridotta, in compenso i contenuti sono pesanti come macigni...
5 – Questa volta non esiste un quinto indizio: con quello che vi ho detto mi sembra già troppo facile.
A voi!
Freereader

venerdì 10 ottobre 2014

Il Premio Nobel 2014 per la Letteratura è…

Il Premio Nobel 2014 per la Letteratura è lo scrittore francese Patrick Modiano.
Patrick… chi? Domanderete. Ma come!? Non conoscete Patrick Modiano? Non è possibile! È quello che… quello che ha scritto… non è possibile non conoscerlo, ma sì, quello che…

Va be’, lo confesso, non avevo mai sentito nominare questo autore prima d’oggi. Faccio ammenda, non fustigatemi, ammetto la mia ignoranza, che non è alleviata nemmeno dal fatto che la maggior parte delle sue opere non sono state nemmeno tradotte in italiano..


Invece di sicuro molti tra voi lo avranno già conosciuto, letto e apprezzato…
Ma basta fare della facile ironia, se gli Svedesi lo hanno consacrato avranno avuto le loro buone ragioni. Del resto, al di fuori dei confini del nostro paese non credo che ci sia stata molta gente che quando è stato nominato conosceva già Dario Fo, e in quanti, prima dell’assegnazione del premio, avevano già letto Alice Munro? O Tomas Tranströmer? O Herta Müller? O Naipau? O Xingjian? (potrei continuare per un pezzo, ma mi limito agli ultimi quindici anni).
Non credo che i componenti la giuria dei Nobel siano degli sprovveduti, e penso anche che siano molto meno inclini alla corruzione e ai clientelismi che infestano i concorsi letterari di casa nostra. Non conoscevo nemmeno John Maxwell Coetzee, ma quando ho avuto occasione di leggerlo (vedi) ho dovuto ammettere che il premio se lo era meritato in pieno. Certo, altri non mi hanno fatto pensare la stessa cosa, come Elfriede Jelinek il cui La voglia non mi ha lasciato nulla, né quella pasticca per l’insonnia di Doris Lessing, ma ritengo comunque che, al di là di possibili considerazioni politiche internazionali momentanee, al momento dell’assegnazione del Nobel perlomeno non valgano gli interessi spiccioli delle singole case editrici.
In effetti, l’occasione annuale dell’annuncio del vincitore è un momento atteso da tutti quelli che si occupano di letteratura, e il sentir nominare un perfetto sconosciuto non dico che provochi del fastidio, ma è come mettere in bocca una patata fritta che non è stata ancora salata. Sarà che anche quest’anno speravo di sentir uscire il nome di Haruki Murakami, ma il giapponese ancora una volta non gliel’ha fatta.
Oltre a Murakami, tra i pretendenti al titolo di quest’anno, ma forse è meglio dire, all’inglese, tra le nominations, c’erano la bielorussa Svetlana Aleksjevic e anche nomi più noti come Philip Roth, Thomas Pynchon, Cormac McCharty, Bob Dylan, Don DeLillo, Milan Kundera, Margaret Atwood, e meno noti come il keniota Ngugi Wa Thiog’o, l’algerina Assia Djebar e il rumeno Mircea Cartarescu. Di italiani, i soliti Umberto Eco, Dacia Maraini e Claudio Magris.
Non conosco Patrick Modiano e non posso quindi giudicare, ma certo, se quest’anno il vincitore fosse stato Milan Kundera sarebbe stato peggio che ricevere una martellata dove fa più male.
Altro che patata fritta sciapa!
Il Lettore 

mercoledì 8 ottobre 2014

Chiedimi chi erano i Beatles

In quest’era di ignoranza dilagante, di televisione spazzatura, di cultura al più basso livello, di accettazione della facilità più trita purché consenta di non pensare, anche in campo musicale sono sparite intelligenza e creatività per lasciare spazio a un dilagare di note inutili e ossessionanti che hanno come unico scopo quello di annebbiare cervelli e far guadagnare quei cinici che hanno capito come bisogna sfruttare il mondo.


