domenica 31 luglio 2016

L’ombra del templare

Pur avendo una storia reale di “soli” duecento anni, più o meno dal 1100 al 1300, quello dei poveri compagni d’armi di Cristo e del tempio di Salomone, altrimenti detti Templari, è diventato un mito che resiste nel tempo, affascina ancora e a tutt’oggi continua a dare la stura a romanzi e films imperniati su di loro. Soprattutto dopo il 2003, anno in cui un certo Dan Brown ha pubblicato un romanzetto dal titolo Il codice Da Vinci che ha venduto poche decine di copie (giusto qualche milione), di romanzi che di riffa o di raffa hanno a che fare con i Templari sono stati riempiti scaffali interi.
Questo di Nuria Masot, guarda caso, è del 2004.




L’ombra del templare, primo volume di una tetralogia (!) con lo stesso protagonista, è ambientato nella Barcellona del 1265 e vede Guillem de Montclar, giovane monaco e cavaliere del tempio appena uscito dall’addestramento per diventare una spia dell’ordine, andare alla ricerca di preziose pergamene contenenti inenarrabili segreti che sono state sottratte al suo mentore e ne hanno provocato la morte.
Una storia di spie, segreti, assassinii e sotterfugi, che con poche varianti potrebbe essere traslata negli anni ’40 del secolo scorso ponendo Germania e Inghilterra al posto di Papato e Regno di Francia, o negli anni ’70 mettendo come protagonisti la CIA e il KGB. Uguale.
Il Papa e Re Luigi IX hanno già iniziato le tresche che porteranno alla distruzione dell’Ordine dei Templari per accaparrarsi e spartirsi le loro immense ricchezze racimolate non si sa bene come, e a Barcellona si scontrano le spie delle rispettive fazioni e i propri aiutanti in un susseguirsi di inseguimenti, pedinamenti, assassinii, tradimenti, suicidi, amori fugaci e riscatti finali da tipico feulleiton di cappa e spada ottocentesco. La plausibilità del tutto è piuttosto aleatoria, con agenti segreti descritti come eccezionalmente bravi che non si accorgono di essere pedinati da schiere di nemici che a loro volta non si accorgono l’uno dell’altro, o con rifugi nascosti raggiungibili per vie macchinose che neanche la fantasia di Spielberg, per non parlare del contenuto incredibile (nel vero senso della parola: non ci si può proprio credere) delle pergamene di cui i protagonisti sono alla ricerca.
L’onniscienza del narratore viene fatta pesare rendendo lo stile un po’ troppo sorpassato e “professorale”, parecchio descrittivo e in definitiva non molto piacevole, soprattutto quando l’autrice insiste a spiegarci i pensieri dei vari personaggi, probabilmente perché convinta che noi stupidi lettori non ci saremmo arrivati da soli se ci avesse dato solo i fatti. La ricostruzione storica è decente, senza approfondire troppo e quindi senza sfondoni plateali, e alla fine il libro si lascia leggere soprattutto perché uno è incuriosito da cosa cacchio ci sarà mai scritto su queste pergamene, senza però soddisfare un gran ché una volta che ne sei venuto a conoscenza, né far venire alcuna voglia di leggerne gli addirittura tre séguiti.
Il Lettore 

giovedì 28 luglio 2016

Una stanza tutta per sé

Da questo libro è stata tratta la famosissima frase di Virginia Woolf: “Una donna deve avere denaro, cibo adeguato e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi”, di cui ho parlato anche in quest’altra recensione.
Ora non me ne vorranno le femministe,  anzi, sicuramente me ne vorranno, ma non fatemelo pesare troppo, se mi sento di dire che in effetti quella frase è l’unica degna di essere ricordata di questo libro noiosissimo.




