venerdì 29 dicembre 2017

Macerie prime

Per Natale hanno regalato questo libro a mio figlio.
A me Zerocalcare non è mai piaciuto. Tutte le volte che ho provato a leggerlo non sono riuscito ad andare oltre la seconda pagina. Vuoi per i disegni veramente brutti, secondo me, vuoi perché non mi interessano le tematiche di cui tratta, vuoi per le sceneggiature abborracciate e il modo confuso di raccontare le storie, l’ho sempre considerato illeggibile.
E questo dell’autore di fumetti che oggi come oggi è il più venduto sulla piazza.
Ma da molti (giovani) è osannato, come anche altri della sua risma. Gipi, tanto per nominarne uno. Per me questi autori innalzati al rango di mostri sacri del fumetto non sono altro che un inno al dilettantismo e all’”arruffoneria”, portati in palma di mano da dilettanti e arruffoni che elevano i loro difetti al rango di pregi per poterne parlare bene. Un autore disegna male? Allora va elogiato il suo tratto ingenuo, reale e pieno di sentimento. Non sa scrivere una sceneggiatura? È fatta in questo modo allo scopo di riflettere il malessere della società odierna, le ansie della gioventù. Guarda che bravo.
Ma vaffanculo.
L’essere realista è un mio difetto: per me sono solo degli scalzacani.
Ma vendono, e allora forse hanno ragione loro. Questo mondo mi piace sempre meno.
Però può anche essere che sia io che mi sbaglio, mi sono detto. Sarà colpa mia, non riuscirò a capire il messaggio, sforziamoci, cosa mi costa riprovare un’altra volta? Per obiettività, per completezza, per riuscire a formulare un giudizio organico; leggilo, dai, forse può essere che ti piaccia anche, ce lo hai già in casa…
Va bene, riproviamo.




Non sono riuscito a proseguire oltre la seconda pagina.
Il Lettore fumettaro (ma selettivo)

martedì 26 dicembre 2017

Lo scultore

Buoni i cappelletti? All’appuntamento con questa squisitezza io tengo molto: una delle poche tradizioni positive del Natale, ma per quanto buoni mi piace mangiarli esclusivamente in questa occasione. Chi li prepara in qualsiasi altro periodo dell’anno dovrebbe essere obbligato a mangiare cocomero ghiacciato per l’Epifania. Ma torniamo a noi.
Scott McCloud è un disegnatore statunitense conosciuto soprattutto per il suo ciclo di saggi in cui spiega ai profani il mondo del fumetto: Fare il Fumetto, Capire il Fumetto e Reinventare il Fumetto sono i suoi tre titoli diventati famosi in tutto il mondo e ormai indispensabili (oltre che pressoché introvabili) per chiunque intenda avvicinarsi a questo ambiente. Da questi saggi io stesso ho preso molte idee per i corsi che tengo di Scrittura creativa e Sceneggiatura del fumetto, per cui a questo autore sono parecchio affezionato.
Oddìo, dovrò mica pagargli delle royalties?




Questo Lo Scultore è il primo romanzo a fumetti che ha pubblicato: un’opera corposa e impegnativa dai contenuti profondi.
David è un giovane scultore di belle speranze, figlio di uno scrittore ignorato dal pubblico e di una pittrice incompresa, non realizzato a sua volta, senza un soldo e sull’orlo della depressione. In una rivisitazione del Faust incontra un suo prozio da tempo deceduto che gli offre la possibilità di poter realizzare qualsiasi creazione egli voglia plasmando ogni materiale per mezzo delle sole mani. Il prezzo di tale opportunità è che, se accetta, avrà solo 200 giorni di tempo per scolpire, dopodiché morirà.
David accetta questo patto surreale per poter fare in modo che il suo nome resti impresso per sempre nella storia dell’Arte e dell’Umanità, ma le cose non andranno nel modo in cui lui aveva sperato: critici e galleristi sembra che non apprezzino comunque le sue creazioni, e il raggiungere un vasto pubblico per soddisfare il suo forte desiderio di diventare famoso e di lasciare un segno indelebile resta un traguardo anelato ma irraggiungibile.



Per complicare le cose David si innamora e intreccia una relazione con una ragazza alla quale non può confessare il segreto e la conclusione tragica oltre che inevitabile del patto che ha stipulato. Da qui scaturiscono riflessioni sull’amore, sulla solitudine e sulle sofferenze del vivere che rendono il romanzo profondo ma parecchio triste. È ovvio che non vi dico come va a finire ma credetemi, sono stato anch’io per quasi cinquecento pagine con l’ansia di arrivare in fondo per saperlo, e McCloud non ha deluso le mie aspettative.
La sceneggiatura è del tutto in linea con la trama e con l’esperienza dell’autore: molto variata sia nella composizione delle tavole che nella forma delle vignette, con rallentamenti della lettura causati da numerosi primi e primissimi piani con cui McCloud ha voluto che il lettore indugiasse nei dettagli, e la scelta dei colori dominanti, azzurro e marrone, è coerente con la psicologia di fondo.


Il tratto è quello caratteristico di McCloud: pulito e circa a metà strada tra il puramente iconico e il realistico, con personaggi ben caratterizzati e facilmente riconoscibili che lasciano il posto a “sfoghi d’autore” quando il disegnatore scioglie le redini della fantasia e raffigura in due dimensioni le sculture realizzate da David. Che cos’è l’arte? Chi è che decide cosa possa o non possa essere “arte”? Se una cosa piace a una sola persona, può essere chiamata arte o deve essere apprezzata da molti?
Questi i temi su cui si interroga l’artista, oltre alla morte, all’amore, alla passione e all’euforia del vivere in un romanzo che, sia pure tristissimo e deprimente come contenuti, mi ha lasciato pienamente soddisfatto al termine del volume.
Come dovrebbe essere per molte opere d’arte.
Il Lettore fumettaro

