lunedì 30 settembre 2013

Lo scontro quotidiano

In Francia si leggono fumetti molto più che in Italia. In Francia i fumetti trovano posto nelle librerie di tutti insieme alla letteratura, fianco a fianco, non come qui da noi dove vengono relegati nell’angolo più nascosto della camera dei figli o in cantina o in soffitta. Non voglio dire con questo che i Francesi sono più civili di noi, quanto che trovo alquanto criticabile che qui da noi si metta in bella mostra l’ultimo libro di Bruno Vespa (Moccia, Carrisi, Colò, James, eccetera eccetera…) e si nasconda per stupido pudore una graphic novel (oddìo! Metti via, presto! Chissà cosa potrebbero pensare gli ospiti se vedessero che leggiamo fumetti!).
Una graphic novel non è altro che un romanzo disegnato con l’aiuto della tecnica del fumetto, e in genere si differenzia dal fumetto cosiddetto popolare per la maggior lunghezza, per il più denso spessore narrativo dei contenuti e per l’approfondita caratterizzazione psicologica dei personaggi. Uno scrittore che sappia anche disegnare potrebbe rappresentare un suo testo attraverso questa forma d’arte, risparmiandosi ad esempio l’onere di scrivere descrizioni di ambientazioni o azioni dinamiche semplicemente disegnandole.

Fosse facile…


Sotto forma di graphic novel sono state realizzate opere che non sfigurerebbero nelle migliori biblioteche o tra gli elenchi riportanti il meglio della letteratura, opere incredibilmente piacevoli da leggere, opere che ti dovrebbero far sentire orgoglioso di metterle in mostra.
Lo scontro quotidiano è una di queste opere.
E chi l’ha mai sentito nominare? Direte. Ecco, appunto.
Emmanuel (Manu) Larcenet, quarantaquattrenne autore francese già vincitore di diversi premi, con quest’opera in due volumi ha voluto rappresentare la quotidianità con tutti i suoi drammi e le sue futilità, utilizzando personaggi del tutto normali e inserendoli in storie che bene o male viviamo tutti, dalle più leggere alle più gioiose alle più drammatiche. Problemi di convivenza, di lavoro, di crisi personali e sociali, di scelte politiche, di amore, di rapporti, di nascite e di decessi. La vita, insomma.
E Larcenet riesce a dipanare la vita dei protagonisti alternandola tra gioie e drammi, tra leggerezza e profondità, con spunti di intensa riflessione in uno stile semplice che utilizza elementi narrativi apparentemente fragili per costruire mondi interiori complessi.


Larcenet scrive la storia di gente comune attraverso episodi di vita che possono essere più o meno significativi, a volte ironici, a volte commoventi e riflessivi, e dipinge un quadro di vita che potrà sembrare a chi banale a chi profondo, ma sempre reale, in una Francia in cui alcuni dei suoi abitanti sono sconvolti dai cambiamenti politici, e lo fa con un tratto più iconico che realistico, più vicino alle strisce comiche che ad una narrazione seria, più caricaturale che espressionistico; eppure da quel tratto semplice emergono i sentimenti con una forza che il lettore non si aspetterebbe: a Larcenet basta tratteggiare un occhio con una linea tremula, vuoto, senza alcunché a formare iride e pupilla, per trasmettere la tempesta di emozioni che riempie colui che sta dietro a quell’occhio, basta sfumarlo per far capire l’annullamento mentale di una crisi di panico.
La tavola è una gabbia di 3 vignette su 4 righe per pagina, che in totale possono scendere a 10 o salire a 15 quadri, ma non esplode mai in una splash page e resta sempre schematica a caratterizzare con rigore il passare del tempo e la ripetitività della routine quotidiana. Larcenet si limita ad alternare l’uso del colore, mai acceso, sempre sottotono, all’uso di tavole interamente in bianco e nero nelle quali la presenza isolata della didascalia scandisce i pensieri del protagonista, conferendo un tono riflessivo sottolineato dai disegni delle fotografie scattate dal protagonista principale.
In definitiva i due libri mettono a nudo tutti i problemi che nel mondo odierno si presentano ai giovani adulti: incertezze sentimentali e lavorative, angosce esistenziali, dilemmi morali, ansie più o meno motivate, paure più o meno fondate, mostrandole in modo tenero e comprensivo, con un occhio di riguardo all’inserimento di aspetti umoristici che attenuano l’impatto dei drammi che tutti ci troviamo di fronte nella vita.
Leggetelo, vedrete che cambierete idea sul modo in cui andrebbero considerati i fumetti.
Il Lettore