Una stanza tutta per sé è il compendio di due conferenze tenute da Virginia Woolf alla Arts Society di Newnham e alla ODTAA di Girton nell’ottobre del 1928. Mi àuguro per gli astanti dell’epoca che l’autrice sia stata un’oratrice superlativa, perché se ci si trovasse a giudicare il valore delle conferenze da questo resoconto, probabilmente coloro che vi hanno assistito saranno ancora lì ad aspettare di essere risvegliati.
La Woolf era stata chiamata a parlare di Le donne e il romanzo, e dopo aver dapprima ammesso candidamente di non sapere proprio cosa dire, come una macchina che si scioglie dopo il rodaggio comincia a parlare della donna nel romanzo e delle donne autrici di romanzi, per poi allargarsi a tratteggiare il ruolo della donna nella storia e nella società dell’epoca.
Sentir parlare di scritti che non hai letto di autori antichi che non conosci, come Milton ― del quale ho letto solo il Paradiso Perduto e neanche per intero, Thackeray o Pope, di certo non risveglia l’attenzione, e il saggio si trasforma ben presto in un pallosissimo susseguirsi di pagine fitte senza neanche un “a capo” a spezzarne la monotonia.
La situazione migliora (leggermente) quando la Woolf comincia a parlare della donna e del suo ruolo nella società. Si sente che l’argomento le sta molto più a cuore e i toni si fanno più accesi, e da convinta femminista bisessuale si lancia in una filippica contro quella che è sempre stata la discriminazione della donna in una società patriarcale nella quale si è sempre cercato di relegare la figura femminile a una condizione inferiore. Per non parlare del soffocarne qualsiasi aspetto di creatività: “Perché non ci vuole un grande acume psicologico per essere sicuri che una ragazza di grande talento, che avesse cercato di usarlo per far poesia, sarebbe stata così ostacolata e impedita dagli altri, così torturata e dilaniata dai propri istinti contraddittori, da finire sicuramente per perdere la salute e la ragione”.
L’indipendenza ― e da qui il succo della sua frase ― è necessaria per sviluppare la creatività in qualsiasi ambito, e dal momento che la donna nei secoli è sempre stata tutto meno che indipendente, da ciò non poteva derivare altro che una quasi completa assenza di artisti di sesso femminile.
Dal punto di vista concettuale mi trovo a concordare pienamente con lei e ad esecrare, da maschio, una società maschilista che insieme a duemila anni di chiesa cattolica hanno fatto di tutto per schiacciare la figura femminile. Probabilmente, se la storia fosse andata un po’ diversamente, se avesse prevalso una società matriarcale e non ci si fosse affidati a rigide religioni monoteiste nell’aleatoria speranza di andare a finire meglio una volta dipartiti da questa terra, le cose sarebbero state sensibilmente migliori. Sempre tenendo conto che l’uomo bestia è e bestia rimane.
Questo compendio si può quindi considerare un classico del pensiero femminista, esternato in modo onesto da una donna che si trovava nell’invidiabile condizione ― indipendenza economica e marito innamorato e liberale ― di potersi comportare come desiderava, e come tale va apprezzato. Sicuramente nei quasi novant’anni da che sono state tenute quelle conferenze la condizione della donna è migliorata, e di questo la Woolf ne sarebbe stata soddisfatta, anche se la strada da fare è ancora lunga.
Sono d’accordo quindi con ciò che ha detto, ma lasciatemelo dire, il come resta sempre pallosissimo.
Il Lettore 

lunedì 25 luglio 2016

La donna che vestiva di rosso

Dopo la lettura di Nessun testimone, che a detta di molti è il miglior romanzo di Elizabeth George e finora concordo, sono stato un po’ titubante a riprenderne in mano un altro, ma quando ce l’hai a disposizione, per di più gratis, come fai a dire di no? Va be’, sarà un po’ inferiore a quello, e allora? Proviamo comunque, se non mi dovesse piacere pace, buonanotte al secchio e ai suonatori.
Ma quando ho cominciato questo La donna che vestiva di rosso, e ho scoperto che è il seguito diretto di Nessun testimone, con un Thomas Lynley che vaga per le scogliere della Cornovaglia come un vagabondo ― in puro stile Forrest Gump in versione maratoneta ― nel tentativo di scacciare il dolore provocato dalla tragedia personale che gli è accaduta nel romanzo precedente, lo stile della George mi ha preso subito, di nuovo, e non sono stato soddisfatto finché non l’ho finito, anche stavolta quasi 600 pagine dopo l’inizio.




