giovedì 30 luglio 2015

Sangue e neve

Evidentemente, l’amica che mi aveva consigliato di leggere Jo Nesbø c’è rimasta molto male quando ha visto la recensione che ho scritto un paio di mesi fa su L’uomo di neve (vedi qui), perché l’altro giorno, quando ci siamo incontrati per un caffè, ha tirato fuori dalla borsa questo Sangue e neve e me lo ha consegnato in maniera formale dicendo “Voglio sentire cosa ne pensi di questo…”.
Va bene, a parte tutta questa neve nei titoli accetto comunque la sfida, del resto quel romanzo che non mi era piaciuto l’avevo scelto a caso tra le opere di Nesbø ed è possibile che io non abbia avuto fortuna.
Vediamo stavolta…




Sangue e neve, uscito nel 2015, è uno degli ultimi thriller di Nesbø e non fa parte della serie con protagonista Harry Hole. Il protagonista narrante è un killer che vuol sembrare imbranato ma non lo è poi così tanto e alla fine risulta anche simpatico: nonostante sia una persona senza scrupoli (anche se dotata di una certa moralità), il lettore è portato a parteggiare per lui quando circostanze che non posso raccontarvi, altrimenti vi toglierei il gusto di leggerlo, lo portano a dover combattere contro i capi di due delle organizzazioni criminali più potenti di Oslo, uno dei quali è il suo stesso datore di lavoro.
A differenza del precedente, questo mi è piaciuto: un romanzo agile e di lettura velocissima perché costituito quasi interamente di azione nel più classico stile pulp. Ci sono sparatorie, morti ammazzati, sesso violento e sesso romantico, sangue, intrighi, tradimenti a catena e anche un po’ di sentimentalismo, e in questo caso l’autore non sfocia nell’esagerazione esasperata che criticavo nell’altro romanzo ma si attiene a invenzioni quasi del tutto plausibili.
Lo stile è scarno ed essenziale, con descrizioni limitate allo stretto indispensabile e intervalli tra un’azione e l’altra riempiti con le riflessioni del protagonista più che altro incentrate su se stesso, sui suoi amori e sulle vicende che lo hanno condotto ad essere quello che è diventato.
Avrei da esternare qualche considerazione sulla fine del romanzo, non necessariamente negativa, intendete, ma non la posso fare perché dovrei rivelarvi i vari colpi di scena che si susseguono nelle ultime pagine e, come dicevo prima, se lo facessi ― l’assassino è il maggiordomo! ― vi darei tutti i motivi per sputarmi in faccia.
Ok, d’accordo, questo mi è risultato più gradito del precedente e ha fatto riacquistare qualche punto all’autore norvegese, contenta?
Il Lettore

domenica 26 luglio 2015

Andromeda

Scartabellando nella libreria di un’amica mi sono imbattuto in questo fantastico romanzo di Michael Crichton che avevo già letto, e non una volta sola, parecchi anni fa. Chissà per quale motivo, forse pensavo di averlo prestato, ero convinto di non averlo più a casa e in quel momento mi è presa la voglia impellente di riguardarlo, così l’ho portato via e una volta rientrato in sede sono andato a controllare: la mia copia era lì al suo posto tra gli altri Crichton, evidentemente mi sono confuso con qualche altro volume. Eh, la vecchiaia…
Ma già che c’ero, perché non rileggerlo ancora una volta?


