mercoledì 30 ottobre 2013

Stoner

Se un libro appena pubblicato conquista subito la vetta delle classifiche dei bestsellers, ciò significa che è firmato Camilleri o Malvaldi o Brown eccetera, oppure che gli è stata imbastita sopra una massiccia campagna pubblicitaria, o che l’autore è transitato da Fazio. Dell’effettiva qualità di questi fenomeni editoriali poi si può discutere a lungo e non di rado se ne può legittimamente dubitare.

Ma quando un libro (pubblicato nel 1965!) oggi si arrampica faticosamente lungo la classifica partendo dalle ultime posizioni, 87… 82…, per risalire pian piano, 76…, settimana dopo settimana, 71… 65…, posto dopo posto, 55… 48…, in un lungo lasso di tempo, 41… 34…, un po’ quel che è successo alla biografia di Andrè Agassi, 32…, anche senza arrivarne mai in cima, 24… 21…, allora ciò vuol dire che è in atto un vero passaparola, che richiede tempo, un reale tamtam, non quegli autoincensamenti che troppo spesso si leggono sulle fascette pubblicitarie (ci avete fatto caso che per lo più sono gialle?) che avvolgono i volumi.


Ecco: Stoner fa parte della seconda categoria. Ovvero: come trasformare una mediocre normalità in un capolavoro.
Ho seguito l’ascesa di questo romanzo di John Edward Williams per alcuni mesi, prima di decidermi ad acquistarlo, leggendone anche alcune recensioni sul web e rimanendone incuriosito per la qualità che ne emergeva pur ammettendo, tutti i recensori, che nella trama non accade nulla di particolarmente esaltante. E di fatto il libro non è altro che il racconto della vita mediocre di tale William Stoner, professore di letteratura presso l’Università del Missouri, la biografia romanzata di un alter ego dell’autore, la biografia di una vita “normale”, ma che proprio in quanto tale, e grazie alla maestrìa dello scrittore, raccoglie in sé le storie di una smisurata quantità di persone “normali”, insieme a tutti i loro drammi e i loro tormenti interiori a volte mai espressi.
È vero, nel romanzo non succede nulla, se si eccettuano gli accadimenti “normali” di una vita: nascita, formazione, amore, matrimonio, morte. Ma l’abilità dell’autore fa sì che questi fatti siano inseriti come veri e propri colpi di scena, siano mostrati con una tecnica superiore che richiama alla mente Faulkner e Steinbeck (dei quali peraltro Williams è coevo), lasciando libero il lettore di trarne qualsiasi considerazione egli voglia.
Un romanzo semplice ma poliedrico, che proprio perché mostra, e non dice, permette al lettore di esplorare l’introspezione psicologica del protagonista senza che l’autore ne suggerisca la direzione, e rimane quindi aperto ad una quantità variegata di interpretazioni al punto che lettori diversi possono trarne insegnamenti diversi. L’autore non dice mai che un personaggio è “cattivo”, ma la malignità emerge prepotente dal suo comportamento.
Aveva una figura dritta e snella e occupava lo spazio con discrezione.
Una semplicità scritta con una delicatezza assoluta: come non rimanere incantati dalle immagini che appaiono al lettore quando un personaggio è descritto in questo modo? Quel “con discrezione” apre una serie infinita di angolazioni, e ognuno può trovarci quella che secondo lui è l’essenza della persona descritta.
Vi riporto un passo della postfazione di Peter Cameron, che riesce a descrivere meglio di me le sensazioni che ti assalgono quando affronti questo libro:
“A oggi ho letto Stoner tre volte e non sono del tutto certo di averne colto il segreto… La prima volta che l’ho letto sono rimasto sbalordito dalla qualità della scrittura, dalla sua pacatezza e sensibilità, dalla sua implacabile chiarezza abbinata a un tocco quanto mai delicato… La seconda volta che l’ho letto sono stato contento di ritrovare il romanzo immutato… Ora che l’ho riletto per la terza volta mi pare che quest’ultima sia stata la più emozionante e significativa.”
Un libro che di sicuro anch’io rileggerò ancora.
Il Lettore

lunedì 28 ottobre 2013

Sei passeggiate e sei lezioni

Chiunque si accinga a scrivere un testo qualsiasi, che sia prosa o poesia, narrativa o saggistica, dovrebbe aver assimilato a priori gli insegnamenti forniti da due opere che per la loro importanza debbono ritenersi fondamentali nel bagaglio culturale di ogni scrittore.
I libri sono:
Sei passeggiate nei boschi narrativi, di Umberto Eco, e

Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio, di Italo Calvino



Oltre ad avere in comune il numero 6, entrambe le lezioni sono state elaborate dai rispettivi Autori per essere esposte nell’ambito delle Norton Lectures all’Università di Harvard, ma se Eco le tenne tra il ’92 e il ’93, Calvino non riuscì a presentarle al pubblico e anzi, morì prima di aver terminato di stendere l’ultima lezione, quella imperniata sulla Coerenza.
Ho letto le Passeggiate almeno tre volte (anche se confesso di aver saltato, le due volte successive alla prima, le parti in cui Eco si dilunga (non poco) sulla Sylvie di Gerard de Nerval…) ed ogni occasione mi ha consentito di scoprire nuovi aspetti dello scrivere, e del leggere. È piacevole incontrare concetti tratti da libri già letti tra gli esempi portati da Eco, da Joyce ad Agatha Christie, da Melville a Fleming, e scoprire come il semiologo analizza strutture e stili dei testi più disparati o come individua le diverse figure del lettore o come spiega alcuni passaggi del suo Il nome della rosa.