Il sovrintendente sconvolto ha addirittura deciso di lasciare Scotland Yard e non sa più cosa fare della propria vita, ma tanto bene nel corso del suo vagabondaggio da straccione si imbatte in un corpo alla base di una falesia. L’uomo sembra precipitato mentre si stava arrampicando ma ben presto, quando ancora lo stesso Lynley figura come persona sospetta perché sembra un barbone e non ha documenti con sé, fin dalle prime indagini emerge che si tratta di omicidio, e l’investigatore si trova quindi coinvolto suo malgrado in un caso per la polizia dello sperduto paesino della Cornovaglia. Il suo background professionale ne sarà risvegliato fino a partecipare attivamente alle indagini, e il tutto lo stimolerà a provare a dare un nuovo senso alla propria vita.
Bel romanzo, anche se un po’ lento perché la George mette in pista una marea di personaggi di ognuno dei quali indugia a scavare nei trascorsi e nelle motivazioni psicologiche del loro comportamento. E se i più giovani hanno poco passato da tirare fuori, per i più anziani la cosa si fa complicata, perché verranno dissepolti fantasmi di decenni prima che serviranno a dare un senso a un’indagine ingarbugliata prima di poterne trovare la soluzione.
Il passare continuo da una scena all’altra, da un personaggio all’altro, rallenta enormemente lo svolgimento e ti fa venire un po’ di impazienza perché vorresti ritrovare subito il filo dell’investigazione, ma d’altra parte consente una magnifica caratterizzazione di ogni singolo ruolo fino a sviscerare la psicologia di ogni protagonista e permetterti di ricordarli nel tempo.
Mi trovo quindi a concordare con coloro che hanno reputato questo romanzo troppo lento, ma non per questo mi sento di attribuirgli una valutazione inferiore all’ottimo. E mi fanno veramente ridere quelli che affermano di aver individuato il colpevole già solo dopo cento pagine: questo sarebbe possibile solo tirando a caso tra i numerosi sospettati (così facendo qualcuno ci azzecca senz’altro), e la George è talmente brava da fornire moventi e opportunità a tutte le numerose persone tirate in ballo e non permettere quindi che si appuntino i sospetti solo sui maggiori indiziati.
Adesso ne ho anche un altro della George da leggere, ma per ora lasciamo perdere e passiamo a tutt’altro: da un giallo a un saggio, sempre di un’autrice donna, famosissima a livello mondiale e che mi ha incuriosito da sempre, altrimenti a leggere di fila troppi romanzi dello stesso autore prima o poi ci si stufa.
Pagina uno…
Il Lettore 

venerdì 22 luglio 2016

Il Predatore

Quando qualcuno mi chiede dei libri in prestito non è che ne sia molto contento. Come tutti gli amanti dei libri sono geloso di quelli che ho, e ogni volta che vedo un vuoto negli scaffali sono preso dall’ansia fino a che non ritornerà a essere riempito dal suo occupante. Di libri dati in lettura nel tempo me ne sono spariti diversi e, dal momento che non posso non prestarli, ci mancherebbe altro, ho preso l’abitudine di segnare titolo e destinatario della momentanea cessione in un piccolo taccuino per ricordarmi che fine abbia fatto. Nero, guarda caso.
L’unica persona per la quale non segno i libri che le presto è una mia cara amica che la pensa come me sul fatto dei prestiti e se mai fosse possibile è anche più rigorosa di me sulle restituzioni. Tra lei e me c’è un fitto traffico di passaggi a suon di 4-5 volumi per volta e non c’è mai bisogno di segnarli, perché siamo entrambi sicuri che ritorneranno al legittimo proprietario.
Nell’ultimo scambio mi ha dato un paio di romanzi di Elizabeth George ― di cui sentirete parlare prossimamente su questi schermi ― e questo Il Predatore sul quale mi ha preventivamente avvertito: “Non è all’altezza degli altri, ma in fondo non è malaccio”.
Come amica sarà anche affidabile, ma come lettrice ha una bocca molto più buona della mia.




Non sarà neanche malaccio, ma proprio in fondo in fondo e a patto di riuscire ad arrivarci, cosa che a me non è accaduta. Per poter andare avanti nella lettura di questo primo romanzo di Ingrid Black bisognerebbe tenere a portata di mano infinite dosi di caffeina da iniettarsi ripetutamente per via endovenosa, direttamente senza passare per una tazzina altrimenti non otterrebbero lo scopo desiderato.
Una trama mozzafiato nel susseguirsi dei colpi di scena”, strombazzano in copertina. Ma dove? Una noia deprimente fin dall’inizio e per diverse decine di pagine, utilizzate per descrivere pensieri e conoscenze di questa improbabile detective (un ex agente dell’FBI, cribbio!) che in una plumbea Dublino (ma tu guarda! originale!) tenta di dare la caccia a un serial killer (e come avremmo potuto farne senza?) che uccide una marea di prostitute (si parlava di originalità?) lasciando citazioni bibliche sul luogo del delitto (e dagli con tutte queste cose nuove di pacca!).
La repulsione nei confronti di una protagonista assolutamente stereotipata e per niente credibile ― sempre per restare sull’originale è un ex alcolista e fuma il sigaro ― è superata solo dal modo banale di narrare, questo forse anche per colpa della traduzione, che non ti sprona minimamente nella prosecuzione.
Dopo aver arrancato faticosamente per una settantina di pagine, ieri sera ho deciso che non ne valeva proprio la pena di continuare e l’ho rimesso sullo scaffale dei libri da rendere. Quindi ho addentato uno dei due romanzi della George, e già dopo solo due pagine la differenza abissale nello stile della scrittura è stato come un sorso di limonata fresca in una giornata afosa.
Il Lettore 