domenica 24 dicembre 2017

Lo Squizzalibro di domenica 24 dicembre 2017

È Natale! È Natale! Gli angioletti sbatton l’ale! Sull’altare un cherubino… basta, mi fermo qui perché quando mi viene in mente questa tiritera vado sempre a finire nel blasfemo. E invece i soliti luoghi comuni sostengono che a Natale non si devono dire parolacce, che dobbiamo essere tutti buoni, fare del bene, perdonare i torti subìti e, insomma, dare prova concreta di essere politicamente corretti.
Che a me invece questo fatto sta proprio sui non va proprio giù, e più invecchio e peggio è: il mio livello di tolleranza nei confronti del prossimo e di cosa possa pensare è in continuo calando e raggiunge valori vicini ad uno zero tondo sulla scala Kelvin proprio in questi periodi nei quali le convenzioni sociali la fanno da padrone.
Vogliamoci bene! Ma perché? Se mi stai sul cazzo tutto l’anno, come faccio a fare finta di niente e ad amarti sotto Natale? Non ci riesco proprio a essere così ipocrita. Se durante tutti gli altri mesi riusciamo a ignorarci anche quando ci sfioriamo per strada, per quale motivo sotto Natale dovremmo pure sbaciucchiarci?
È per questo motivo che in questo periodo cerco di uscire il meno possibile, faccio quei pochissimi regali di cui non posso proprio fare a meno e me ne sto a casa o tuttalpiù nel bosco dove più freddo è e meglio è, così agli altri passa la voglia di fare passeggiate e non rischio di incontrare qualcuno.
Misantropia? Di sicuro può essere che stia crescendo anche questa di pari passo con l’età e con le ernie del disco, e se per queste ultime sono solamente io a soffrirne, mi dispiace un po’ che la prima possa essere fastidiosa anche per quelli che sono obbligati a starmi intorno.
Ma in fondo in fondo, mica poi così tanto.
Passiamo agli indizi che è meglio.




1 – Il libro di cui indovinare il titolo in questa vigilia di Natale è un fumetto. O meglio, al giorno d’oggi va di moda dire una graphic novel, un romanzo a fumetti (qualcuno questo sintagma lo coniuga al maschile, un graphic novel, un romanzo grafico, ma dal momento che in italiano la parola “novella” è femminile, come traduzione preferisco usare questa invece che “romanzo”).
2 – L’autore è statunitense e famosissimo. Perlomeno nell’ambiente del fumetto. Come romanziere famoso non lo è, dal momento che questo di cui stiamo parlando è il primo romanzo a fumetti che ha pubblicato.
3 – Primo sì, ma dopo una lunga carriera di fumettista ai vertici, nella quale ha dato alle stampe soprattutto saggi a fumetti che sono diventati, oltre che famosi, veri e propri testi di studio in tutto il mondo sulla materia nella quale è esperto. Non vi dico qual è questa materia che altrimenti sarebbe troppo facile. Per darvi un indizio, pensate alla metanarrativa.
4 – I temi trattati in questo romanzo a fumetti sono i rapporti umani, l’introspezione psicologica, le difficoltà di comunicazione e l’arte. Come si stabilisce il contenuto artistico di un qualcosa? Chi è che sancisce se una determinata opera contiene o meno una valenza artistica da prendere in considerazione?
5 – Come opera prima il nostro eroe c’è andato giù pesante: quasi 500 pagine di graphic novel, a colori, un volumone cartonato che non sfigurerebbe in qualsiasi libreria e che sicuramente ha tenuto impegnato l’autore per diversi anni.
Va be’, auguri.
Freereader

giovedì 21 dicembre 2017

Piccolo consuntivo di fine anno

Buongiorno a tutti, buon Natale, buon Capodanno, buone Feste eccetera eccetera. Pieghiamoci a queste anacronistiche convenzioni, facciamoci gli auguri e facciamo finta che vada tutto bene. Del resto anche il nostro premier non si esime dal ricordarci in ogni telegiornale che la situazione è buona, siamo usciti dalla crisi, l’occupazione è in aumento e pensate positivo.
Ma dove? Ma che film ha visto?
Capisco come il dire “siamo alla frutta” da parte di un primo ministro possa essere un pochino demoralizzante, ma per lo meno stai zitto che fai più bella figura.




In realtà questo non vuole essere un consuntivo del blog come ho già fatto in un paio di occasioni: non ho nessuna voglia di andare a ripescare nel già pubblicato per ricavarne delle statistiche. Mi sono accorto però che questo che state leggendo è il seicentesimo (udite udite: 600!) post che ho elargito all’etere, e mi è venuto spontaneo fare qualche considerazione.
Chi mi segue dall’inizio, vale a dire da quattro anni e mezzo a questa parte, si è letto più o meno 1300 pagine di recensioni ed esternazioni varie del sottoscritto, cioè tante da farne ben più di un più che corposo romanzo del quale tanto, se avessi scritto quello, non chiamandomi Bruno Vespa e non essendo amico di Fabio Fazio, non sarebbe fregato un cazzo a nessuno.
Perché oggi va così: se non sei amico di qualcuno importante i tuoi libri cadono subito nel dimenticatoio. Contano più le tue amicizie, importanti, s’intende, che la tua capacità di scrittura, la tua bravura. Viviamo in un’epoca in cui impera la mediocrità, prospera il dilettantismo e domina l’ipocrisia; in cui sono poche le persone che sono in grado di dare un giudizio vero su una qualsiasi opera e di quelle viene tenuto conto e non di coloro che berciano più forte o sono già conosciuti magari per tutt’altre ragioni. Tra le quali non rientra il saper giudicare se una cosa è bella o brutta. Oggi chiunque, per il fatto che si è impegnato cinque minuti in una qualsiasi creazione, pretende che gli venga riconosciuto il (presunto) valore di ciò che ha fatto, e ovviamente non ha neanche la capacità di valutarselo da solo. Dannoso per tutti, ma soprattutto per il protagonista.
Un esempio terra terra: ho amiche le cui “poesie” vengono osannate su faccialibro da stormi di galline starnazzanti che ne vengono tanto colpite da strapparsi i capelli e innalzare la “poetessa” di turno al rango di un dio. Quando in realtà ciò che la “poetessa” scrive non sono altro che quattro parole messe insieme liberamente perché “suonano” bene senza rispettare il minimo criterio di appartenenza alla categoria della poesia. Il problema di queste lodi indiscriminate è poi che la ”poetessa” di turno crede davvero di essere brava e continua, insiste, persevera, si autocompiace per meriti infondati, fino a perdere la capacità di migliorarsi perché non sa più distinguere i giudizi veri da quelli del pollaio e anzi, l’incombente saccenteria la porta a non prendere in considerazione a priori i giudizi negativi sulle sue poesie. Che invece non potrebbero farle altro che bene. Fra parentesi, ogni riferimento a persone realmente esistenti, qualora qualcuno ve ne riscontrasse, è puramente intenzionale.
Bah. La pianto qui, perché mi sto accorgendo che il contenuto di questo seicentesimo post sta diventando deprimente, e dal momento che in questi giorni sto leggendo due libri che rappresentano il non plus ultra della depressione (sia pure in tematiche del tutto differenti fra loro), so già che anche le prossime pubblicazioni non porteranno ventate di allegria su questo blog.
Speriamo meglio nel settecentesimo.
Freereader