Dalla prima lettura delle lezioni di Calvino si possono trarre spunti sulle trasformazioni che la letteratura può subire insieme alla rapida modificazione del mondo moderno. Ora che in quel prossimo millennio ci siamo, è scoraggiante constatare come nell’ambito letterario, così come peraltro in quello musicale, non emergano opere di spicco meritevoli di essere tramandate.
In ogni lezione Calvino tratta un concetto che lui ritiene fondamentale in letteratura, e li dispone in quello che secondo lui è un ordine di importanza decrescente:
1.       Leggerezza
2.      Rapidità
3.      Esattezza
4.      Visibilità
5.      Molteplicità
6.      Coerenza (solo progettata)
Ovviamente molti possono non essere d’accordo sull’ordine decretato da Calvino per il valore letterario di ognuno dei concetti: per me, ad esempio, la Coerenza è più rilevante della Molteplicità, ma resta in ogni caso difficile pensare ad un qualsiasi altro aspetto basilare della letteratura che l’autore non abbia preso in considerazione nella sua disamina. In ogni lezione inoltre si può trovare un riferimento ai vari libri scritti da Calvino stesso, nonché un numero rilevante di citazioni e rimandi ad autori e testi che hanno segnato la letteratura occidentale dal Medioevo ai giorni nostri, ognuno caratterizzato dall’inerenza con l’argomento nel quale è nominato.
Due letture veramente istruttive e interessanti, che non possono mancare nel proprio bagaglio personale.
Il Lettore

domenica 27 ottobre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 27 ottobre

Oggi non dovrete indovinare un solo libro, ma ben due! Perché due saranno i libri di autori diversi uniti domani in una stessa recensione. Ma il premio, ovvero la personale gratificazione di averci azzeccato, andrà anche a chi ne azzecca solo uno dei due. Quanto sono magnanimo.
Gli indizi:
1 – Come anticipato gli autori sono due: entrambi italiani.
2 – Di più: entrambi famosi, famosissimi, tra i più osannati autori italiani.
3 – Ancora: uno degli autori è vivente e tuttora in produzione, l’altro purtroppo è deceduto da alcuni anni.
4 – Nessuno dei libri da indovinare è un romanzo.

5 – I libri da indovinare trattano dello stesso argomento, sono stati scritti entrambi con il medesimo scopo, e anche nel titolo si assomigliano.


Troppo difficile? Non credo, sono entrambi libri molto conosciuti… usati anche per la didattica… perlomeno dalla metà degli anni ’90…
Freereader

venerdì 25 ottobre 2013

Achille pié veloce

Dopo il commento su Pane e tempesta, da più persone ho ricevuto l’invito a leggere quest’altro romanzo di Stefano Benni (la cosa mi ha fatto piacere nonché stimolato, al punto da spingermi a pensare di inserire su questo blog una rubrica nella quale inserire i vostri consigli: devo rifletterci sopra), e io non so resistere a questo tipo di spinte. Dal momento poi che una di queste persone è stata anche tanto gentile da prestarmelo, non ho fatto passare molto tempo prima di accingermi ad aprirlo.