domenica 29 settembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 29 settembre

Nella puntata dello Squizzalibro di domenica scorsa un lettore anonimo ha osservato che sarebbe bastato inserire su Google “storico italiano deceduto nel 2000” per avere il nome di Carlo Cipolla e di conseguenza indovinare facilmente il libro oggetto del quiz.
Ah sì? Come diceva Albertone… me provochi?
Messaggio per l’anonimo criticante: vediamo come te la cavi questa settimana…
1 – Domani parlerò di un fumetto, un gran bel fumetto.
2 – Sarebbe meglio dire bande dessinée, visto che l’autore è francese.
3 – L’opera è stata pubblicata in due volumi.
4 – Il protagonista principale è quasi sempre in cura da uno psicologo per le crisi di panico che lo assalgono quando meno se lo aspetta.

5 – La trama parla… della vita stessa.


Cosa cerchi in Google?
Vita? Francese? Panico? Fumetto? Psicologo? Tutte insieme?
Naturalmente sto scherzando.
A parte che utilizzare Google è ampiamente ammesso ai sensi della norma n. 5.4.3.2.1 del 29/09/2013 del regolamento del presente Squizzalibro, altrimenti la cosa si farebbe veramente troppo difficile!
Via con le risposte…
Freereader

venerdì 27 settembre 2013

Il sussurro delle ombre

Quando si ha a che fare con un professionista il piacere di leggere ti fa perdonare anche qualche impercettibile stonatura. E Jan-Philipp Sendker ha dimostrato di essere un vero professionista della scrittura. Già mi ero gustato parecchio il suo L’arte di ascoltare i battiti del cuore, ed ora con questo Il sussurro delle ombre ha confermato che la sua bravura non si limita solamente al giornalismo.


Qualche impercettibile stonatura, dicevo, nella reale consistenza di talune delle motivazioni che muovono i protagonisti, ma al di là di questo il romanzo dipinge alcuni affreschi sia di stati d’animo che di situazioni sociali che ti fanno sprofondare nell’emozione.
Ho usato il verbo “dipingere” perché da vero professionista della scrittura Sendker le cose te le mostra davvero, non si limita a raccontarle: ti fa passare attraverso tutte le sfumature di dolore che prova un padre quando gli muore l’unico figlio; ti fa letteralmente respirare l’atmosfera di angoscia, di rassegnazione e sospetto instillata da un regime totalitario; ti conduce per mano nell’analizzare le problematiche degli immani cambiamenti sociali attraverso cui è transitata la Cina negli ultimi decenni; ti fa capire le difficoltà e gli amari risvolti dell’adeguarsi alle nuove leggi di mercato che governano l’economia globale; ti fa apprezzare i diversi gradi attraverso i quali può progredire un’amicizia.
Il tutto inserito all’interno di una storia d’amore che può essere considerata anche originale, in una Hong Kong frenetica e segnata in modo indelebile dal cambiamento.
Stile e ritmo sono adeguati a personaggi e narrazione, e se a volte capita anche che l’autore diluisca la narrazione indugiando su particolari e sentimenti, resta comunque una struttura solida con numerosi passaggi sui quali soffermarsi a riflettere.
Il Lettore

mercoledì 25 settembre 2013

Il tribunale delle anime

Neanche a farlo apposta, poco tempo dopo aver letto Il suggeritore mi è stato prestato - di sicuro io non l’avrei mai comperato - quest’altro lavoro di Donato Carrisi, pubblicizzato come una conferma delle doti romanzesche dell’autore dopo il successo dell’esordio.