lunedì 18 dicembre 2017

La teoria del tutto

Dedichiamoci a qualcosa di serio. Di Stephen Hawking già possiedo e a suo tempo avevo letto con interesse Dal Big Bang ai buchi neri, e questo La Teoria del Tutto è un po’ la summa del suo pensiero.
Così come è la summa del pensiero della stragrande maggioranza degli attuali astrofisici, nonché dei fisici teorici e dei fisici esperti in meccanica quantistica. E perché no, anche dei maggiori astrologi, oroscopisti, teologi e di qualche altro ciarlatano di quelli che infestano le trasmissioni televisive di divulgazione scientifica. Compendio sì, ma un po’ risicato.
Perché? Perché il più famoso fisico al momento vivente ammette tranquillamente in questo libro (dal sottotitolo esplicativo Origine e destino dell’universo), oltre ai propri errori, che i passi avanti compiuti da quando aveva scritto il libro precedente sono stati ben pochi. Praticamente zero. Come è nato il mondo? Come si evolverà? Quasi tutto è possibile, fatevi pure avanti, si accettano scommesse.




In questo trattato divulgativo Hawking ripercorre le teorie che aveva già espresso in Dal Big Bang ai buchi neri, completandole appena un pochetto, solo in via teorica e sulla base di ipotesi per nulla suffragate da fatti riscontrati sperimentalmente. Approfondisce di poco il concetto di singolarità e ribadisce il dubbio se l’universo abbia dei confini o meno, ma in sostanza non apporta nessuna nuova idea che possa far luce sulle problematiche che da sempre ci affliggono.
In pratica non dice nulla di nuovo, ma lo dice molto bene. Con una chiarezza che è difficile poter applicare a concetti così astrusi come le variazioni di densità all’interno di un buco nero o le fluttuazioni del continuum spaziotemporale. Qualcuno cinico come me potrebbe attribuire questa limpidezza di esposizione all’obbligata lentezza di scrittura di Hawking, solo dieci parole al minuto, che gli permette di riflettere a fondo su tutto ciò che afferma. Fatto sta che il libro si legge benissimo, nonostante i concetti difficili, e permette di lanciare uno sguardo all’interno di una delle menti più acute dei nostri tempi.
Il problema è che, come avevo detto in qualche altro post, oltre la sua ideazione, sulla fisica quantistica se ne sa quasi nulla di più, e sull’esistenza o meno di un Dio creatore di tutte le cose ognuno è libero di pensarla come meglio crede. Tant’è vero che lo stesso autore preferisce non sbilanciarsi lasciando spalancata ogni porta.
Nonostante l’identico titolo, questo libro non deve essere confuso con il film che ne è stato liberamente tratto e che è imperniato invece sulla biografia di Stephen Hawking, e per il quale il bravissimo Eddie Remayne ha ottenuto l’Oscar del 2015 come miglior attore protagonista. Comunque molto bello anche il film, nel quale il modello inglese ha saputo rendere l’inabilità di Hawking in modo stupefacente.
Il Lettore 

giovedì 14 dicembre 2017

Le tre del mattino

Ed ecco a voi l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio. Appena uscito e già schizzato in testa alle classifiche di vendita, a ribadire il concetto che se l’autore è conosciuto si compra a scatola chiusa. Purtroppo succede la stessa cosa pure con Fabio Volo (l’assenza del grassetto è intenzionale), e anche con Bruno Vespa.
Perlomeno in questo caso il romanzo merita veramente.



La trama: per ragioni mediche un adolescente, figlio di genitori separati e sofferente di attacchi epilettici, deve sottoporsi alla prova di restare senza dormire per due notti di fila, e questo test costringe il ragazzo a trascorrere più di 48 ore in compagnia forzata con il proprio padre che lui conosce quasi per nulla.
Ne emergono la riscoperta del rapporto padre/figlio insieme alla potenzialità di ciò che questo può offrire, e lo stupore di fronte alla rivelazione dei fatti reali che qualsiasi figlio ignora della vita dei propri genitori. Un romanzo atipico, di formazione e di scoperta, ambientato in una Marsiglia pressoché sconosciuta ai più se non fosse che tutti abbiamo sentito dire come sia una città pericolosa e dalla quale stare alla larga.
È un romanzo scritto benissimo, con stile semplice ed essenziale, e la lettura è scorrevolissima anche se ricca di citazioni e di aneddoti: “Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino”; questa dalla quale è tratto il titolo è di Francis Scott Fitgerald, ma Carofiglio non si risparmia anche altri nomi illustri o meno, sempre però inseriti ad hoc, in modo da non stonare affatto.
Un romanzo coinvolgente e ricco di tenerezza, di quella che fa piacere provare attraverso fatti e azioni, non di quella stucchevole spiattellata lì perché oggi va tanto di moda. I pochi personaggi di contorno sono ben caratterizzati e ben descritte le paure e le insicurezze adolescenziali.
Quello che mi fa imbestialire invece sono le idiozie del tutto fuori luogo, come l’affermare da parte di alcuni commentatori che questo romanzo non è piaciuto (ai coglioni autori dei commenti) perché l’autore non lo ha concluso raccontando come prosegue il rapporto tra i genitori del ragazzo (che ricordo sono separati, e ovviamente lo restano).
Come dire che Moby Dick fa schifo perché non c’è scritto che fine fa Anna Karenina.
M si sa: la madre degli imbecilli…
Il Lettore 

lunedì 11 dicembre 2017

Maigret e il signor Charles

Facciamo un salto temporale in avanti di quarant’anni e piombiamo nel bel mezzo del 1972.
Richard Nixon si è appena dimesso; gli inglesi ammazzano tranquillamente i manifestanti irlandesi; non abbiamo ancora la benché minima premonizione dell’imminente uscita di The Dark Side of The Moon, ma per molte persone Nursery Crime ha già costituito e rimarrà per sempre una tappa fondamentale nella musica contemporanea. Mi fermo qui, tranquilli.
Nel 1972 Georges Simenon decide che si è stufato di scrivere, pubblica questo Maigret e il signor Charles e posa la matita in modo definitivo. Da lì alla data della sua morte si limiterà a dettare su nastro magnetico poche altre cose. Dopo più di 200 libri e dopo essere diventato ricco e famoso, resta difficile poter criticare una scelta di questo genere.
A parte il fatto che si sarebbe stufato chiunque, dopo aver utilizzato 75 volte lo stesso protagonista.