martedì 19 luglio 2016

Segnali di fumo

Sapete, a volte penso.
Oh sì sì, anche a me ogni tanto capita di mettere in moto le rotelle e di farle andare alla grande, e mica per tirare fuori banalità del tipo cogito ergo sum, no, le faccio girare tanto che mi può succedere di riflettere sulle riflessioni e trovare che alcune di queste sono addirittura degne di essere immortalate per far sì che non si perdano nel vento, e allora prendo la mia moleskine e ci appunto il concetto, magari tra vent’anni potrà tornare a essermi utile.
Di pensieri appuntati ne ho tanti che ci potrei scrivere un libro. Ma non credo che riuscirei a trovare una casa editrice disposta a pubblicarlo, il nome reale che si nasconde dietro Freereader non è Andrea Camilleri.




Perché al giorno d’oggi quello che conta è il nome sulla copertina del libro, non le cose che ci sono scritte dentro. Così può succedere, e magari è successo davvero in questo modo, che una casa editrice importante con la quale Camilleri di solito non lavora e specializzata in tutt’altro, la UTET, chieda al grande vecchio della letteratura italiana di consentirle di partecipare alla spartizione della torta scatenata dalla presenza del suo nome in copertina:
Andrea, non è che avresti qualcosa anche per noi?
Ho finito tutto, tra Sellerio, Rizzoli e Mondadori mi hanno prosciugato tutti gli appunti.
Però dài, hai accontentato anche altri più piccoli di noi!
Mizzica! Uno mi ha pubblicato anche la lista della spesa di Adelina…
Ti prego…
Fammi un po’ cercare nel cassetto…
Fruga! Fruga!
Guarda, ci ho rimasto solo qualche pensieruccio ameno che ho formulato in tanti anni…
Andata! Firma qui! Come vuoi che lo intitoliamo?
Segnali di fumo non è altro che questo: una raccolta di brevi pensieri che sono passati per la testa del nonagenario autore siciliano ormai considerato alla stregua di Voltaire e Schopenauer, e la cosa che mi fa imbestialire è che solo vent’anni fa, quando lui già aveva scritto molte di queste riflessioni ma ancora non lo conosceva nessuno, se lui stesso avesse chiesto a un editore di pubblicarle gli avrebbero riso in faccia. Come del resto hanno fatto veramente per alcuni dei suoi romanzi prima che l’esplosione mediatica di Montalbano cambiasse le carte in tavola.
Con questo non voglio dire che questa raccolta faccia schifo: è solo che la smaccata operazione commerciale mi infastidisce non poco.
I pensieri pubblicati sono quelli di una persona matura, intelligente, colta e impegnata, pensieri che possono essere passati per la mente a una qualsiasi persona intelligente che abbia saputo rimuginare con spirito critico sugli aspetti della vita di ogni giorno. Con molti di essi si può concordare (come ad esempio con questo: “Bisogna guardare la tv portandosi appresso un paracqua ideale che permetta al nostro cervello di restare asciutto e lucido, di non inzupparsi di tutte le informazioni distorte, contraffatte, alterate, finalizzate che ci vengono propinate.”, che posso riconoscere come mio), e rimanere  sorpresi da altri, si può ammirare l’arguzia di alcuni e lasciar scorrere nel dimenticatoio i più banali, né bisognerebbe sopravvalutare l’aspetto da “perle di saggezza” con cui sotto sotto hanno voluto traghettarli.
In queste lapidarie esternazioni ― ognuna compresa tra le sette e le dieci righe e non di più ― vi si può trovare di tutto: dalle dichiarazioni di appartenenza politica alle rimembranze adolescenziali, da critiche sociali rigorosamente politically correct a considerazioni su svariate attualità sparpagliate in novant’anni di vita, da semplici attestazioni di dati di fatto non corroborati da alcuna considerazione personale a fatti accaduti ad altri e che con Camilleri non c’entrano nulla. E come potrebbero mancare reiterati attacchi a Berlusconi? Ma per par condicio ce n’è anche uno contro Renzi.
C’è proprio di tutto, hanno voluto raschiare il fondo del barile. Mi auguro per lui che Camilleri campi (bene) ancora per molti anni, ma già mi immagino quello che succederà una volta defunto. Facciamo una scommessa? Quanti libri usciranno postumi con la sua firma?
Il Lettore 