Quando rileggi un libro che hai già letto non meno di quattro o cinque volte non puoi fare a meno di scimmiottare il cinefilo che pronuncia ad alta voce le battute dei film che ama prima che siano dette dagli attori: è un doppio piacere, ti gusti i passaggi ancora prima di leggerli perché quasi ogni frase ti fa ricordare quella che seguirà.
In questo AndromedaThe Andromeda Strain, pubblicato nel 1969 ― abbiamo un Michael Crichton in forma strepitosa, all’apice della creatività e della capacità di comporre storie emozionanti basate su rigorose teorie scientifiche. Nel momento in cui stavano nascendo i moderni computer, in cui l’uomo stava per mettere piede sulla Luna e la paura dell’olocausto nucleare non aveva ancora abbandonato la mente delle persone, Crichton ipotizza il contatto con una forma di vita aliena del tutto letale per l’uomo e la trasforma in una storia colma di tensione e colpi di scena.
Questa è la storia dei cinque giorni in cui si svolse una delle più gravi crisi scientifiche americane”, dice l’autore stesso nella prefazione. Una crisi potenzialmente catastrofica che coinvolge molte branche della scienza e rischia di sfociare nell’uso di ordigni nucleari, e che l’autore orchestra in maniera magistrale dosando interrogativi e rivelazioni in modo da mantenere il lettore in uno stato di tensione continua, rispettando sempre, come in ogni buon romanzo di fantascienza, una plausibilità inscalfibile e trovando soluzioni finali perfettamente soddisfacenti.
La trama: al rientro sulla terra, un satellite artificiale precipita nei pressi del paesino di Piedmont, in Arizona: nel giro di poco tempo tutti gli abitanti del paese sono morti, così come moriranno gli sfortunati inviati a controllare la situazione. Viene allora attivato il Progetto Wildfire, un protocollo segretissimo ideato in previsione di situazioni simili, i cui scienziati si troveranno a investigare freneticamente sulle cause della strage fino a identificare il responsabile in un microrganismo contenuto in una meteora che ha colpito il satellite in orbita.
Detta così pare quasi banale, forse anche perché vi sembrerà di conoscere già la storia: da questo romanzo hanno tratto un film (realizzato benissimo) e una serie televisiva, e sulla sua scia sono usciti una miriade di emuli per lo più di qualità nettamente inferiore.
Un espediente che Crichton ha utilizzato per conferire realismo alla narrazione è stato quello di costellare il romanzo di grafici, diagrammi, stampate di computer, risultati di analisi di aminoacidi, rielaborazioni di foto al microscopio elettronico e facsimili di documenti top secret, quasi come se ci trovassimo di fronte a una vera e propria pubblicazione scientifica (mi ricorda la tiotimolina…). Ora, capisco anche come questo possa non essere gradito a molti lettori ma, forse a causa della mia formazione scientifica, a me questo sistema piace molto e me lo sono goduto.
Con Andromeda siamo su un livello nettamente superiore rispetto ai mediocri romanzi che l’autore ha scritto negli ultimi anni di vita (vedi), nei quali purtroppo ha voluto tendere all’esagerazione a scapito della credibilità, e se dovessi stilare un elenco di quelli che sono a mio parere i migliori romanzi di fantascienza realistica di sempre, questo entrerebbe sicuramente nei primi dieci, forse anche nei primi cinque.
Il Lettore


giovedì 23 luglio 2015

1Q84

Che dire? Di questo 1Q84 si è parlato molto, ci hanno scritto dei saggi sopra e ne è stato tratto perfino un film, e io non vorrei ripetere cose già dette da qualcun altro ma gira che ti rigira mi toccherà. Personalmente? Mi ha lasciato molto perplesso: se da una parte c’è una prosa superba, cristallina, che fa veramente piacere leggere ― e questo è merito anche del traduttore Giorgio Amitrano ― e vi si trovano personaggi, situazioni ed episodi interessanti, dall’altra c’è una prolissità fuori dal consueto che a volte annoia e ti fa domandare il perché mai Haruki Murakami (detto all’italiana, col nome prima del cognome) abbia voluto allungarlo così (ma la cosa sicura è che lo ha fatto intenzionalmente): narrazioni lentissime, ripetizioni continue, oltre alla dimensione onirica, fantasiosa, surreale, che non riesco ad apprezzare perché è fuori dai miei schemi mentali.