Se il primo libro con Maigret non mi era piaciuto (vedi), in questo ho trovato una differenza sostanziale. Sembra che siano stati scritti da due autori diversi. Lo stile è sempre asciutto, senza quegli estetismi letterari che sembrano tanto fichi a chi vuole vincere qualche premio, ma le frasi si susseguono in costruzioni meglio architettate e più coerenti. Quanto contano quarant’anni d’esperienza! Sembra che Simenon si sia reso conto che anche il Lettore ha qualche esigenza e si sia piegato ad accontentarlo.
La lettura è molto più piacevole, fluente e senza intoppi né di ritmo né di interpretazione, e questo romanzo fa veramente piacere leggerlo. Ben caratterizzati protagonisti e comprimari, e anche l’uso delle ellissi è sufficientemente intuitivo da non lasciare dubbi irrisolti. 
La consequenzialità nella trama è chiara e soddisfacente, e finalmente ho apprezzato il modo di condurre le indagini di Maigret, attento e pignolo, e la sua estraneità sia alla burocrazia che agli ambienti politici e sociali di facciata: in quest’ultimo appuntamento gli viene addirittura proposto di assumere la direzione dell’intero corpo di polizia parigino, di diventare il Capo in testa, e lui rifiuta tranquillamente preferendo continuare a impartire ordini pratici ai suoi sottoposti e ad aver a che fare con lo squisito bollito di sua moglie.
A differenza dell’altro che ho letto in questi giorni, questo romanzo mi è piaciuto. Ma non del tutto: non mi è andato giù il finale, con l’assassino che spiattella tutto agli inquirenti appena viene scoperto nel più puro stile dei telefilm di Jessica Fletcher (che peraltro Simenon non poteva conoscere perché era ancora di là da venire).
Va be’, dai, qualche difetto ce lo dovevo trovare. Fatto sta che a differenza di tanti altri protagonisti seriali, Maigret non mi ha mai affascinato, fin da quei primi romanzi che ho letto tanti anni fa, e continua a rimanermi indifferente. Per quanto io sia rimasto incantato da Parigi, il suo commissario più famoso non mi ha mai preso. Problema mio, da parte sua Georges Simenon ce l’ha messa tutta e l’esperienza di quarant’anni di scrittura si sente eccome.
Di sicuro, ai romanzi con Maigret continuo a preferire l’interpretazione che ne ha dato Gino Cervi.
Il Lettore 

giovedì 7 dicembre 2017

Maigret e il Lettone

Come cambiano le abitudini.
Ricordo che quando stavo poco bene da piccolo — le classiche influenze adolescenziali — passavo quei tre o quattro giorni a letto senza fare altro che leggere. Oggi il mio pargolo adolescente li trascorre davanti alla televisione o attaccato al telefono. Come cambiano i tempi.
Una volta che stavo male mia madre mi riportò tre o quattro Oscar Mondadori scritti da un certo Georges Simenon con protagonista tale Maigret. Li ho ancora. Da lettore onnivoro quale sono sempre stato ricordo che li lessi subito, ma non mi piacquero un gran che e non hanno lasciato nessuna traccia. Per ricordare quali fossero dovrei addirittura andarne a ricercare i titoli in uno degli scaffali alti della mia libreria.
Ora, a distanza di più di quarant’anni (di più, di più…), ho deciso che Simenon meritava un’altra chance. Non era possibile liquidare così superficialmente uno degli scrittori più amati e prolifici del Novecento senza analizzarlo in maniera un poco più critica e consapevole.
Mi sono procurato allora il primo romanzo in cui Jules Maigret appare come protagonista e che risale a 1929, e l’ultimo, dato alle stampe nel 1972, il settantacinquesimo con protagonista il celebre Commissario.
Li ho letti uno dopo l’altro e li ho confrontati criticamente. Le risposte sono in questo post e nel prossimo. Cosa ho scoperto? Che così come sono passati quei quarantatre anni per me, sono passati anche per Georges Simenon.




Il titolo originale di questo libro è Pietr le Letton (Pietro il Lettone) e come prima pubblicazione risale al 1931 anche se Simenon lo ha scritto nel ’29. È il primo romanzo in cui compare il Commissario Maigret come protagonista e del quale l’autore tratteggia una sia pur minima caratterizzazione. Con il personaggio Maigret erano già stati pubblicati altri romanzi, ma nei quali lui appariva solo come comprimario, e questo è il primo in cui è lui il protagonista principale e ne vengono descritti fattezze e modi di fare. Non che Georges Simenon si sia sprecato: grosso, burbero, basta. Alla faccia delle caratterizzazioni dettagliate.
 “La presenza di Maigret al Majestic aveva inevitabilmente qualcosa di ostile. Era come un blocco di granito che l'ambiente rifiutava di assimilare”, e ancora: “Ma la struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi. Aveva in particolare un modo tutto suo di piazzarsi in un posto che era talora risultato sgradevole persino a molti colleghi”.
Basta, tutto qui. E non si spreca neanche con gli altri personaggi: poco dal punto di vista descrittivo e forse un po’ più da quello psicologico. Anzi, è tutto il romanzo che viene trattato curando più che altro la psicologia dei personaggi. L’azione è poca e confusa, raccontata in modo palesemente inesperto fino al punto di rendere la lettura per nulla piacevole. Un po’ si sente, dopo ottant’anni di giallisti che hanno affinato le tecniche, l’arretratezza del contesto; un po’ è Simenon stesso che ha voluto rendere particolare il suo commissario facendogli affrontare le situazioni e gli antagonisti di petto, facendogli visitare personalmente i luoghi d’indagine in quello che diventerà, con i successivi romanzi, una caratteristica peculiare del personaggio.
A giudicare dal successo che poi ha riscosso, in effetti l’autore ci ha azzeccato, ma in questo primo romanzo secondo me il fascino di Maigret non si percepisce proprio, rovinato da una scrittura abborracciata e in molti passaggi addirittura senza senso. Nel suo complesso il romanzo a me è sembrato bruttarello, e se mi fossi limitato a questo non mi sarebbe venuta voglia di leggerne altri dello stesso autore.
Il plot di usare due gemelli per confondere le cose non era nuovo nemmeno per l’epoca in cui il libro è stato scritto, e manca del tutto di ricercatezza nella collocazione delle ellissi, tanto da rendere molti passaggi caotici proprio perché non si capisce cosa voglia dire e cosa facciano, e per quale ragione, i personaggi. Uno stile grezzo, bisognoso di consistenti aggiustamenti del tiro. E non mi è piaciuto nemmeno il finale: troppo rapido e senza ragioni motivate e plausibili.
Con i successivi romanzi sarà migliorato?
Il resto alla prossima puntata.
Il Lettore