Leggendo alcuni scrittori mi viene voglia di imitarli, come genere o come stile, di redigere un testo che assomigli a ciò che mi è piaciuto. Ma non è questo il caso.
Con Benni, pur apprezzando la fantasmagorica varietà del suo lessico, non mi succede. Achille pié veloce mi è piaciuto, ma non così tanto da invogliarmi a proseguire nella lettura del suo autore. E sì che, come mi anticipava l’amica che me l’ha prestato, il protagonista fa di professione ciò che io provo ad esercitare a gratis, cioè il valutatore di scrittodattili per una casa editrice. In effetti nel libro ho ritrovato parecchie situazioni nelle quali mi sono imbattuto anch’io, tutte inserite in chiave ironica sfruttando il facile appiglio dell’assoluta incompetenza letteraria della maggior parte di coloro che inviano i propri manoscritti a qualche editore.
Questo romanzo si rivela essere molte cose: un inno alla dimensione mitologica, ma anche una disamina della disabilità; una denuncia sociale, e insieme una gigantesca allegoria delle condizioni attuali del nostro paese in crisi comandato, all’epoca in cui è ambientato il romanzo, da un Nano non meglio identificato (qualsiasi riferimento alla situazione politica attuale è puramente voluto). L’aspetto che più mi ha interessato, sia come stile di scrittura che come contenuti, è il rapporto che lega Ulisse ad Achille, cioè tra la normalità e la disabilità. Benni ha voluto creare un personaggio mostruoso ma geniale, che sembra ricalcare un Elephant Man o un Johnnie Freak o il Raymond di Rain man, conferendogli una mente superiore in un corpo deforme, ed è riuscito nell’intento di articolare dialoghi intelligenti e del tutto plausibili in una situazione decisamente fuori della norma.
Ma nel resto del romanzo, a parer mio, avrebbe forse fatto meglio a risparmiarci un contraltare di sfaccettature oniriche, di miniautori di scrittodattili che gli escono dalle tasche, di elenchi interminabili di esempi atti ad esplicare un qualsiasi concetto: similitudini, metafore, paragoni che dimostrano sì la sfrenata fantasia di Benni e la sua padronanza del lessico, ma quando sono troppi finiscono con lo sfociare in una voluta  ridondanza che a me personalmente stufa; la bonaria presa in giro delle piccole case editrici può anche essere interessante, ma l’insistente sottolineatura, come fosse anch’essa una presa per i fondelli, del protrarsi di lotte sindacali passate di moda dopo gli anni ottanta, dopo un po’ annoia; fa piacere incontrare pagine dense di arguzia o stilisticamente perfette, come l’infuriare della “tempesta di congiuntivi” a pag. 211 e 212, peccato che siano alternate a criticabili passaggi didattici imperniati sul sociale, che a volte scadono in melense ovvietà come nell’affermazione: “Questo paese guarirà.”
Difficile, i medici bravi se ne sono andati tutti all’estero.
Il Lettore

mercoledì 23 ottobre 2013

Benedetta spocchia!

La Casa Editrice per la quale valuto i manoscritti inediti (gli scrittodattili, come li chiama  Stefano Benni), ha pubblicato sul proprio sito internet l’avvertimento di non spedire loro elaborati per alcuni mesi, e ciò perché oltre ad averne ancora in abbondanza da leggere, la situazione di crisi odierna costringe a centellinare gli investimenti.
Come stanno facendo molte altre case editrici.
Nonostante ciò, forse perché a qualcuno il significato delle parole scritte sfugge come nelle forme più gravi di dislessia, continua ad arrivare roba(ccia), quasi che l’avvertimento fosse rivolto a tutti gli altri ad eccezione dei mittenti stessi.
L’altro giorno l’Editore Sommo mi ha trasmesso un romanzo proditoriamente inoltratogli alla faccia del chiaro invito a non farlo, e il testo era affiancato da una lettera d’accompagnamento che con irritante presunzione diceva pressappoco così: “Ho letto che non accettate manoscritti, ma io ve lo invio comunque (!!!), perché… be’, leggetelo, e poi vedrete se non ho fatto bene ad inviarvelo lo stesso!”.

Incuriosito (e infastidito) da cotanta sicurezza di sé, ho aperto il file e mi sono messo a leggere…


Messaggio di servizio per l’Editore Sommo (so bene che stai leggendo il blog comodamente spaparanzato sulla tua poltrona girevole di fronte all’iMac): vorrei che tu rispondessi al Sig. XXXXX (l’autore dell’ultimo manoscritto che mi hai inviato), con le seguenti parole:
Egregio Signor XXXXX,
la professionalità di una casa editrice si misura anche valutando i manoscritti che pervengono nonostante l’esplicito consiglio a non spedirli. Le siamo grati del Suo interesse nei nostri confronti e, contestualmente al rimarcare in neretto nel nostro sito internet l’invito a non inviare elaborati, abbiamo esaminato attentamente il suo romanzo dal titolo YYYYY.
Ritengo che nel momento in cui un autore sia dotato della spocchia necessaria ad ignorare gli avvertimenti, questa spocchia dovrebbe essere obbligatoriamente supportata da una qualità di creazione ben al di sopra della media.
Mi duole doverLe comunicare che nel suo caso non è per nulla così. Anzi.
Il nostro Valutatore ha trovato una tale messe di bestialità nel suo manoscritto da minacciarci di sospendere il suo rapporto di collaborazione con la Casa Editrice qualora continuassimo a sottoporgli scempi del genere.
In particolare, fin dalle primissime pagine il manoscritto brilla per l’assenza di preposizioni semplici dove invece necessarie; inesplicabili passaggi temporali dei verbi (dal presente indicativo al passato remoto all’imperfetto e viceversa) all’interno dello stesso periodo; consonanti talora triple (abbbassamento) , ma a volte singole (disapunto, barzelette); dialoghi atroci, esclamazioni e/o espressioni idiomatiche stucchevoli e/o superflue parolacce all’interno degli stessi; interruzioni di frasi a metà del loro svolgimento; reiterati accenti aperti al posto di accenti gravi; inserimento di vocali accentate dove non necessario (piùttosto); mancanza di spazi dopo il punto; numerosi rovescini in battitura (davatni, voglere); molteplici lettere rimaste nella tastiera del computer (eclamò); rimandi a capo a metà di discorsi inconclusi; lettere maiuscole dimenticate; numerose virgole tra soggetto e predicato; unioni di lemmi quando dovrebbero essere separati (fuoriluogo); parole platealmente errate (inbarazzante); o con esuberanti aggiunte (contuinuo, prensenti); uso abnorme del punto esclamativo; elaborazione di neologismi francamente inutili (buosenso); e tutto ciò resta francamente incomprensibile a meno che Lei abbia volutamente disinserito la funzione di correzione automatica di Word.
Per non parlare dello stile (lasciamo proprio perdere, è meglio) e dei contenuti che, purtroppo per loro, non sono recepibili a causa dello sfacelo ortografico/grammaticale che costringe ad abbandonare la lettura dopo poche pagine.
Ma la cosa che più mi rende amareggiato è che Lei, con la sua spocchia, ha contribuito in modo inqualificabile a minare ulteriormente la nostra fiducia nel prossimo, condannando molti altri potenziali, buoni scrittori, a non essere letti, per il timore di rendere operative le concrete minacce del nostro prezioso Valutatore.
Nel salutarLa, La invito a risparmiarci una qualsiasi risposta: non verrà letta neppure quella.
Il suo, mancato, Editore.”
Il Valutatore