Di certo, oltre all’omaggio a George Orwell ― il titolo 1Q84 è mutuato da 1984, con una “Q” che in giapponese ha la stessa pronuncia del numero “9” e che sta anche per question mark, punto di domanda ― Murakami ha inteso omaggiare anche Marcel Proust e la sua Recherche che nel romanzo ha un ruolo fondamentale, e lo ha fatto anche ricalcando  lo stile tutt’altro che conciso di Proust. A chi voglia scorrerlo cercando di capire che cosa l’autore ha voluto comunicare tra le righe, auguro buona fortuna. Viene la sensazione leggendolo che Murakami abbia voluto nascondere un riferimento e un concetto dietro ogni riga, lasciando che si intuisca molto di più di ciò che esplicita.
Oltre ai concetti trattati di più facile comprensione infatti, come l’amore, la morte, la famiglia, la religione, Murakami sfiora argomenti importanti come il tema del doppio caro a Stevenson,  l’incertezza del vivere nella società odierna, l’oppressione che le usanze giapponesi esercitano sul singolo, l’onnipresenza del potere delle multinazionali, le violenze sulle donne e la scrittura stessa, e collocare tutto questo in uno schema ordinato risulta molto difficile.
La scrittura… nel romanzo ha un ruolo fondamentale perché i protagonisti stessi incarnano stereotipi di scrittori diversi: Aomame Masami (sempre detto all’italiana) è una bella trentenne insegnante di fitness, ma è anche un killer che uccide uomini colpevoli di violenze su donne e bambine; Tengo Kawana è un insegnante di matematica, genio precoce, ma anche un ghost writer che riscrive un libro inquietante e pericoloso ideato da Eriko Fukada (Fukaeri), scatenando una  sequela di avvenimenti che trasporteranno Aomame e Tengo in una dimensione parallela nella quale verranno braccati per ordine di una setta religiosa.
Il tema della scrittura è sublimato nei due personaggi Fukaeri e Tengo, dei quali la prima rappresenta la creatività senza concretezza, l’altro l’esperienza e la bravura senza creatività.
Sparsi nelle 1100 pagine del romanzo altri personaggi degni di considerazione e caratterizzati in modo splendido: Tamaru Ken’ichi, qualcosa di più di una semplice guardia del corpo e anche un inno alla professionalità; Ogata Shizue, l’anziana ricca signora che vuole proteggere e vendicare le donne vittime di violenze; Ushikawa Toshiharu, il caratteristico investigatore che si lancia come un mastino sulle tracce dei due giovani. Personaggi che restano impressi nella memoria per come Murakami li ha saputi definire, e di sicuro non ha certo centellinato le parole.
Tutto sommato non posso dire che non mi sia piaciuto, anche solo per il fatto che ogni tanto mi tornano in mente, oltre ai protagonisti e al di là della trama, alcuni di questi personaggi.
Una cosa curiosa: tra i brani musicali che costellano 1Q84 come tutti gli altri libri di Murakami, in questo caso assume particolare rilevanza la Sinfonietta di Leoš Janáček, il cui disco è stato oggetto di un’impennata nelle vendite dopo la pubblicazione di questo romanzo.
Sì, lo confesso, dopo aver letto il libro, preso dalla curiosità sono andato a ricercarne una versione su youtube per cercare di capire come mai abbia rivestito tanta importanza per Murakami da farne la colonna sonora portante del romanzo.
Purtroppo non l’ho mica capito: il brano non mi è nemmeno piaciuto.
Il Lettore

domenica 19 luglio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 19 luglio

Sono le 8 di mattina e già fa caldo. Ho attivato le procedure strategiche che adotto in questi casi ― ventilatore oscillante al minimo, finestre chiuse, brocca con limonata ghiacciata e acqua gassata, sigaretta (questa sempre), il disco uno di The Wall a un volume discreto ― e, Teacher! sto perdendo tempo sperando che mi assalga la voglia di lavorare.
Con questi accorgimenti si sta quasi bene nonostante l’afa esterna, le note pulite che escono dalla chitarra di Gilmour sono estremamente piacevoli e al di fuori di queste ultime il silenzio la fa da padrone. Moglie e figlio se ne sono andati al mare e mi aspettano un paio di settimane, se non fosse per il lavoro, di sbracamento totale. Ma il lavoro c’è, per fortuna, e pressante, e come vi dicevo qualche giorno fa mi impegna talmente tanto che non riesco nemmeno a leggere come vorrei. Nei rari momenti che attualmente riesco a dedicare a questa ragione di vita ho ripreso in mano un libro che avevo iniziato un po’ di tempo fa e del quale avevo sospeso la lettura perché…