martedì 5 dicembre 2017

Sale – Una biografia

In questo libro di Mark Kurlanski il protagonista è il sale.
Il semplice sale, il cloruro di sodio, o NaCl, per dirla in modo scientifico. Un semplice atomo di Sodio e un semplice atomo di Cloro che si uniscono a formare una delle molecole più utili in assoluto alla sopravvivenza dell’Uomo.
Che cosa sarebbe una frittura di pesce senza sale? Sì, va be’, anche una goccia di limone non guasterebbe, ma per adesso accontentiamoci.




Fin dall’alba dell’uomo il sale è stato fondamentale per noi uomini. Probabilmente è una cosa che abbiamo imparato guardando gli animali che leccavano le rocce. Qualche nostro antenato se ne sarà chiesto il perché e avrà provato a farlo anche lui. Sorpresa! Che buon sapore in bocca! Questa cosa ha una certa ragion d’essere, fammici studiare sopra.
Lo studio ha ben presto coinvolto tutto il mondo conosciuto: il sale è diventato un prodotto basilare, una merce di scambio ricercata, una moneta corrente. Oltre che per dare sapore ai cibi si scoprì presto che era indispensabile per la conservazione degli stessi (così come dei cadaveri), e questo ne fece un minerale prezioso.
Gli uomini si sono ingegnati a ideare i più svariati metodi per ottenerlo: dall’impiantare saline alle prospezioni per individuare miniere di salgemma, ed esercitare il controllo sul mercato del sale diventò fin dalla preistoria uno strumento politico per arricchire popoli e tenere soggiogate altre nazioni. A causa del sale si scatenarono guerre, furono fomentate ribellioni, si promossero rivoluzioni, e tutto il mondo ne fu interessato.
Mark Kurlanski ripercorre appunto la storia di tutto il mondo esplorandolo partendo dalla prospettiva del sale. Dall’antica Cina alle Americhe passando per la Mesopotamia, per l’antico Egitto, per l’intera Europa fino all’Oceania (e tralasciando il solo Antartide), Kurlanski ripercorre tutta la storia del mondo senza dimenticare di inserire spesso modi e ricette in cui il sale viene utilizzato, sia per i cibi che per conservare qualche mummia a tempo indefinito.
Libro molto interessante ma con appena appena troppe informazioni, che dovresti avere una capacità di memoria sopra le righe per poterne ritenere perlomeno una parte.
Certo, essendo nato e cresciuto nel bel mezzo del Mediterraneo, in effetti non è che mi sia di immediata utilità il venire a conoscenza di tutte le tecniche groenlandesi della salatura delle aringhe, ma tutto serve ad accrescere il concetto di cultura generale, no?
Il Lettore 

giovedì 30 novembre 2017

Libri da ardere

Un’altra delusione: doppia, perché avevo sentito dire dal mio editor che questo romanzo le era piaciuto molto (testuale: “ma come le verranno in mente queste idee?”), e già nello scoprire che in realtà non è un romanzo c’ero rimasto male, e poi perché sono restato con l’interrogativo di come, conoscendo i suoi gusti, sia potuto piacere a lei. Per me, ha letto qualcos’altro e ha confuso i titoli, ma sshhhh!, che resti tra noi…
Il fatto è che non è nemmeno un romanzo, ma è scritto con il taglio della pièce teatrale, e può anche darsi che sia stato rappresentato su qualche palcoscenico, ma non ho trovato notizie in merito.




Fatto sta che a me non è piaciuto e l’ho trovato alquanto inconsistente e noioso. Più che altro un esercizio (masturbazione) intellettuale nel quale Amélie Nothomb si è potuta sfogare in colti dialoghi incentrati sul valore della letteratura e sui sentimenti. Dalla Nothomb non me lo sarei aspettato. E qui concordo con lo stupore della mia editor.
I protagonisti sono tre umani e una stufa.
Nel corso di una guerra non ben specificata (forse l’ultima guerra mondiale?), un Professore di letteratura, uno Studente e la sua Ragazza si trovano a soffrire il freddo nell’appartamento del Professore. Avendo esaurito tutti i tipi di combustibile a loro disposizione sono costretti a bruciare i libri per scaldarsi, mentre al di fuori i cecchini non aspettano altro che qualcuno esca a fare una passeggiatina per poter fare un po’ di tiro al bersaglio.
L’opera è costituita essenzialmente dai dialoghi fra le tre persone. Dapprima incentrati sui rapporti interpersonali, con il Professore che seduce la Ragazza e quindi le conseguenti, infinite recriminazioni della stessa e dello Studente cornificato, senza tralasciare gli approfondimenti psicologici di tutti i vari aspetti della questione, poi si passa al soggetto: quali libri bruciare?, e da qui diventa preponderante il tema del perché un autore sia più meritevole di un altro.
Fatto sta che (ovviamente) i tre non giungono ad alcuna soluzione soddisfacente e alla fine decidono che non ne vale proprio la pena di continuare a vivere e si danno in pasto ai cecchini.
Bene. Era ora. Con le loro chiacchiere sterili mi avevano veramente rotto le palle.
Il Lettore perplesso

lunedì 27 novembre 2017

Drive-in — La trilogia

Trilogia significa tre romanzi: questo per dire che per leggerli tutti e tre ci ho impiegato un po’ più di una settimana. Ed è stata una vera faticaccia, ma non perché non l’abbia apprezzata.
Joe Lansdale ha scritto il primo romanzo nel 1988 e gli ha fatto seguire subito dopo la continuazione, poi ha aspettato quasi vent’anni e nel 2005 ha fatto uscire il terzo volume della serie. Forse doveva disintossicarsi da se stesso dopo aver ideato una roba del genere.
O almeno penso, perché di sicuro questi tre romanzi sono tra i più ributtanti che io abbia mai letto. Deboli di cuore e di stomaco: astenetevi dal prenderli in mano!
Ma il fatto che nel loro complesso siano diventati un cult book, un’icona della cultura pop, avrà pure una ragion d’essere, no?