lunedì 21 ottobre 2013

Argento vivo

Nello Squizzalibro di ieri mi sono sbagliato e faccio ammenda: Argento vivo non è il sesto ma il settimo romanzo di Marco Malvaldi, che ha scritto inoltre un saggio sulle catastrofi annunciate, insieme a Roberto Vacca, e una specie di itinerario psicologico della sua città, Pisa (non pensate però che io abbia voluto ingannarvi per non farvi indovinare, mi sono sbagliato in buona fede).

Ad eccezione degli ultimi due, ho letto in ordine cronologico tutto il resto che è stato pubblicato dall’autore toscano, a partire da quel La briscola in cinque con cui è diventato subito famoso per finire con Milioni di milioni. In ogni libro ne ho apprezzato l’umorismo da toscanaccio e la facilità di lettura.


Nel corso dei vari cimenti romanzeschi Malvaldi si è divertito (perché sono convinto che lui si diverte veramente, mentre scrive) ad intrecciare storie gialle imperniate in un bar di provincia, storie gialle in ambiente storico e storie gialle in paesini innevati, e questo Argento vivo è forse la sua prima storia con la quale esce dall’archetipo del giallo leggero per raccontare una specie di commedia degli equivoci intrecciata sulle conseguenze paradossali che capitano ad un gruppo variegato di personaggi in seguito al furto di un computer. Sarà perché l’autore stesso alla fine del libro confessa di non averla ideata lui, la trama, ma di averla “rubata” alla sua compagna di vita.
Il romanzo è leggero e piacevole, scorre via fino alla fine con facilità di lettura e lascia un senso di soddisfazione per aver passato qualche ora in serenità lasciando da parte i problemi della vita. Ho trovato interessanti anche le parti in cui Malvaldi inserisce un romanzo nel romanzo, sia pure frammentate e scritte con uno stile che forse assomiglia un po’ troppo a quello del corpo principale.
Ho gradito anche, sia pure analizzandolo criticamente durante la lettura, il trucco usato dall’autore di inserire richiami e/o allitterazioni e/o domande e risposte tra la fine di un blocco e l’inizio del successivo. Mi spiego:  Malvaldi divide ogni capitolo in una serie di scene (blocchi, separati tra loro da una riga vuota) che si svolgono in luoghi diversi dell’azione a raccontare cosa succede a personaggi diversi. Nella frase finale di ogni blocco, cioè di ogni scena, Malvaldi inserisce un qualche sintagma le cui unità sintattiche vengono poi riprese, talora con diversa semantica, nelle prime frasi del blocco successivo. Per esempio:
“… ha bisogno di una macchina nuova.
stacco, riga vuota
Volkswagen Lupo, anno 2000…”
Oppure:
“… riferimenti, cliccare qui.
stacco, riga vuota
-E non abbiamo il minimo riferimento, quindi (dice un altro personaggio in un’altra scena).”
Oppure:
“-Non è certo questo che mi può spaventare.
stacco, riga vuota
-Sono spaventato a morte (dice un altro personaggio in un’altra scena).”
Eccetera.
Questo trucco (lo vogliamo chiamare tecnica?), usato spesso anche nella sceneggiatura di fumetti, fornisce al lettore una concatenazione naturale tra le varie scene e rafforza, quando viene usata  un’allitterazione, l’attenzione posta su un lato della vicenda.
Insieme a questo aspetto quasi da esercizio stilistico, nel romanzo di Malvaldi spiccano come sempre l’umorismo toscano e quelle profonde verità di vita che l’autore elargisce come dogmi inconfutabili:
“Una telefonata che arriva tra le otto e le nove di sera,  qualsiasi notizia che l’interlocutore ritenga necessario comunicarvi all’ora di cena, mentre state arrotolando il meritato bucatino, è quasi sicuramente una rottura di coglioni.”
Come non condividere?
Il Lettore

domenica 20 ottobre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 20 ottobre

Oggi mi va di essere sintetico:
1 – Forma narrativa: romanzo.
2 – Genere: leggero.
3 – Autore: italiano.
4 – Data di pubblicazione: poche settimane fa.