domenica 17 luglio 2016

Lo Squizzalibro di domenica 17 luglio 2016

Ho notato che l’ultimo libro che hai letto non t’è piaciuto un granché.
E come fai a saperlo?
Non trovavi niente da dire su un grande come Benni…
Questo vuol dire che leggi le mie recensioni? E quando hai imparato? A leggere, intendo. A parte il fatto che dopo quello ne ho letto ancora un altro e quindi non è l’ultimo, non è che Benni non mi sia piaciuto, è solo che non mi ha “tirato”, ecco.
Ammettilo, che stai diventando un po’ troppo schifiltoso.
E se anche fosse? Ognuno ha le sue preferenze.
Ultimamente mi sembri disfattista.
Caso mai sono realista, non disfattista. E poi fatti gli affari tuoi, una buona volta.
Hai detto che ne hai letto un altro? Ma la recensione non l’hai ancora pubblicata…
La stavo appunto scrivendo, se non mi interrompessi continuamente…
Di che si tratta?




1 – Allora, anche questo libro non è un romanzo. Potrebbe assomigliare a una spudorata operazione commerciale raccolta di quelle cose che ogni tanto ti passano per la testa. Ti è scivolata la mano sulla tastiera? Volevi dire “pensieri”?
2 – In realtà sì, volevo dire proprio Pensieri, ma poi mi sono venuti in mente quelli di Blaise Pascal e non me la sono sentita di accomunare i due volumi. Anche se quelli di Pascal vertono soprattutto sulla religione e qui invece si spazia su quasi ogni tematica. Accidempolina, la “summa” delle conoscenze di quale scrittore?
3 – L’autore è italiano, ma non vi dirò se è uomo o donna né la sua età né quali e quanti libri ha scritto oltre a questo, altrimenti sarebbe troppo facile. Lo sarà per te…
4 – Qualsiasi altro indizio vi farebbe indovinare immediatamente il titolo, per cui vi dirò solo che il libro è molto recente, essendo stato pubblicato solo un paio d’anni fa. No, dicci di più, non ce la faccio ancora…
5 – Ma quante raccolte di pizzini vuoi che ci siano in giro?
Freereader

venerdì 15 luglio 2016

Il bar sotto il mare

Di questo Il bar sotto il mare scopro di aver poco da dire. Sarà perché questo tipo di racconti non mi dicono nulla? Mi trovo a pensare che averlo letto o averlo lasciato sullo scaffale dei libri da leggere sia la stessa cosa, ma in realtà questo non è vero, perché ogni libro letto ti accresce e bla bla bla che razza di banalità sto dicendo dio mio qualche volta mi accorgo di cadere anch’io nella retorica non sia mai.




In realtà qualche racconto di questa seconda raccolta delle “novelle da bar” di Stefano Benni ― la prima è Bar sport del 1976, prima opera di Benni, la seconda questa uscita nel 1987 e la terza Bar sport duemila data alle stampe nel 1997, in pratica ogni dieci anni Benni ha scritto racconti da bar ― me lo ricordo, e ciò significa che in qualche modo mi ha colpito.
Sarà che non è tra i generi di letteratura che preferisco, e per questo non è che ogni volta che lo riprendevo in mano ardevo dalla voglia di terminarlo. Però devo ammettere che quasi tutti i racconti sono simpatici, scritti benissimo, e vi si riscontra tutta la fantasia surreale di Benni in una miriade di sfaccettature. Aridaglie con la retorica.
Bene. Che altro c’è da dire?
Boh, non mi viene altro.
Potreste leggerlo, potrebbe anche piacervi.
Chiudo qui, è meglio.
Il Lettore 

mercoledì 13 luglio 2016

Freereader ha compiuto 3 anni!

E festeggiamo anche noi. Pochi giorni fa Freereader ha compiuto il suo terzo compleanno, e quasi quasi non me ne accorgevo io stesso: il 7 luglio di 3 anni fa questo blog vedeva la luce con il primo post che illustrava le tematiche di cui avevo intenzione di trattare.
E di cui poi ho trattato, viva la coerenza.