John Steinbeck diceva: “Il Texas è uno stato mentale”, e questo concetto è stato talmente amato da Lansdale da scandagliarlo fino a fargli raggiungere proprio il fondo dell’abisso.
Ma lasciamo parlare i fatti: tre amici decidono di passare una serata all’Orbit, un Drive-in del Texas, per farsi una scorpacciata di film horror e popcorn. A un certo momento una cometa rossastra sorvola le arene dove si proiettano i films e… bum! Da qui in avanti fino al termine dei tre romanzi è un incubo continuo, il peggiore che potreste immaginare.
L’intero Drive-in viene incapsulato in una bolla di buio dalla quale non si può uscire: chi prova a toccarne la parete si scioglie letteralmente, e ben presto l’intera comunità intrappolata diviene preda dei più prepotenti alla ricerca forsennata di cibo, di bevande e di qualcuno (o qualcosa) con cui fare sesso. La gente impazzisce del tutto e Lansdale dà libero sfogo alla fantasia nel descrivere omicidi che più allucinanti non si può, stupri fantasiosi, mutazioni repellenti, mutilazioni agghiaccianti, episodi di cannibalismo particolareggiati e immaginosi, geniali tentativi per cercare di cavarsela, entità aliene, tirannosauri, pesci giganteschi, mari di merda e nastri di pellicole cinematografiche antropofaghe.
Tutti diventano folli, impazziti del tutto nel cercare di capacitarsi dell’accaduto e di trovarne una qualsiasi ragione logica. Tatuaggi che prendono vita e si trasformano in mostri, novelli dittatori, ammazzamenti continui in una rivisitazione tragicomica del classico: che cosa succederebbe se chiudessi un gruppo di persone in una stanza e non le facessi più uscire?
Il tutto in una alquanto schifosetta metafora (quanto azzeccata non so) dell’attuale società statunitense, frutto di una fantasia smisurata e al di là del reale. Metafore sono sicuramente alcuni dei personaggi secondari, come il Re del Popcorn, due uomini fusi insieme in un’unica entità che distribuiscono robaccia da mangiare (metafora del consumismo); Popalong Cassidy, un ragazzo che al posto della testa ha un televisore che irradia programmi (metafora della dipendenza televisiva) e il gigantesco Pesce Gatto che vuole mangiare balene (metafora della corsa alla sopraffazione).
Lo stile è costituito dalla scrittura sopraffina (in questo caso cruda che più cruda non si può) di Joe R. Lansdale e dalla sua ironia: uno stile diretto ed esplicito oltre che estremamente violento, e anche le scene più vomitevoli sono descritte nei più minimi particolari (confesso che anch’io ho avuto qualche problemino nel leggere di un personaggio che pensa al modo migliore di squartare il cadavere di una bella ragazza per poi mangiarselo. Dopo averla violentata. Stando nudo mentre si trastulla con la propria proboscide). Ma fa anche sorridere per le situazioni paradossali.
Ribadisco il concetto: non mi piace affatto il genere horror, né da leggere né da guardare al cinema, ma non ho potuto fare a meno di terminare questi tre libri perché sono scritti davvero bene. Lansdale è veramente un maestro, un asso nel capire e nel mostrare tutto ciò che di peggio possa offrire l’essere umano.
Il Lettore (leggermente schifato)

giovedì 23 novembre 2017

Negli occhi di chi guarda

L’ultimo del nostro Marco Malvaldi è un altro “libero”, cioè un romanzo non legato ai suoi protagonisti seriali che sarebbero i vecchietti del Bar Lume. Un po’ come aveva fatto in Odore di chiuso e Argento vivo.
Non del tutto “libero”, comunque, perché in realtà l’autore vi riprende due dei personaggi che aveva già utilizzato per le parti principali in Milioni di milioni, cioè il genetista Piergiorgio Pazzi, attraverso cui Malvaldi può sfogarsi a inserire le sue nozioni di chimica, e Margherita Castelli, sagace archivista nonché splendida donna— della serie una bella gnocca non guasta mai — che assumono ancora una volta un ruolo fondamentale nella risoluzione della vicenda.
Nonché per aggiungere un tocco sentimentale al tutto.




Stavolta i protagonisti sono i gemelli Cavalcanti, Zeno e Alfredo, i proprietari di una tenuta nobiliare sulla costa toscana, contorniati da una schiera di comprimari che si trova invischiata in una torbida vicenda con tanto di problematiche compravendite, opere d’arte scomparse e tragiche ammazzatine, per dirla alla Camilleri. Piergiorgio e Margherita chiariranno il tutto prima di una romantica gitarella all’isola d’Elba.
Un giallo leggero e piacevole, condito dal solito umorismo schietto di Malvaldi e dalle sue conoscenze scientifiche, con una trama intelligente anche se non originalissima e la sua scrittura pulita e arguta che fa sempre piacere leggere.
Una cosa che ho apprezzato di meno è l’insistere in maniera marcata con la tecnica del ricominciare un paragrafo o un capitolo con la parola con cui termina il precedente, inserendola in un contesto diverso. Avevo già spiegato questa tecnica nella recensione al romanzo Argento vivo (la potete trovare qui), e quindi non ci insisterò sopra. È sì una cosa simpatica, ma andrebbe usata con moderazione e non inserita in quasi tutte le ripartenze come invece fa Malvaldi soprattutto nella prima parte del libro.
Il toscano ne approfitta anche per magnificare le bellezze costiere della sua regione e riportarne alla luce i segreti nascosti: trovare una tomba etrusca è sempre affascinante, anche se lo leggi in un romanzo. Piacerebbe anche a me scoprire una tomba etrusca all’interno della mia proprietà, anche se poi non sarebbe così facile guadagnarci sopra qualcosina. Ma in compenso saresti subissato dalle rotture di coglioni da parte dello Stato.
No, meglio divertirsi con un buon romanzo e lasciare le tombe dove stanno. In pace, sottoterra.
Il Lettore

lunedì 20 novembre 2017

I migliori di noi

Stavolta Andrea Scanzi non mi è piaciuto.
E ne sono rimasto deluso, perché Scanzi è un giornalista che apprezzo molto sia per l’humour che per lo stile, ma questo romanzo se lo poteva anche risparmiare.