5 – Curiosità: mi sembra sia il sesto romanzo di questo autore che in una recente intervista si è dichiarato felice di essersi potuto costruire la villa con i proventi dei primi due libri pubblicati. Che invidia.


Facile, no?
Freereader

venerdì 18 ottobre 2013

Le maschere della notte

Quando leggo un autore sconosciuto le cui storie fanno parte di un ciclo mi piace iniziare dal primo della successione, ma in questo caso sono venuto a sapere solo dopo che questo Le maschere della notte è la terza indagine del Commissario  Pieter Van In, così come non sapevo che questa serie scritta da Pieter Aspe ha venduto quasi due milioni di copie oltre ad aver fornito lo spunto per radiodrammi, telefilm e perfino un gioco di ruolo. Il tutto in Belgio e Olanda, dove evidentemente l’appartenenza del testo alla corrente giallistica fiamminga è molto sentita.


Il romanzo fa parte del genere in cui sai da subito chi sono i “cattivi”, e la tensione narrativa che ti spinge a continuare a leggere è fornita solamente dalla curiosità di sapere il “come” l’eroe di turno riuscirà a sbatterli in gattabuia. Pieter Aspe è piuttosto bravo nel costruire questa tensione, utilizzando meccanismi collaudati, caratterizzando bene i coprotagonisti e mescolando all’indagine principale quei microcosmi personali che immagino nel corso dei vari episodi subiscano un’evoluzione che incuriosisce il lettore.
Un racconto che si legge bene, il cui stile di scrittura e di definizione dei personaggi mi ha ricordato Lawrence Sanders (lui sì che era un grande, prima o poi devo ripescare uno dei suoi romanzi e farne una recensione; solo a pensarci mi viene voglia di rileggerlo…), e che alla fine soddisfa pur presentando alcune pecche come sporadici cali stilistici, forse dovuti anche alla traduzione, o incongruenze narrative poco realistiche come le intemperanze del protagonista o l’inviare in missione sotto copertura un agente del tutto inesperto.
Comunque una lettura piacevole, ma appannata anche (idiosincrasia personale, affermazione da prendere con le dovute cautele) dalla difficoltà di leggere e memorizzare una caterva di cognomi tipicamente fiamminghi: Van In, Versavel, Vermast, Vervoort, Vandaele, Provoost, Lodewijk, De Jaegher eccetera, che per le assonanze o la difficoltà di attribuire ad essi una pronuncia plausibile finiscono con il confondersi fra di loro e spesso succede di dover tornare indietro per cercare di capire chi sia questo o quello.
Per noi abituati ai cognomi latini o anglosassoni, tutt’al più francofoni, è un po’ quello che ci succede con la letteratura scandinava: Appelviken, Blomkvist, Armanskij, Fraklund;  giapponese: Shikibu, Yamanashi, Kanezaki, Momokawa Joen, Tennenkoji; russa: Raskolnikov, Arkadjevic, Vronskij, Aleksjejevic, Aleksandrovic, Nechljudov… (per non parlare di quella araba, indiana, africana, ebrea, cinese, tibetana o inuit).
E ringraziate che non ho riportato tutti quegli accenti strani sopra le lettere.
Il Lettore

mercoledì 16 ottobre 2013

Non lasciarmi

Dopo aver letto Quel che resta del giorno, quando mi sono trovato di fronte quest’altro romanzo di Kazuo Ishiguro non ho potuto fare a meno di prenderlo ed iniziarlo subito, sperando di ritrovare quella prosa cristallina che mi aveva soddisfatto leggendo il precedente.


Questa volta la conferma c’è stata: Ishiguro intavola in modo curato una prosa fluente, precisa nei particolari e sufficientemente discorsiva da permetterti di continuare ad andare avanti nonostante il ritmo pacato e l’atroce tematica che resta sempre in sottofondo. E in questo è supportato anche dalla traduzione oserei dire perfetta di Paola Novarese.
La tematica, dicevo. Il romanzo di Ishiguro è ambientato in una realtà distopica nella quale con il beneplacito statale si “allevano” cloni di esseri umani destinati a fornire  organi di ricambio per trapianti (le “donazioni”) in modo da curare molte malattie umane. Ma di questo nel libro non si parla quasi mai: con un mirabile ricorso all’ellisse l’autore ci fa trovare direttamente all’interno di una congrega di questi cloni che interagiscono tra loro come se vivessero in una società “normale”, con tutte le loro problematiche e gli interrogativi su quale sarà il loro futuro individuale del quale sono edotti sì, ma al quale non sono mai rassegnati del tutto.
Da qui deriva lo sconvolgente senso di angoscia che permea tutto il libro, dall’inizio alla fine, attraverso un succedersi di situazioni anche futili, ma che viste attraverso l’ottica del destino segnato di questi esseri, del tutto simili agli esseri umani ma condannati fin dalla nascita, incidono a fondo nel lettore un orrore viscerale per la possibilità concreta della fattibilità di un’operazione del genere. Kazuo Ishiguro è un maestro nel mostrare, attraverso fatti banali e rapporti interpersonali quali potrebbero svilupparsi tra qualsiasi adolescente, l’angoscia che deriva dall’essere considerati come pecore al macello, rassegnati, segnati da un destino ineluttabile. Inoltre l’autore si cala con coerenza e naturalezza nei panni di una protagonista di sesso femminile e riesce nello scopo di farla apparire perfettamente plausibile.
Non lasciarmi è un libro che nonostante la voluta lentezza ti afferra alla gola e non ti lascia, tramite un susseguirsi di episodi “normali” che dipingono una situazione complessa e agghiacciante, attraverso la quale l’autore ti conduce con una non-chalance che sconfina nel fatalismo. Anche il trucco che l’autore usa chiamando i personaggi solo con il nome e l’iniziale puntata del cognome (Kathy B.) conferisce ai singoli una drammatica spersonalizzazione, e sottolinea la privazione di un’identità concreta.
Un libro che una volta letto non si dimentica facilmente.
Il Lettore