Ho riletto questo libro di Roberto Cotroneo per ricercarvi delle argomentazioni che avrei potuto utilizzare nella mia difficile crociata volta a cercare di far capire a mio figlio la bassezza culturale della moda rappistica nostrana. Non che gli argomenti mi manchino, ma qualche consiglio positivo in più da parte di un musicista-scrittore è sempre ben accetto, tanto più che con questo Chiedimi chi erano i Beatles, il cui sottotitolo esplicativo è Lettera a mio figlio sull’amore per la musica, Cotroneo si rivolge direttamente al suo e agli altri bambini cercando di far capire loro, più che la differenza tra la musica vera e quattro note messe in fila, quali sono gli aspetti positivi e coinvolgenti della musica che andrebbe ascoltata, cercando di privilegiare questa e di provare ad ascoltare il meno possibile quella che invece viene pubblicizzata e mandata in continuazione dalle emittenti.
Per questo modo di rivolgersi a bambini e adolescenti in effetti il libro risulta leggermente smielato, ma ci può stare, ed è denso di riferimenti personali, di consigli, di esempi, di aneddoti, di escursioni nella musica di grandi come Beethoven, Mozart, Ciajkowskij, Lennon, Dylan, Chopin; e Cotroneo utilizza le proprie esperienze in campo musicale per fornire delle indicazioni sulle strade da seguire, un po’ come aveva già fatto in Se una mattina d’estate un bambino, nel quale cercava di indirizzare il figlio verso le letture che a suo parere sarebbero state utili nel processo di formazione verso l’età adulta.
Mentre scrivo questo post sto ascoltando il quarto movimento della sesta sinfonia di Ciajkowskij, la celeberrima Patetica, che Cotroneo indica come uno dei pezzi che hanno significato di più nella sua vita: la musica è un linguaggio universale e chiunque al mondo, ascoltando questo brano, non può fare a meno di provare sentimenti come tristezza, malinconia, sensazione di perdita.
È solo ascoltando cose buone che si impara la differenza dalla robaccia, è solo leggendo cose buone che si impara la differenza dalla robaccia.
Meditate gente, meditate…
Il Lettore melomane

lunedì 6 ottobre 2014

Il telefono senza fili

Torna la simpatia dei vecchietti del Bar Lume nell’ultimo romanzo di Marco Malvaldi, uscito in libreria appena qualche giorno fa. Un romanzetto breve e piacevole anche se, anche questo, non scevro da difetti.


Ho nominato la simpatia dei vecchietti pestiferi del bar di Massimo: ecco, non è che in questo Il telefono senza fili ci sia molto di più. La trama è esile, costruita, più che su un delitto, sulla “parvenza” di un delitto, la cui risoluzione arriva non in seguito a indagini e ragionamenti logici, ma direttamente per illuminazione divina del proprietario del bar, che chiamarla intuito mi sembra di molto riduttivo.
A parte questa mancanza debolezza della trama, cosa del resto non aliena ad altri romanzi di Malvaldi, il romanzo si regge appunto sulle battute ciniche e sull’acidità del gruppo di ottuagenari che riescono spesso a strappare qualche sorrisetto, insieme alle potenzialità offerte da questo nuovo personaggio della “commissaria” che lascia presagire degli sviluppi in campo sentimentale nelle prossime avventure. Forse per allungare una storia troppo corta l’autore toscano, che anche in questo caso confessa il sostanziale apporto della moglie nella costruzione dell’inesistente dell’intreccio, inserisce anche delle talpe, termine caro a Vincenzo Cerami e con il quale lo scrittore marchiava quei personaggi che con la narrazione non hanno nulla a che vedere.
Ma Marco Malvaldi è al momento uno degli autori italiani che vendono di più, e come si fa a non cavalcare l’onda portante pubblicando a raffica? Certo, con un pochino più di costruzione (qualche trama solida non dispiacerebbe), un pochino più di serietà, un pochino più di applicazione, un pochino più di editing (ho individuato almeno due refusi), sono sicuro che riuscirebbe a rendere i suoi romanzi di molto migliori. La verve c’è, la bravura nello scrivere pure, la simpatia che non fa mai male anche, e non sono molti gli autori che possono permettersi di rivolgersi direttamente al lettore senza stuccare, come spesso fa lui: “Massimo (…) rimase inchiodato per un attimo, con le mani sui braccioli e i tricipiti in tensione, come Cleofa nella Cena in Emmaus del Caravaggio. Se non l’avete mai vista , mi dispiace per voi: forse sarebbe il caso che cominciaste a farvi una cultura, invece di perdere il tempo con i gialli (pag. 146).”
Ora, caro Marco, una così violenta intromissione autoriale, senza parlare dell’invito oltremodo saccente, ti si perdonano solo perché sei un toscanaccio simpatico, ma non dimenticare che i “gialli” fanno anch’essi parte della cultura, e che ci sono molti, ma molti lettori che la Cena in Emmaus del Caravaggio la conoscono più che bene.
Il Lettore

sabato 4 ottobre 2014

Il faraone delle sabbie

Di Valerio Massimo Manfredi ho già letto Chimaira – mi ha lasciato molti dubbi – e L’ultima legione – questo sì, ricordo che non è male – e apprezzo il suo modo di scrivere nonostante a tratti faccia nascere delle perplessità. Cosa che succede anche in questo Il faraone delle sabbie, che penso proprio dovrò inserire tra gli esempi nei miei prossimi corsi di scrittura.