Soprattutto per il fatto che la trama è assolutamente inconsistente, e per di più con un finale aperto che più aperto non si può. Sì, l’ho capito che erano proprio queste le intenzioni dell’autore, ma pur avendolo capito non ne sono rimasto per nulla soddisfatto.
In pratica è un libro che si regge solo sulle battute di un pur talentuoso “cazzaro” quale è l’autore. Scritto molto bene sia come ritmo che come scelta della terminologia, è costituito di una battuta dietro l’altra, di situazioni paradossali che fanno ridere ma non bastano a dare corpo a un romanzo vero e proprio. Alcune scene veramente esilaranti, ma basta, finisce qui e al termine ti lascia poco più di nulla.
Per dire, il personaggio che mi è piaciuto di più è un cane, Bergie, la femmina leonberger di uno dei protagonisti.
Oltretutto sembra che il libro glielo abbia sponsorizzato la pro-loco di Arezzo, da come l’autore inneggia in modo sfacciato alla sua toponomastica e ai vari locali che i personaggi hanno modo di frequentare in continuazione. Un po’ troppo.
Di sicuro Andrea Scanzi riesce molto meglio come giornalista e come opinionista che come autore di romanzi.
Il Lettore

venerdì 17 novembre 2017

L’ultimo passo di tango

E torniamo a Napoli. Purtroppo. E ai libri di racconti. Sigh.
È scontato che prima o poi ogni autore di successo se ne esca con un libro di racconti. I racconti vendono solo se hai già raggiunto la fama, ma tutti gli autori prima o poi ne scrivono. Perché è più divertente e meno impegnativo che scrivere un romanzo. Anche se scrivere un buon racconto è molto ma molto più difficile che scrivere un romanzo, ma gli ingenui di questo non se ne rendono conto.
E i racconti scritti da sconosciuti non li compra nessuno.
Comunque, gli autori famosi i racconti prima li tengono dentro al cassetto, e forse li pubblicano singolarmente in riviste o antologie, poi, quando hanno già raggiunto la gloria, si possono permettere di far uscire una raccolta sicuri che andrà a ruba. Quando la raccolta non gliela commissiona direttamente l’editore per incrementare gli introiti.
Ho il sospetto che in questo caso sia andata così. Adesso vi spiego perché.




Questo L’ultimo passo di tango — Tutti i racconti è una corposa raccolta dell’intera produzione di racconti di Maurizio De Giovanni.
Tutti scritti dopo il 2007, però, se è vera l’informazione che ci ha fornito di persona lo stesso autore nel corso di una conferenza in cui lui stesso ci ha informato che prima de Il senso del dolore non aveva scritto altro e non aveva nulla di nulla nel cassetto (vedi qui).

Quindi le cose sono due: o questi racconti li ha scritti nel corso di dieci anni dopo il primo successo prevedendo che prima o poi avrebbe dovuto pubblicare una raccolta di racconti, o li ha scritti in fretta e furia pressato da un editore avido quanto basta.
La seconda ipotesi mi pare più verosimile, un po’ perché nella raccolta compaiono pezzi già pubblicati anche singolarmente, come L’omicidio Carosino, vedi qui, il racconto da cui è nata la figura del Commissario Ricciardi, un po’ perché tono e argomento di molti racconti sono ispirati o alla cronaca nera recente o alla storia (tira in ballo persino Hitler), quasi come se l’autore avesse cercato disperatamente dappertutto dei buoni spunti per le trame.
Bene, il mio cinismo è soddisfatto, ora posso parlare degli aspetti positivi.
Non c’è dubbio che sono scritti bene, benissimo, oserei dire, con lo stile preciso al quale De Giovanni ha abituato i suoi lettori, saturo di sentimentalismo e profondità di introspezione.
I contenuti vanno a scavare all’interno dei recessi più nascosti dell’animo umano, e se c’è un aspetto che gli si può appuntare è quello che la maggior parte dei racconti sono tristissimi, angoscianti: genitori che uccidono i figli, figli che ammazzano i genitori, amanti che massacrano amanti, sembra che non vi sia fine all’abiezione più truculenta, tanto che viene da pensare che cosa ci sia nella mente di un autore che scrive in continuazione di queste tragedie.
Se non l’avessimo ascoltato di persona nel corso di quella conferenza, nella quale si è mostrato davvero allegro e simpatico (nonostante sia napoletano, NdF), per ciò che scrive verrebbe da dargli forma come uno dei componenti della famiglia Addams.
Intervallati da pochissimi pezzi il cui finale è di poco meno truce degli altri, si susseguono racconti uno più angosciante dell’altro, fino a portarti sull’orlo della depressione. Poi ti dici che va be’, dai, sono solo racconti e scritti bene, peraltro, ma quando l’hai finito tiri un sospiro di sollievo.
Come lettura ne sei soddisfatto, ma per la successiva vai alla ricerca di qualcosa decisamente di più allegro.
Il Lettore

mercoledì 15 novembre 2017

Bello, elegante e con la fede al dito

Questo è un perfetto esempio di come una sola parola (per essere pignoli due) può rovinare un romanzo.
Mi è bastato leggere un’espressione, una sola, per chiudere il volume, spedirlo nel dimenticatoio e cominciare a leggere qualcos’altro, senza alcun tipo di rimpianto. Oltretutto non ero arrivato nemmeno a pagina dieci.
E non è che non mi piaccia Andrea Vitali, anzi, alcuni suoi libri li ho apprezzati (anche se non tutti e qualche difettuccio ce l’ha anche lui), ma in questo caso ha inserito nel romanzo una scempiaggine che non sopporto proprio, e questo è bastato per dargli l’addio.
Sì, sono permalosetto, nevrotico e pignolo, e allora?