lunedì 14 ottobre 2013

L’arrosto argentino

Nella collana “Piccola Biblioteca di Cucina Letteraria” di Slow Food Editore vengono pubblicati brevi testi di autori conosciuti che abbiano in qualche modo a che fare con il cibo e la gastronomia. Tra gli altri vi sono già apparsi Moni Ovadia e Simonetta Agnello Hornby, e Massimo Carlotto è il numero 6 della serie di quelli che si cimentano nell’inneggiare alla cucina nell’esiguo spazio di 24 cartelle.


I libri di Carlotto che ho letto, Alla fine di un giorno noioso e Respiro corto, mi sono piaciuti per lo stile incalzante, anche se per questo a volte peccano un poco di superficialità non approfondendo i personaggi in modo adeguato, e per l’asprezza delle situazioni che l’autore tratta in un modo che più crudo sarebbe difficile.
Nelle 24 pagine di questo volumetto il Carlotto narrante parla dell’antico rito della preparazione dell’arrosto argentino, l’asado, insegnatagli da un vecchio asador, che in Argentina è una figura tenuta molto in considerazione, in questo caso una specie di gaucho solitario che ama le intese silenziose e rifugge dalle chiacchiere banali. Insieme alla ricetta di come si allestisce un buon asado, l’alter ego del protagonista fornisce al narratore una storia d’amore romantica ma allo stesso tempo tragica che funge da terza linea narrativa.
Nel complesso un racconto carino, che si legge in un quarto d’ora e ti fa venire voglia di andare a comprare un quarto di manzo e poi accendere il fuoco senza stare a pensarci su tanto.
Un libricino per niente adatto ai vegetariani.
Il Lettore

domenica 13 ottobre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 13 ottobre

Bando alle ciance e largo agli indizi:
1 – Questa volta dovrete indovinare il titolo di un romanzo (?) breve, brevissimo, un racconto, una novella stringata, oserei dire striminzita, pubblicata in un sottile libricino di poche, pochissime pagine che si legge in venti minuti.
2 – L’autore è italiano, famoso per storie che appartengono a tutt'altro genere di quella che questa volta dovrete indovinare.
3 – Nonostante siano poche pagine, il racconto condivide due linee narrative.
4 – Inframmezzato al racconto, infatti, l’autore fornisce un breve, e per nulla esaustivo, ma interessante saggio.

5 – Spiattellarvi l’argomento del saggio renderebbe tutto troppo facile (del resto si tratta proprio del titolo da indovinare…), vi basti sapere che anche in questo caso si parla di un particolare aspetto di un argomento vastissimo, internazionale e quotidiano (anche se una sempre più vasta cerchia di persone ha bandito quel particolare aspetto dalle proprie abitudini).


Forse sono stato un po’ enigmatico, ma dall’ultimo indizio ci si può risalire.
Sotto con le ipotesi!
Freereader

venerdì 11 ottobre 2013

Mancarsi

Questa settimana ho già parlato bene di due libri: vediamo di rifarci, altrimenti rischio di sguazzare nel mellifluo.
Di Diego de Silva avevo già letto Non avevo capito niente, della serie con l’avvocato Vincenzo Malinconico, e avevo iniziato Certi bambini, non riuscendo a terminarlo.

Non che presentasse qualche cosa che non andava, sarà stato l’argomento.


