mercoledì 17 ottobre 2018

Pastorale americana


Un altro scrittore destinato al Premio Nobel per la letteratura che non ha fatto in tempo a vederselo assegnato. Colpa sua che è morto troppo presto o colpa della commissione del Nobel che per quanto riguarda quelli bravi tergiversa fino a farli morire preferendo loro cosiddetti “poeti” dal cosiddetto merito altalenante come un ubriaco appena uscito dall’osteria?
Ho cominciato a leggere questo capolavoro proprio pochi giorni prima che giungesse la notizia della morte di Philip Roth. L’avevo cominciato e sospeso già in precedenza, poi, dopo la morte dell’autore ne ho ripreso la lettura e dopo poco l’ho interrotta di nuovo.
L’altra sera ero a cena con colei che mi ha gentilmente prestato il volume (che ringrazio di cuore), la quale mi ha informato che anche lei al momento stava leggendo un altro dei primi romanzi di Roth. Ovviamente il discorso è scivolato sull’autore di Pastorale americana e non abbiamo potuto fare a meno di parlare di questo libro.
L’aspetto consolante è che anche lei la pensava esattamente come me.

Ho un grosso cruccio nei confronti di questo romanzo: pur riconoscendo e apprezzando la bravura dell’autore, pur avendolo iniziato diverse volte, pur avendoci messo tutta la più buona volontà, pur desiderando ardentemente di vederne la fine (cazzo!, è Philip Roth, mica un Pinco Pallino qualsiasi), non sono mai riuscito a proseguire oltre la centesima pagina.

Il perché è presto detto: è noiosissimo.

Pur apprezzandone la sintassi e lo stile e il modo di costruire le frasi da grande romanziere, questo grande spaccato di una famiglia americana (che dovrebbe incarnare tutti gli aspetti della più ampia società americana), a me non è riuscito a coinvolgermi, non mi ha interessato affatto (come è già successo con altri autori famosi, soprattutto statunitensi).
Forse perché sono così diverse dal nostro vissuto quotidiano, del resto sono sempre un provincialotto di una piccola città dello sperduto centro di un paese che è grande solo lo zero virgola zero tre per cento degli Stati Uniti e quindi niente in confronto, fatto sta che le vicende di questo Nathan Zuckerman (alter ego dell’autore) chiamato a scrivere la biografia di Seymour Levov (lo Svedese, per via dei suoi capelli biondi), personaggio che dalla vita ha avuto praticamente tutto, sia nel bene che nel male, in me ha suscitato lo stesso interesse di una partita di calcio: zero assoluto. E quindi noia montante fino ad abbandonare ripetutamente la lettura.
Su questo libro sono stati versati fiumi d’inchiostro, ne hanno scritto tutti nella quasi totalità dei casi esaltandolo, facendone emergere le tragedie e i profondi risvolti psicologici; basta scorrere i commenti dei lettori su siti come amazon o ibs per notare come nella maggior parte dei casi i lettori abbiano dato stura al proprio estro creativo per sviscerare gli aspetti più intriganti delle intenzioni di Roth scrivendo non semplici recensioni, ma veri e propri romanzi per analizzarlo negli angoli più reconditi, e finendo con l’annoiare molto di più del romanzo stesso.
Mi dispiace, sinceramente, io non gliel’ho fatta. Ho superato il momento della vita in cui uno si impone per forza di terminare assolutamente i libri che inizia. Ora se uno scritto mi annoia lo pianto subito. Non vale più la pena perdere tempo con ciò che ti annoia.
Ripeto: mi dispiace, perché mi piace la scrittura di Roth e ho già avuto modo di apprezzarla, per esempio qui, ma sentir parlare per pagine e pagine di baseball, football, cibi americani o condizioni sociali degli ebrei negli Stati Uniti non fa proprio parte del mio DNA.
Passo.
Il Lettore 

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