Mi sembra ieri, ma da questo ieri ad oggi di post ne ho pubblicati quattrocentocinquanta ― dico, quattrocentocinquanta, più di mille pagine, tre romanzi buoni ― che a farci mente locale significa un mucchio di tempo che avrei potuto dedicare ad altre amenità quali guardare la televisione, passeggiare per il corso o visitare centri commerciali. Peccato che queste cose non mi piacciano più.
Invece ho letto e recensito ben più di trecento libri, contribuendo nel mio piccolo ad alzare le statistiche riguardanti i numeri del Lettore Medio Italiano, che altrimenti sarebbero ancora più deprimenti di quanto non siano.
A questo proposito ricordo quando, qualche anno fa, in occasione dell’apertura di una nuova libreria nella mia città, libreria (patetica) aperta e subito chiusa dopo pochi mesi, alcuni intervistatori improvvisati fermavano i passanti con un sorriso domandando loro: “Quanti libri compri in un anno? A – da 1 a 5, B – da 5 a 10, C – da 10 a 20?” Lo hanno chiesto anche a me. Alla mia risposta: “Tra i 50 e i 150, più o meno”, gli intervistatori mi sono apparsi spaesati, forse a causa del fatto che nel loro questionario non riuscivano a trovare la corrispondente casellina da barrare. Roba da andare in confusione, davvero. Ma torniamo a noi.
Ho commentato quasi duecentocinquanta autori, e dal momento che una buona parte di loro li ho stroncati non è che ciò abbia contribuito a farmi avere nuovi amici. Ma chissenefrega, quanno ce vò ce vò, dicono a Roma. Non ricordo se già vi ho detto che mi sono rotto le palle di ascoltare trasmissioni ― senza fare nomi ― in cui inneggiano alle più solenni porcate senza un briciolo di vergogna e sembra che non passino loro tra le mani libri meno che stupefacenti, quando in realtà la maggior parte della roba che si pubblica oggi è meno che mediocre. Qualcuno lo deve pur dire.
Ma per chi faccio tutto ciò? Ma per voi che mi state leggendo, ovvio. Forse qualcuno si sarà chiesto in quanti siete voi che leggete le cose che scrivo. Ve lo rivelo ora: nei giorni in cui pubblico un post, pubblicizzato solo su FB, questo blog registra in media tra i 30 e i 50 contatti, con punte anche più alte se parlo di un libro o di un autore famosi. Il giorno in cui finora ho avuto il massimo di visite è stato il 2 giugno del 2014 con 151 persone che hanno letto la recensione su Il giorno dei morti di Maurizio de Giovanni (meritava davvero). Non sono i numeri di Grillo o Jovanotti, ma mi accontento.
Pochi ma buoni. Certo, se sparassi cazzate come il padre di Justin Halpern di contatti ne avrei molti di più e forse ci guadagnerei anche qualcosina, ma che vuoi farci, va bene così, sparare cazzate non è mai stato nelle mie corde.
E anzi, a voi pochi vi ringrazio tutti per la fedeltà e l’interesse dimostrato, e state tranquilli, ancora non mi sono stufato di scrivere le cose che penso e continuerò su questa strada senza cambiare di una virgola.
Stay tuned!
Freereader

giovedì 7 luglio 2016

Lezioni di francese

Oltre che un’accanita lettrice, il mio editor è anche un raffinato (e insaziabile) gourmet, ovvero una di quelle persone alle quali risulta più economico regalare un vestito che invitarle a cena fuori, ed è per questo che quando trovo un titolo promettente mi piace riportarle libri che accomunino le due passioni.
Quando, nel solito negozietto di libri usati, ho letto le prime pagine di questo Lezioni di francese, che in realtà non parla di lingue ma di cibo, mi sono sembrate talmente carine che il prenderlo è diventato obbligatorio.