I protagonisti di Mancarsi, Irene e Nicola, sono entrambi reduci da rapporti coniugali terminati nei modi peggiori. L’autore tenta di dipingerli come fatti l’uno per l’altra (ma non è che alla fine gli riesca molto bene) e li fa gravitare ad orari diversi intorno allo stesso luogo senza mai permettere loro di incontrarsi. La struttura si risolve quindi in due linee narrative separate, in un’alternanza di capitoli con protagonista ora l’una ora l’altro, nei quali l’autore cerca di inquadrare la figura dei due personaggi principali attraverso episodi che dovrebbero far capire come i due siano l’uno il complemento dell’altra.
L’idea potrebbe anche essere buona, ma la realizzazione sa di prodotto confezionato in fretta e furia per esigenze commerciali, per sfruttare la scia degli altri titoli con i quali De Silva si è fatto conoscere, e ne è derivato un libercolo di nemmeno 100 pagine buona parte delle quali sono dedicate alle più svariate riflessioni, in genere sulle problematiche di coppia: in ogni capitolo De Silva abbandona la cronaca dei fatti (che dovrebbero essere, come non mi stancherò mai di ripetere, quelli attraverso cui mostrare i concetti che si intendono spiegare) per mettersi in cattedra ed elargire dogmi e regole generali di vita che gli episodi dovrebbero aver già spiegato per conto proprio.
Ma perché deve mettersi a fare il docente? Forse lo scopo è solo quello di allungare? Be’, senza queste specificazioni il racconto non avrebbe superato le 60 pagine, un po’ poche per farci un libro in vendita a 10 euri. Tanto più che la maggior parte degli interventi autoriali sono costituiti da saggezza spicciola, da analisi psicologiche direi alquanto superficiali e da indagini sulle dinamiche di coppia che sanno molto di esercizi stilistici. Una vera noia, mi era piaciuto molto di più l’umorismo con cui De Silva aveva farcito i libri dell’avvocato Malinconico.
Nonostante un titolo come questo, Mancarsi, uno si aspetta poi che alla fine i due protagonisti in barba al titolo si incontrino lo stesso, ma quando poi ciò succede veramente, lasciando presagire chissà che promettenti sviluppi, allora ci rimani anche male (ma come? E allora la coerenza del titolo?) e ti viene da pensare: ooohhh, era ora, andate in pace!
E chiudi il libro con uno slam!, aggiungendo un ma vaff… prima di riporlo e passare a qualcosa di più consistente.
Il Lettore 

mercoledì 9 ottobre 2013

Mr Gwyn

In ordine temporale di approccio, di Alessandro Baricco ho già letto/tentato di leggere: Seta (molto buono); Oceano Mare (non terminato, uffa che barba che noia che barba…); Castelli di rabbia (piantato a metà, uffa ecc.); Novecento (ottimo); City (piantato ancora prima di essere giunto a metà); Senza sangue (buono).

Da un rapido riepilogo emerge un equilibrato 3 a 3, quindi capirete come mi sia apprestato a leggere Mr Gwyn con una certa dose di curiosità ma anche un pizzico di scetticismo.


Bene, dopo la lettura ora siamo sul 4 a 3 per i “buoni”: Mr Gwyn l’ho divorato in un giorno e devo dire che è uno dei libri più godibili che ho letto negli ultimi tempi. Sarà perché parla di scrittura?
Quello che viene in mente leggendo questo romanzo è la precisione. Precisione di intenti, di immagini, di concetti e sensazioni. Precisione nella ricerca delle parole, nella maniacale accuratezza con cui queste concorrono a costruire le frasi e le frasi i periodi. Precisione nei scambi verbali: poche volte mi è capitato di imbattermi in dialoghi così freschi e verosimili. Una precisione sicuramente frutto di un lungo lavoro di limatura, che ha contribuito a comporre uno stile di quelli che facendoti l’occhiolino ti trasmettono il concetto: “ecco, lo vedi com’è che si scrive?” ma che in fondo è perfettamente adeguato alla storia e al come l’autore ha inteso narrarla.
La trama è originale, dipanata in modo encomiabile, senza alcun deludente calo di tensione e/o aspettativa, e i due protagonisti che si danno il cambio dopo la metà del libro sono dipinti con una professionalità che conferma le doti di Baricco. Le atmosfere che Mr Gwyn vuole ricostruire per il suo strano progetto sono descritte in modo tale da fartici sentire dentro, e le invenzioni romanzesche, dal ritratto scritto alle lampadine fatte a mano, sono spiegate in modo così accattivante che non puoi fare a meno di sorridere mentre leggi.
Un altro aspetto che emerge prepotente dal romanzo, insieme alla figura dell’agente letterario, è il rapporto di lavoro/amicizia che lega quest’ultimo al protagonista: in poche pagine Baricco tratteggia un legame tra uomini di quelli che potrebbero essere citati in una discussione. 
Un libro pieno di garbo, di magìa, un libro che per il modo di indagare sulla conoscenza consapevole di se stessi e degli altri mi ha ricordato le tematiche di Pirandello.
Bello. Da leggere, soprattutto se uno è interessato alle problematiche degli scrittori.
Il Lettore 

lunedì 7 ottobre 2013

L’arte di correre sotto la pioggia

Dal momento che qualche giorno fa ho bocciato Licia Colò per il suo modo di scrivere sugli animali, ho pensato di fornire un esempio di come andrebbero scritti i testi che trattano di animali.

Non solo, questo di Garth Stein che ho letto qualche tempo fa è anche uno di quei libri il cui valore è inversamente proporzionale al costo: per 6.50 euro vi portate a casa un romanzo che vi appassionerà non poco e al quale di sicuro destinerete un posto d’onore nella vostra libreria nonostante il suo formato economico e tascabile. Secondo me è pure molto meglio di Io e Marley.