Anzi, mi ero anche apprestato a cominciare questo Bello, elegante e con la fede al dito con molto tempo a disposizione e stato d’animo adeguatamente tranquillo (ero in treno e del tutto in orario, figuratevi) e avevo appena cominciato a delineare il protagonista quando Vitali se ne esce con questo periodo:
Durante la notte un vento forte e gelido, una sfacciata diagonale d’aria, aveva scavalcato le Prealpi e scalciato via nuvole, foschia, umidità e quant’altro.”
Quant’altro? Quant’altro???!!!
Ma siamo pazzi?
“Quant’altro” è un’espressione che odio anche in un discorso parlato, figuriamoci in una frase scritta. In un romanzo, poi, secondo me è del tutto inammissibile, oltre che inconcepibile.
Un’espressione tipica del politichese sinistrorso di scarsa fantasia e dialettica carente, adatta a quei politicanti che cercano di sbrigarsela lasciando che a faticare siano le meningi dell’uditore, o ancora peggio del lettore. Se vi capiterà sentir dire “quant’altro” da qualcuno, perlomeno avrete inquadrato subito il soggetto. E non vi sbaglierete.
Uno scrittore ha l’obbligo di descrivere al meglio le situazioni, di creare emozioni, non cercare di cavarsela alla meno peggio con “quant’altro”. Mi ripugna anche scriverla io stesso, questa scempiaggine.
Che poi, dopo nuvole, foschia e umidità, cosa cazzo vuoi che ci sia ancora da scalciare via dall’aria ad opera del vento? Polvere? Acquerugiola? Nevischio? Uccelli defunti? Smog? Nebbia? Cartacce? Foglie morte? Palloncini sfuggiti di mano ai bambini? Bastava scriverlo.
Basta, ad Andrea Vitali ho inflitto la morte letteraria. Sarà dura che lo rivedrete su queste pagine.
Il Lettore incazzereccio

lunedì 13 novembre 2017

Passeggeri notturni

Un altro libro di racconti di Gianrico Carofiglio, che oltre ai romanzi non è nuovo nemmeno a questa corrente letteraria.
Poi, sul connubio scrittore/libro di racconti parlerò più diffusamente nel post relativo alla prossima raccolta di racconti che recensirò, che ho già letto e sulla quale sto già scrivendo. Abbiate pazienza.




In questo caso Carofiglio ha sfornato una trentina di raccontini di due o tre pagine ciascuno.
Brani molto sintetici, aneddoti, racconti veri e propri intervallati da situazioni reali di vita vissuta, da molti dei quali si raccoglie una sorta di “messaggio” dal significato profondo.
Alcuni sanno tanto di “racconto zen”: minimalisti e criptici, come appunto i racconti zen dei quali ho già letto parecchie raccolte e sui quali bisogna riflettere con una sorta di pensiero laterale. Quanto a tirarci fuori i piedi è un altro discorso. Qual è il suono di una mano sola?
Altri sono tratti da incontri con gente reale. Ma attenzione, l’attributo “reale” ha un connotato un po’ particolare, perché Carofiglio non è che incontra gente comune come me e voi o come la signora che va a fare la spesa e trascina la sporta alla fermata dell’autobus, no, lui incontra solo gente famosa — della quale si guarda bene dal fare i nomi — a ricevimenti più o meno “in”: giornalisti di testate celebri, politici sulla cresta delle aule di giustiz dell’onda, gente insomma che noi incontreremmo solo se frequentassimo abitualmente Via Veneto o Montecitorio.
Da questi incontri trae perle di saggezza (o di infamità, a seconda dei punti di vista) e ce le trasmette in questo libro che odora un po’ (ma solo un poco) di operazione commerciale (e dagli!) in quanto i racconti, singolarmente, erano già stati pubblicati in precedenza su una rivista. Rivista sulla quale probabilmente avevano un senso maggiore, e una maggiore attualità, che non raccolti tutti insieme a posteriori.
Sono pezzi comunque soddisfacenti, redatti con una piacevolissima scrittura dallo stile semplice e chiaro, e stringati quanto basta da lasciare un buon sapore in bocca senza appesantire.
Il Lettore 

venerdì 10 novembre 2017

L’uomo della tundra

Alla Biblioteca delle Nuvole insieme a Gourmet avevo preso anche un altro volume di fumetti: L’uomo della tundra, dello stesso autore Jiro Taniguchi, stavolta in versione solitaria.
Come solitari sono i suoi protagonisti.




L’uomo della tundra è una raccolta di sei racconti a fumetti incentrati sul rapporto tra l'uomo e una natura per lo più selvaggia. Tutti meno uno, che è prevalentemente autobiografico e narra di un giovane fumettista agli esordi della sua carriera alle prese con le difficoltà dell’andare a vivere da soli.
Nel rapporto con la natura Jiro Taniguchi sembra riesca a dare il meglio di sé, dipingendo personaggi che restano a lungo nella coscienza. Tratteggiandoli con la stessa delicatezza di cui ha dato prova Akira Kurosawa nel dirigere lo splendido Dersu Uzala, film a cui sicuramente Taniguchi si è ispirato per sceneggiare i suoi fumetti.
Dal ricercatore subacqueo che prova a scoprire e a raggiungere il mitico cimitero delle balene, al vecchio cacciatore che intende vendicarsi del gigantesco orso che ha ucciso suo figlio, all’esploratore nel quale si può riconoscere un giovane Jack London nel suo peregrinare in Alaska, la natura rimane sempre la vera protagonista di questo albo. Incontaminata, spietata, misteriosa, comandata da rigide regole crudeli.
Sul tratto e la sceneggiatura non mi dilungherò, visto che ne avevo già parlato in Gourmet e non c’è nulla di diverso. Fatto sta che Taniguchi è piacevole da leggere sia nelle rappresentazioni delle distese di una Tokio sterminata brulicante di grattacieli che nei panorami naturali. La successione delle scene è sempre pacata in una sceneggiatura ordinata e regolare e le storie sono profonde e interessanti, che vuoi di più?
Il Lettore