Con tutto ciò che si può dire dei francesi, non si può certo accusarli di non saper mangiare o bere. Di certo io sono d’accordo con l’opinione che su questo tema nel mondo siano secondi solo agli italiani, anche se loro, i francesi, questa cosa non la ammetteranno mai convinti come sono di essere loro, i primi.
In questo libro autobiografico Peter Mayle racconta del suo incontro con l’universo culinario ed enologico francese, di come un inesperto diciannovenne inglese abituato al deserto gastronomico del suo paese dove “…l’abbinamento delle pietanze pareva rigorosamente regolato in base al colore: grigia la carne, grigie le patate, grigie le verdure, grigio il sapore. All’epoca pensavo che la cosa fosse assolutamente normale”, si sia all’improvviso trovato di fronte l’esplosione di colori e di sapori dei cibi francesi e ne sia rimasto talmente conquistato da trasferirsi definitivamente a vivere a sud della Manica. Parecchio, più a sud.
Come molti altri inglesi prima di lui, vuoi per i cibi vuoi per il sole (oh my god, what is quella palla che brilla in cielo? Very piacevole, però…), Mayle ha preso dimora stabile in Provenza da dove è poi partito in frequentissime escursioni fino agli angoli più remoti della Francia alla scoperta dei cibi più gustosi e dei vini più meritevoli, avventure che ha pubblicato in seguito in diversi libri di successo come Un anno in Provenza o Un’ottima annata.
Dalle escargots alla bouillabaisse, dai ristoranti a cinque stelle alle trattorie di campagna, dal bordeaux al calvados, dal pollo “perfetto” al tartufo nero all’infinita varietà di formaggi (be’ sì, riconosciamo pure che in quanto a formaggi ci sono superiori…), il libro stesso è un viaggio attraverso una molteplicità di gusti ai quali noi, in quanto italiani, siamo abituati e soddisfatti, ma che per un inglese abituato al pudding o al fish and chips capisco come possano sembrare concetti del tutto alieni.
Certo non è un libro per tutti: a un vegano prenderebbe un coccolone a ogni capitolo nel leggere della fiera delle vacche incinte messe all’asta o delle tecniche di preparazione delle lumache quando ancora sono vive o del paese nelle cui strade qualsiasi immagine che raffigura animali li rappresenta rigorosamente sorridenti e felici di essere mangiati, per non parlare della tartare, ma che vuoi farci, non si può mica accontentare tutti (l’altra sera ero a cena con un amico vegano e lo vedevo rabbrividire ogni volta che sentiva nominare la parola “burro”… che vita grama la loro!).
Comunque, seppur carino, Lezioni di francese presenta anche dei difetti, il principale dei quali è quello che dopo le prime pagine spumeggianti il tono si appiattisce un pochino e in definitiva il tutto diventa una enumerazione di occasioni conviviali nelle quali l’autore va nel tal posto e mangia le tali cose. Il che alla lunga stanca, e anche se non mancano comunque spunti divertenti e particolarità curiose la narrazione diventa un po’ monotona tanto da far pensare a una seduta di slow food. Una soluzione possibile per non farselo apparire noioso è adattarsi quindi a una slow reading, e leggerne un capitolo ogni quindici giorni trovandosi di fronte nuovi cibi ad ogni ripresa.
Ho terminato la lettura di questa escursione gastronomica poco fa, avvolto dall’odore del mio ragù bianco che stava finendo di cuocere mentre le tagliatelle aspettavano solo il bollore dell’acqua.
I francesi saranno anche dei maestri,  ma vuoi mettere?
Il Lettore buongustaio

lunedì 4 luglio 2016

Vittime

Vittime è il mio thriller più terrificante” si parla addosso lo stesso Jonathan Kellerman in copertina. Ma dove? Maddeché? Tutt’al più potranno rimanerne “terrificati” coloro che non hanno mai letto un thriller in vita loro e vivono la loro vita tra coniglietti batuffolosi e pettirossi cinguettanti. E qualche giornalistucolo rincara la dose pubblicitaria sul retro di copertina paragonando l’autore a Thomas Harris o Jeffrey Deaver. Ma quando mai! A parte che per quanto mi riguarda paragonare qualcuno a Deaver non significa certo fargli un complimento, opinione personale, ma perlomeno Harris ha scritto un libro che ha costituito un punto fermo nella storia dei thriller.
Questo al massimo potrebbe essere utile come ferma porta.