Se tu sei il cane di un bravo meccanico automobilistico con serie intenzioni di affermarsi nella carriera di pilota, è giocoforza che ti chiami Enzo.  Come Enzo Ferrari.
Enzo è il protagonista narrante di questo romanzo che sviscera tutti gli aspetti del rapporto uomo/cane: dall’amore incondizionato del cane per il suo compagno umano all’amore dell’uomo per il suo cane, il tutto visto in chiave canina e complicato dai tragici avvenimenti attraverso i quali il protagonista umano sta transitando.
L’immedesimarsi dell’autore nel cane narrante è riuscito benissimo e il tutto appare linearmente coerente e di una leggibilità godibilissima nonostante la marcata antropomorfizzazione e la classica struttura in cui i buoni prima soffrono passando tra mille peripezie ma nel finale riescono a spuntarla: il libro è coinvolgente e appassionante, e chiunque possieda o abbia posseduto un cane si ritroverà nel rapporto tra i due protagonisti.
Certo, i pensieri del cane che si rammarica di non poter parlare o di non avere il pollice opponibile sfiorano la sdolcinatura, così come può apparire azzardata la smodata passione di Enzo per le corse automobilistiche o il suo anelito di rinascere come uomo, ma vedrete che nel complesso ci possono anche stare e contribuiscono a rendere il libro commovente oltre che piacevole.
Per non togliervi il gusto non posso dirvi come va a finire (e non credete che sia facile immaginarselo), ma vi confesso che sull’ultimo capitolo è scesa qualche lacrima anche dai miei occhi.
Quando leggo cose buone mi emoziono anch’io.
Il Lettore

domenica 6 ottobre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 6 ottobre

Dopo lo splendido fumetto oggetto dello Squizzalibro di domenica scorsa, per la lettura del quale devo ringraziare CiEffe, voglio iniziare bene anche questa settimana: in questa puntata si parlerà di:
1 – Animali!!! Un bellissimo romanzo sugli animali, scritto come si deve, un signor romanzo, altro che la Colò!
2 – L’autore è uno scrittore (ma fa anche il produttore cinematografico) statunitense, nato a Los Angeles, cresciuto a Seattle e residente a New York: stì americani quanto girano!
3 – Il libro in oggetto è uscito negli Stati Uniti nel 2008, è stato tradotto in 28 lingue ed è stato per 40 settimane un bestseller del New York Times.
4 – È narrato in prima persona dall’animale stesso, che stranamente ha delle tipiche passioni umane.

5 – Il protagonista non è un gatto.


Forza che è facilissimo…
Freereader

venerdì 4 ottobre 2013

Pane e tempesta

Sembrerà strano ma prima d’ora non avevo mai letto un libro di Stefano Benni. Quelli veramente cattivi diranno che non mi ero perso nulla. Ma io no, non sono cattivo fino a questo punto: semplicemente non mi era mai capitato un suo libro sotto mano e non ne ero mai stato incuriosito al punto da comperarne uno. Ora che mi è capitato, be’, non posso dire di esserne rimasto entusiasta, ma non mi è nemmeno dispiaciuto del tutto.


Il libro costituisce una metafora del mondo moderno e ironizza in modo anche amaro sulle trasformazioni che tutti noi abbiamo visto succedersi nel corso degli ultimi decenni. Non so esattamente se il romanzo sia un sequel di Bar Sport, dal momento che quest’ultimo non l’ho letto, ma è ambientato nel Bar Sport di un paesino di montagna in procinto di cadere nelle grinfie della modernità ed ha come protagonisti, oltre ai frequentatori del bar, tutti gli altri abitanti del paese, umani ed animali, ognuno con la sua storia da raccontare.
Ecco, se di una cosa Benni non può proprio essere accusato, è di non avere fantasia. Tra storie vere e inventate, animali reali e fittizi, storielle ed aneddoti, profonde verità e balle spaziali l’autore dipana una storia frammentaria e caotica tesa a denunciare il potere che non si riesce a contrastare e piena di rimpianto per le cose che furono e più non saranno.
Il libro, anche se caotico, è divertente e scorre bene tra decine di episodi, strani personaggi, battute umoristiche e considerazioni sia semiserie che commoventi. Si legge bene, ma ad essere sincero non è riuscito a farmi venire la voglia di leggere qualcos’altro dello stesso autore.
 Il Lettore

mercoledì 2 ottobre 2013

Io e te

Romanzo breve, recensione concisa.


Con le centodiciassette pagine di questo (romanzo breve? racconto lungo?) Niccolò Ammaniti è riuscito a fornirci una storia particolare, originale e piacevole da leggere, caratterizzata da un ritmo veloce che senza cali di tensione narrativa, e risolvendo via via in modo encomiabile quelli che potrebbero sembrare ostacoli insormontabili alla plausibilità della narrazione, conduce ad un finale amaro di quelli che rimangono dentro a lungo.
Una prova più che buona.
Il Lettore