1 – … è un romanzo in due volumi, e quindi discretamente lungo, e dopo aver terminato il primo mi ero voluto concedere una pausa di riflessione prima di iniziare il secondo.
2 – La trama è astrusa: personaggi quasi normali si muovono in un mondo che tanto normale non è anche se esteriormente lo sembra, ad eccezione dell’aspetto di cui al punto 5. Si potrebbe anche considerare un fantasy, ma non lo è.
3 – Non vi dico chi è l’autore, altrimenti sarebbe veramente troppo facile, né qual è la sua nazionalità. Vi basti sapere che è un uomo, non italiano, ed è considerato uno dei più grandi scrittori contemporanei. In altri post avevo definito la sua prosa “cristallina”, e in questo romanzo ha confermato quel giudizio. Altro che i nostri recenti Premi Strega!
4 – Il titolo di questo romanzo è… strano: consiste in una sola parola (numero?) e per di più inesistente.
5 – Sarà il caldo, ma oggi mi sento buono e ho deciso di darvi un quinto indizio fondamentale che dopo quanto vi ho già detto renderà facilissimo questo quiz domenicale: la contestualizzazione del romanzo è caratterizzata dal fatto che in cielo vi sono due lune.
Già avete indovinato, vero? Ve l’ho detto, sarà il caldo. Il problema è che ora per scriverci sopra dovrò trovare il tempo per sistemare un altro mattone sul muro.
Freereader

lunedì 13 luglio 2015

Il resto della settimana

Nella mia graduatoria personale delle cose che non riesco proprio ad apprezzare ce ne sono due che non sono mai uscite dalla top five: la napoletanità e il calcio.
Ognuno ha le sue idiosincrasie: per me tutto ciò che riguarda la stupidità, Napoli o il gioco del pallone è da evitare accuratamente. Di conseguenza capirete come io sia restato un pochino perplesso quando il mio editor, dopo aver scaricato e letto questo libro, mi ha detto. “Leggilo, vedrai che ti piacerà… anche se parla del Calcio visto dai Napoletani.”
Ciò sarebbe del tutto al di fuori della mia capacità di sopportazione, le ho risposto, ma conoscendo bene l’autore e benché sia lui stesso napoletano, un certo tarlo mi si era insinuato nella mente e mi sono detto va be’, perlomeno so che scrive bene, proviamo, tutt’al più lo lascio, e mi sono apprestato speranzoso alla lettura sia pure con una certa dose di scetticismo.
E la verità è che quando uno è proprio bravo (pure se è di Napoli), riesce a rendere interessanti anche gli argomenti dei quali non puoi neanche sentir parlare.