Il grande Alfred Hitchcock riusciva a terrorizzarti solo con lo stridere di una porta che si apriva; Ridley Scott ha fatto intravedere il suo terrificante alieno per la prima volta solo in poche fugaci apparizioni; perfino Koji Suzuki è riuscito a fare andare nel panico il lettore al solo squillare del telefono.
Quando l’autore non va a scuola dai maestri. Della serie: mettiamoci qualche sbudellamento per fare più colpo. Con la “agghiacciante” serie di omicidi di questo romanzo, omicidi in cui le vittime vengono uccise e poi aperte fino a tirarne fuori tutti gli intestini per poi formarci una ghirlanda intorno alla testa del malcapitato, Jonathan Kellerman raggiunge il solo scopo che alla quarta volta che succede ne hai piene le balle e cominci a sperare che l’assassino si decida a prendere di mira gli investigatori così almeno la facciamo finita una volta per tutte.
In questo romanzo Kellerman ricopia la stessa struttura e lo stesso stile che aveva utilizzato in L’inganno: gli stessi investigatori Milo Sturgis e Alex Delaware vanno alla ricerca di questo buontempone che riduce le vittime nel modo che ho detto, solo che contrariamente al libro precedente, in questo caso è Sturgis che non fa una benemerita minchia, mentre l’apporto di Delaware consiste in una serie infinita di masturbazioni mentali che miracolo!, alla fine si rivelano tutte esatte. Ma guarda un po’. Come azzeccare tutti i numeri al superenalotto.
Un esempio terra terra: un testimone dice che l’assassino veste un cappotto. Sarà freddo, penserete. Ma siamo a Los Angeles, dove non fa mai freddo. Che cosa vi viene in mente allora? Vorrà nascondere un qualche attrezzo, vorrà mimetizzare la propria silhouette, avrà bisogno di tasche capienti, ci avrà cucito dentro un giubbotto antiproiettile, di ragioni per portare un cappotto dove fa caldo ce ne sono una miriade. No, dopo infinite masturbazioni (mentali) Delaware decide che l’unico motivo per portare un cappotto deve essere che l’assassino sente patologicamente freddo per un disturbo alla tiroide (!), e indirizza le indagini in quella direzione. Ma su che film? Ora io non sono un laureato in medicina, ed è possibile che per un medico questa sia l’unica ragione possibile per portare un cappotto quando fa caldo, ma lasciatemene dubitare un pochino.
Inoltre, a parte queste (numerose) perle di assenza di plausibilità, se nell’altro romanzo l’imperniare tutte le indagini su continui dialoghi con un’infinità di persone era riuscito all’autore piuttosto bene, il replicare la tecnica trasforma questo caso in una noia infinita, e quando arrivi alla risoluzione ne sei veramente contento non tanto perché scoprono il serial killer, quanto perché proprio non ne puoi più.
Per non parlare dei parecchi refusi che ho incontrato nel testo ad indicare una cura editoriale pari a zero e qualche passaggio “strano” che ti importuna ma non sai individuarne esattamente il perché, cosa che può dipendere da una momentanea pazzia dell’autore, da una  traduzione inesatta o vattelapesca.
Come quando Kellerman descrive una donna come “ossuta e rubiconda”. Ora, io ci ho provato parecchio a cercare di immaginarmi una donna allo stesso tempo ossuta e rubiconda, ma i miei sforzi non hanno raggiunto un risultato accettabile.
Va bene. Kellerman: parentesi chiusa, passiamo ad altro.
Il Lettore 

venerdì 1 luglio 2016

Le regine dell’Avana

Girellavo per casa cercando qualcosa da leggere e tra i libri del mio editor ho scovato questa raccolta di racconti che Miguel Barnet ha dedicato alle donne del suo paese: Cuba. Essendo le donne un argomento che mi ha da sempre interessato, il volumetto mi ha incuriosito e ho voluto rendermi conto di cosa si trattasse.
La prossima volta che mi prenderà la voglia di guardare su quei scaffali sarà meglio invece che me ne vada a fare una passeggiata.




E sì che a rigor di logica l’autore non è nemmeno sudamericano, ma si vede che ha soggiornato parecchio a sud di Panama.
Le regine dell’Avana è una di quelle raccolte di raccontini scialbe e inutili delle quali ti dimentichi immediatamente subito dopo finito di leggerle. Un po’ come quella di Camilleri che ho recensito qualche settimana fa. Tant’è vero che ora che mi sto accingendo a cercare di spiegarne il perché non mi torna in mente nessuna delle donne raccontate dall’autore che, secondo lui, avrebbero dovuto rappresentare il simbolo della femminitudine di Cuba e dell’Avana in particolare.
Va be’, a fare uno sforzo ricordo che ha parlato della solita puttana, della solita strega coinvolta con i riti vuduistici, della solita bigotta con la casa piena di santini, della solita moglie che resta fedele al marito lontano e… ah, sì, come poteva mancare l’altra puttana che in realtà è un omaccione con tanto di attributo in mezzo alle gambe? Travestito sì, ma a detta sua molto femminile. E molto innamorato/a dell’uomo che lo/la sfrutta miserabilmente, sennò non avrebbe fatto colpo.
Basta, le altre due o tre non me le ricordo proprio. Sì, perché in tutto sono solo 7-8 raccontini, scritti fra l’altro nell’arco di trent’anni e quindi del tutto slegati, che a parer mio sono stati alla fine pubblicati da qualcuno solo perché l’autore dovrebbe essere una persona importante, perlomeno nel suo paese. Dice che sia un ambasciatore all’Onu, eccheccavolo, e anche poeta, minchia, c’è di che rimanerne colpiti.
Fatto sta che il librettino è insulso, e se qualcuno ha voluto che nascesse con lo scopo di esaltare il fascino di Cuba, ciò che ha raggiunto è stato solo incrementare le passeggiate sul lungomare di Senigallia.
Il Lettore