Oltre al fatto che riesco a
leggere molto di meno, sono incappato in una sequela di libri che si rivelano pallosissimi, come l’ultimo postato e come
questo, che porto avanti con fatica quando addirittura non sono costretto a
piantarli a metà, come questo (e due), e che pur possedendo una certa dose di fascino non posseggono tutti gli altri
requisiti necessari a dare soddisfazione.
In più mettiamoci che l’atto
stesso di scrivere questo post sta
diventando una tortura perché ho
tutte le dita, compreso carpo e metacarpo, indolenzite per aver usato troppo
motoseghe e roncola questa mattina e l’essere passato alla tastiera non
consueta del computer nuovo non aiuta
di certo.
Va be’, problemi di noi
boscaioli (quelli non abbastanza allenati).
Io
sono un gatto mi ha
attratto subito per il solo fatto di avere questo titolo. Natsume Soseki (pseudonimo di Kinnosuke
Natsume, ma in ogni caso non si conosce lo stesso), lo ha scritto nel lontano
1905 mentre il Giappone era in guerra contro la Russia, ed è il primo romanzo
di questo autore.
Questo libro mi ha attirato
per il solo fatto di parlare di gatti, che sono animali che amo molto. Ma in
genere la maggior parte degli autori che trattano di gatti non sono capaci a
tener viva l’attenzione: o si fanno ben presto noiosi o cadono nello scontato e
nella melensaggine. Conosco un solo autore “gattaro” interessante, ed è il blogger de I gatti di Monte Malbe (http://igattidimontemalbe.blogspot.com/).
Natsume
Soseki arriva al punto di
immedesimarsi con questo gattino appena nato che del tutto inaspettatamente arriva
in casa di un professore di liceo (dal carattere interessante come quello di un’ostrica) e viene ignorato ma nutrito, e
nel suo poter andare dappertutto assiste e commenta la vita della casa e di chi
la frequenta passando per lo più inosservato nella totale trascuratezza degli
umani nei suoi confronti. È lo stesso gatto
che narra in prima persona: non ha un nome perché nessuno si è preso la briga
di metterglielo, e di ogni cosa fa un argomento sul quale intervenire e dire la
sua.
Personaggi simpatici o
insopportabili, consuetudini strane o del tutto normali. Il gatto vede e
commenta. Come però farebbe un “umano” alquanto erudito. Arrivando a parlare di
filosofia e rifacendosi a molte massime “zen”.
In pratica Soseki lo ha reso troppo umano, lo ha antropomorfizzato troppo arrivando a rendere la cosa alquanto
inverosimile, facendolo comportare come una persona con una cultura
universitaria e non più come un semplice gatto.
Inoltre la maggior parte delle
cose nominate ha il nome giapponese:
vestiti, cibi, consuetudini sociali, modi di fare, il che rende molte pagine
veramente incomprensibili (fino a sapere cosa sono un futon o un tatami ci
arrivo, ma il mochi e il kenban mi sono proprio ignoti. È vero
che ci sono delle note con le spiegazioni a fondo libro, ma è troppo scomodo
dover andare alla fine ad ogni richiamo che si incontra. Continuiamo a rimanere
nell’ignoranza, ma non è piacevole). Tutto questo rende il testo, sia pure da
un certo punto di vista anche affascinante, oltremodo non interessante e noioso,
e arrivato circa a metà sono stato costretto ad abbandonarlo per l’incapacità a
proseguire per più di una pagina al giorno.
Comunque ve ne riporto l’incipit: “Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho. Dove sono nato? Non ne ho
la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in
un posto umido e oscuro. È là che per la prima volta ho visto un essere
umano. Si trattava di uno di quegli studenti che vivono a pensione presso
un professore - mi hanno poi detto - e che fra tutti gli uomini sono la
specie più perversa. Si racconta che costoro ogni tanto acchiappino uno di noi,
lo mettano in pentola e se lo mangino. Però in quel momento, non
sapendolo, non ebbi paura. Provai soltanto un senso di vertigine quando lo
studente mi mise sul palmo della mano e di colpo mi sollevò per aria.
Appena ritrovai una certa stabilità lo guardai in faccia, era il primo
individuo appartenente alla specie umana che vedevo in vita mia. Che
creatura curiosa, pensai, e quest’impressione di stranezza la conservo
tuttora. Tanto per cominciare il viso, invece di essere coperto di peli,
era liscio come una teiera.”
E fin qui è comprensibile.
Poi peggiora. Le 500 e passa pagine non sono riuscito a reggerle tutte.
Il Lettore
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