Con questo non è che poi alla fine sia riuscito a farmi cambiare idea sulle mie convinzioni, chiariamo subito, ma se c’era uno che poteva convincermi a leggere un libro sul calcio, questo poteva essere solo Maurizio De Giovanni. Oddìo, a dire la verità c’era riuscito anche Giorgio Faletti con il suo Tre atti e due tempi nel quale aveva infuso un tocco di giallo, mentre con questo Il resto della settimana De Giovanni ha inteso approfondire la conoscenza con il tifoso di calcio napoletano generico. Per dirla con le sue parole: “La domanda era: che cosa faceva quell’individuo inquadrato dalle telecamere dopo un gol, la bocca contorta in un urlo spaventosamente liberatorio, le mani adunche a mo’ di artiglio, il filo di bava sul mento, i capelli diritti in testa e gli occhi iniettati di sangue, nel resto della settimana? Chi era? Di cosa discuteva? Quanto di quella passione tratteneva in petto, e quali ricordi, ossessioni, rimpianti, gioie e rimorsi generava? Come funzionavano gli incontri tra siffatti soggetti? Che contenuto avevano le frasi smozzicate, i veloci scambi di opinioni e gli assensi e i dissensi che da lontano vedeva passare dall’uno all’altro?
In una specie di ultras watching il protagonista scelto dall’autore (napoletano e fervente tifoso… per quanto ammiri come scrive non credo che potremmo mai andare molto d’accordo) decide di scrivere un libro nel quale analizzare il comportamento di questa tipologia di animali nei periodi che intercorrono tra le puntate a scansione settimanale della loro ragione di vita, e per farlo sceglie di osservarne il comportamento all’interno di un tipico bar partenopeo, stando seduto a un tavolino a lui riservato dal quale registra e annota i vari racconti dei clienti neanche fosse uno del National Geographic.
Il risultato è un libro gradevolissimo nel quale emergono personaggi molto ben caratterizzati che illustrano, oltre alla loro passione (che vista da un’ottica staccata potrebbe essere la passione integralista per qualsiasi cosa, dal collezionismo di francobolli alla costruzione di modelli di navi da guerra, e che in ogni caso non fa parte del mio Dna), momenti di umanità comuni a tutti. Nei racconti degli avventori De Giovanni ha saputo infondere tratti commoventi e perfino emozionanti, e il tutto detto da uno che non è mai stato minimamente sfiorato nemmeno da un briciolo di interesse per la materia, ma che sa riconoscere e apprezzare le cose fatte bene, in qualsiasi ambito. Così come riconosco che De Giovanni è un ottimo scrittore, così so valutare il perché quel determinato gol descritto così minuziosamente è in assoluto il più bello di tutta storia del calcio, tanto è vero che dopo averne letto la descrizione nel libro me lo sono andato a riguardare su youtube per curiosità. Incredibile, vero? E la cosa simpatica è che nel libro De Giovanni non nomina mai colui che quel gol lo ha segnato, proprio perché nella storia del Napoli quella persona ha rappresentato un’entità leggendaria situata più che altro nella cerchia degli Dei.
In effetti riconosco che quella persona nel suo campo è stato un vero artista, e anche nella mia considerazione di profano si pone al livello di un Michael Jordan, di uno Steve Jobs, di un Edward Hopper o di un Miles Davis.
O di un bravissimo falegname.
Il Lettore

martedì 7 luglio 2015

Il numero di Dio

Opperlamordidio… piantato alla sesta pagina, prolisso, noioso, scritto male e pieno di refusi tanto da far sospettare una pubblicazione fai-da-te senza alcuna revisione editoriale. Ve lo dico anche se non credo che vi capiterà di notarlo in libreria, ma intanto vi ho avvertiti.
Questo Il numero di Dio mi è capitato sul telefono quasi per caso, non era quello che volevo, ma visto che oramai c’era ho voluto provare a leggerlo lo stesso: la prova non è stata superata, andrà meglio la prossima volta.




La scusa che dovrebbe creare tensione fin dall’incipit, cioè il fatto che l’io narrante sta per morire e racconta ciò che l’ha condotto fino a quel punto di non ritorno ― cosa che dovrebbe ingenerare curiosità nel lettore ― è trattata in modo talmente logorroico che ti fa solo augurare che questo schiatti presto e la faccia finita. Va be’, basta.
 In realtà ero stato io a chiedere al mio editor ed esperto informatico di cercare in rete un posto da cui scaricare il romanzo Il numero di Dio scritto da Vincenzo di Pietro, perché ne avevo sentito parlare da qualche parte e mi aveva incuriosito: il ritrovamento di antichi manoscritti, religiosi assassinati in circostanze misteriose, numeri mistici e relazioni arcane con le recenti scoperte sul Bosone di Higgs, la particella di Dio. Sì, lo so, uno dei tanti sull’onda esoterica dei romanzi di Glenn Cooper, e pur avendomi intrigato era per questo che avevo chiesto al mio esperto di cercare un download free, altrimenti sarei andato in libreria.
Fatto sta che un romanzo dal titolo Il numero di Dio il mio esperto lo ha trovato, e poco importa se l’autore non è lo stesso, in ogni caso ciò è una conferma dei poteri soprannaturali degli informatici.
Di questo titolo omonimo che è stato scaricato al posto di quello che cercavo gli autori sono due: Giuseppe Guidotti e Michela Murialdo. Mai sentiti nominare, e dall’impressione che ne ho ricevuto dopo il tentativo di lettura non credo che li risentirò nominare in futuro. Capitolo chiuso.
Ma intanto stamattina, dopo aver cassato questo romanzo e visto che era ancora presto perché arrivasse il compagno di colazioni e passeggiate, ne ho iniziato un altro che faceva parte della stessa infornata di download caricata da poco nel telefono. A quest’altro mi ci sono avvicinato con un grosso carico di sospetto e scetticismo perché gli argomenti di cui tratta non sono, per usare un vago eufemismo, tra i miei preferiti, ma devo dire che…
No, non dico nulla, prima voglio vedere se stavolta riesco a terminarlo, e comunque vada saprete tutto nella prossima puntata.
Il Lettore