Come esempio dicevo, per far notare come un romanzo possa risultare buono e appassionante pur presentando una miriade di difetti.


L’ho iniziato e non sono riuscito a scollarmi dalla lettura fino a quando non l’ho terminato, pur riscontrandoci dentro una notevole quantità di pecche stilistiche e narrative la cui presenza però non è riuscita ad infrangere del tutto il patto di sospensione dell’incredulità (il ché avrebbe comportato inderogabilmente l’abbandono del testo).
La trama: ad un archeologo subissato di problemi viene proposto di scavare, non del tutto legalmente, un sito nel quale troverà reperti che potrebbero scardinare le concezioni di base delle più importanti religioni del mondo occidentale. Il tutto sullo sfondo di tensioni politiche internazionali giunte ad un punto critico, che rischiano di sfociare in una guerra totale.
I pregi: il romanzo si legge benissimo, il ritmo è veloce, i fatti trovano più spazio delle riflessioni e Valerio Massimo Manfredi è bravo nel suscitare dapprima l’interesse, ricorrendo all’espediente della ricerca di reperti archeologici di interesse fondamentale e universale, e quindi nel mantenere lo stato di tensione necessario fino alla risoluzione creando ai protagonisti problemi su problemi, difficoltà insormontabili che vengono risolte a fatica all’ultimo momento, mirabolanti avventure ulteriormente complicate da attacchi terroristici, tradimenti, omicidi e perfino guerre. E non manca nemmeno la storia d’amore. Davvero la curiosità di vedere cosa succederà dopo ti spinge ad andare avanti pagina dopo pagina a ritmo forsennato, e questo ad onta dei…
Difetti: in un’analisi a posteriori, le motivazioni su cui si muovono molti dei protagonisti sono di una labilità sconcertante, e di giustificazioni concrete nemmeno a parlarne; certe azioni sono del tutto esagerate e con una plausibilità prossima al sottozero; la tempistica della vicenda sta in piedi come un bradipo ubriaco; le spiegazioni tecniche di alcuni aspetti particolari accontenterebbero solo i bambini dell’asilo; le implicazioni politiche internazionali sono trattate in modo dilettantesco e le risoluzioni adottate dai singoli stati inverosimili; di alcune azioni citate nel corso del racconto non viene fornita un’adeguata spiegazione (come quando un’intera squadra di ricercatori americani viene assassinata brutalmente e nessuno, tantomeno gli USA, si chiede che fine abbia fatto), e una volta giunti alla fine ci si accorge come l’autore sia ricorso a dei trucchi stilistici di dubbio gusto per incrementare la tensione narrativa (nella realtà, il “portiere di notte” non avrebbe mai sostenuto le sue conversazioni come invece ha fatto – e mi dispiace di non potermi spiegare meglio, ma dovrei riportarvi troppe pagine, incluso il finale).
Fatto sta che nonostante tutto ciò il romanzo si legge in una volata, è interessante per le implicazioni archeologiche e religiose, resta ancora attuale anche se è stato pubblicato nel 1998, i difetti riscontrati non appaiono (perlomeno non lì per lì) di tale entità da costringerti a gettarlo nella spazzatura, e Valerio Massimo Manfredi si lascia ancora una volta apprezzare per le ricostruzioni storico-archeologiche dal fascino indiscutibile.
Il Lettore
Manfredi, Lettore 

giovedì 2 ottobre 2014

Mai gridare al lupo

Come dicevo pochi giorni fa, a me i lupi sono sempre piaciuti molto fin da quando ero piccolo. Nel corso degli anni mi sono documentato su di loro anche su testi strettamente universitari e la mia biblioteca contiene diversi romanzi e saggi su questi canidi. Passione protratta fino al punto di condividere totalmente la mia vita con uno di essi per dieci anni in un'esperienza indimenticabile. Ma di questo non parlerò, dal momento che esula dagli scopi di questo blog.