mercoledì 1 luglio 2015

L’ala del turbine intelligente

Dico subito che questo non è un libro per tutti, quindi se la musica vi interessa poco o cercate consigli su qualcosa di facile e distensivo, cambiate pure canale.
E anche per me, soprattutto in questo periodo di super impegni, il leggerlo, o meglio, il provare a leggerlo non è stato il massimo: non è per niente facile entrare nella mente di un genio e riuscire a capire il modo in cui la pensa, oltre al fatto che le sue conoscenze sull’argomento in cui era esperto erano e sono infinitamente superiori alle mie.




Glenn Gould è stato riconosciuto come uno dei più grandi pianisti mai esistiti. Un genio rivelatosi fin da giovanissimo, e che arrivato ad essere giovane ha piantato improvvisamente baracca e burattini interrompendo quella che era una carriera concertistica strabiliante e si è ritirato in se stesso dedicandosi alla ricerca della perfezione nell’interpretazione per le produzioni discografiche. In questo L’ala del turbine intelligente sono raccolti gli articoli che ha pubblicato nel corso degli anni, nei quali ha infuso la sua visione particolare, a volte stravagante e a volte ironica, di tutta la musica che si è succeduta nel corso dei secoli.
Già lo splendido titolo, che è la citazione di un verso della poesia Il vino degli amanti scritta da Charles Baudelaire (… cullati così dolcemente / sull’ala del turbine intelligente / in un delirio parallelo, …), lascia presagire come l’autore degli scritti intraveda orizzonti che sono celati ai più, ai quali potrà accedere solo una mente situata al di fuori degli schemi normali.
A volte la lettura è piacevole, condita da un’ironia che trae spunto anche da campi al di fuori dell’universo musicale come ad esempio quando cita i Peanuts, ma spesso il riuscire a comprendere ciò che sta illustrando è davvero ostico, come quando ti trovi davanti uno spartito di Schoenberg in cui: “…in questo passaggio tematico di una serie di dieci note in cui l’ultima è l’equivalente enarmonico della prima…”, lì devi: primo, saper leggere uno spartito (e fin qui ci saremmo…); secondo, conoscere il significato dei termini tecnici; terzo, saper interpretare il concetto; quarto, riconoscere che tu non avresti mai saputo pensare qualcosa di lontanamente simile.
Tutto questo per dire che alcuni articoli me li sono gustati, mentre altri mi sono risultati talmente incomprensibili (Das Marienleben – l’opera chiave della parabola creativa di Hindemith, tanto per fare un esempio…) che ho dovuto rinunciarci dopo essermi accorto di non riuscire a capire nemmeno una frase di senso compiuto.
Tenuto conto che quando vado a letto la sera crollo immediatamente, forse sarà meglio che nei prossimi giorni mi dedichi alla lettura di qualcosa di molto più leggero, che ne so, Paperino… Tex Willer…
Il Lettore musicofilo (quando ci arriva…)