Adesso, in seguito alla rinnovata recrudescenza di attacchi contro questa razza che da qualche tempo viene perseguita da politicanti ottusi e cacciatori deficienti, ho voluto ripescare questo esilarante romanzo del 1963 nel quale Farley Mowat racconta la sua esperienza personale di contatto con un branco di lupi artici, e dal quale nel 1983 è stato tratto un film con la regia di Carroll Ballard.
Mai gridare al lupo è la storia reale di un giovane biologo incaricato dal governo canadese di investigare le cause dell’allarmante morìa di caribù nelle terre dell’estremo Nord, ipotizzate principalmente nelle stragi ad opera dei lupi. Farley Mowat viene quindi condotto in aereo in mezzo ai ghiacci canadesi e lasciato lì nella tundra, del tutto da solo per alcuni mesi, nel corso dei quali non solo entrerà in contatto con i temibili, orrorifici, feroci, terrificanti, voraci, famelici, spaventosi e raccapriccianti animali, ma imposterà con loro un rapporto situato ben oltre il connubio ricercatore-animale, fino a giungere quasi ad immedesimarsi in loro e a capirne il modo di vivere come non era mai stato fatto in precedenza da nessun’altro ricercatore.
Lo scienziato scoprirà così come il ruolo del lupo sia assolutamente essenziale per la regolazione dei rapporti interspecie nell’ambito di ogni ecosistema allo stato selvaggio, e come quegli animali reputati sanguinari assassini siano in realtà estremamente intelligenti, affettuosi, giocherelloni, genitori amorevoli e dotati di uno spiccato senso sociale.
Le stragi di caribù? I responsabili erano ovviamente i cacciatori, che si divertivano a inseguirne le mandrie falcidiandole con i fucili per puro divertimento stando comodamente seduti a bordo di piccoli aerei da turismo. E i deficienti lo chiamano sport.
Mowat ha rilevato come i branchi di lupi si cibassero solo dello stretto necessario, principalmente topi, e come per loro quei pochi caribù deboli e malati che fossero riusciti a cacciare rappresentassero solo ciò che noi potremmo considerare il lusso del pranzo domenicale. In seguito molti altri studi hanno confermato i riscontri dello studioso, non ultima un’indagine imperniata sulla ricerca delle cause della deforestazione nel parco di Yellowstone: quando fu creato il parco si dette avvio ad una campagna di eliminazione dei lupi residenti, per il timore che uccidessero troppi alci e che infastidissero i visitatori. Dopo pochi anni, si scoprì con stupore che nel parco non crescevano più né erba né nuovi alberi. Cos’era successo? Eliminando i lupi, le popolazioni di alci erano cresciute talmente tanto da cibarsi di qualsiasi cosa verde spuntasse dal terreno, portando rapidamente al collasso l’intero ecosistema (fonte: ora non ricordo quale degli interessantissimi libri di Bill Brysonvedi).
Al di là dei significati scientifici e sociali, comunque, Mai gridare al lupo è un resoconto divertente dei mesi passati dall’autore nella tundra ghiacciata, denso di paragrafi spassosissimi: dal primo incontro con gli animali, in seguito al quale sia il lupo che lo scrittore hanno rischiato di morire dalla paura, alle prove di assaggio della carne di topo per accertare se la carica proteica e calorica potesse essere sufficiente a sostentare un grosso mammifero, e così via, in una scorribanda di avventure umano-lupesche simpaticissime e istruttive.
Ora vogliono di nuovo cacciare dall’Italia, oltre agli orsi, quei pochi lupi che stanno cercando faticosamente di sopravvivere in un ambiente sempre più antropizzato.
Pura barbarie, ignoranza assoluta, fomentata da politicanti del tutto idioti a loro volta imbottiti di cazzate da cosche di cacciatori anacronistici e giornalistucoli accondiscendenti servi del sistema. A tutti loro vorrei consigliare, nella lontana speranza che sappiano leggere, di studiarsi i saggi del professor Luigi Boitani, il maggior esperto italiano di lupi, o di David Mech, il più famoso ricercatore sul tema a livello mondiale, in modo che possano capire qual è la situazione reale e comportarsi di conseguenza accendendo quel briciolo di cervello che è loro rimasto. Utopia? Sì, forse è troppo arduo sperare che i politici capiscano qualcosa, o che operino in modo utile alla società. Al posto dei lupi, ci sarebbero ben altre bestie da cacciare. Su due zampe.
Non solo sono belli, i lupi sono utili e rappresentano un indicatore dello stato di salute di un territorio così come gli orsi. E quando si legge nei giornali “pecore massacrate dai lupi”, bisogna sapere che solo nell’uno per cento dei casi la notizia è vera, e che nella restante parte le cause della strage sono da ricercarsi in altre direzioni.
Avete presente quando un lupo afferra un cucciolo per la collottola con le sue temibili zanne e lo conduce al sicuro? Ecco, è da questo che deriva la locuzione “in bocca al lupo”.
In bocca al lupo? Bisogna rispondere: magari, grazie!
Il Lettore