Be’, la conferma c’è stata veramente. A quello che avevo già scritto.


In questo secondo thriller Carrisi prosegue con l’inverosimile, pigiando al massimo l’acceleratore sulla ricerca di continui colpi di scena per stupire il lettore, colpi di scena che quando diventano troppi non riescono a ottenere altro che annoiarti. In più ho trovato il libro sconclusionato, confusionario, zeppo di salti temporali caotici e in fondo noioso quando invece cerca di sorprenderti.
Anche in questo caso, come nel precedente, le azioni dei protagonisti mancano di motivazioni valide e quello che sembra essere il dono dell’ubiquità di cui è dotato uno dei personaggi principali, visto che è sempre presente nel posto giusto al momento giusto, fa veramente sorridere.
Come tematica, quella dei “Penitenzieri” sarebbe anche stata interessante – mi ha ricordato un poco la setta degli “Illuminati” di Dan Brown – come intriganti sarebbero potute essere le visite nelle buie chiese di Roma – ancora una volta mi hanno fatto venire in mente “Angeli e demoni” di Dan Brown – o i rapporti con tele dipinte da artisti famosi – toh, come nel “Codice da Vinci” di Dan Brown – e le risoluzioni degli enigmi in cui si imbatte continuamente il protagonista – ora  ho rammentato come li risolveva il Robert Langdon di Dan Brown – solo che in questo caso gli enigmi sono risolti più per improvvisa illuminazione divina che per ragionamento deduttivo.
In fondo il libro mi è parso veramente modesto sia per stile che per contenuti, e anche questo conferma la mia convinzione di sospettare sempre della pubblicità tessuta intorno ad un titolo, che il più delle volte si rivela come una pura operazione commerciale per un prodotto oltretutto scadente, tesa solamente a prendere per i fondelli un popolo di lettori che non se lo merita proprio.
Il Lettore

lunedì 23 settembre 2013

Allegro ma non troppo

Leggere il Contrappunto del tabacco e dello zucchero mi ha instillato una prepotente voglia di rigustarmi per l’ennesima volta il saggio di Carlo M. Cipolla (la M. del nome non significa nulla, è solo un’aggiunta del Cipolla per distinguersi da altri ricercatori omonimi), uno di quei libricini il cui valore è inversamente proporzionale allo spazio che occupano sullo scaffale.


Allegro ma non troppo è uno di quei gioiellini assolutamente indispensabili in ogni libreria, da riprendere in mano ciclicamente per ricordare a noi stessi come la stupidità umana sia una delle più grandi tragedie di ogni epoca.
Carlo Cipolla, uno studioso specializzato in storia dell’economia deceduto nel 2000, ha insegnato in Italia e negli Stati Uniti e, forse per depurarsi del rigore e della serietà che caratterizzavano i suoi studi, ha redatto questo breve doppio saggio che è stato subito considerato una perla: intelligentemente ironico, divertente e capace di far riflettere.
Nella prima trattazione, dal titolo Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo, Cipolla ripercorre la storia dei secoli bui imperniando il comportamento dei governi e delle società tutte sul soddisfacimento del bisogno di pepe, trasformandola in una sottile ma spassosa parodia storica. Ed è un peccato che questa parodia l’abbia interrotta alla fine del Medioevo, sarebbe stato interessante vederla protratta fino ai giorni nostri.
Ma è il secondo saggio che lascia ancora più sorpresi e con la bocca increspata in un continuo sorriso: in Le leggi fondamentali della stupidità umana l’autore riversa le sue conoscenze scientifiche nel dipingere comicamente una scherzosa teoria generale sulla stupidità dalla quale emerge come questa purtroppo sia impossibile da sradicare.
Come è successo con Le tre leggi della robotica di Isaac Asimov, Le cinque leggi fondamentali della stupidità umana elaborate da Cipolla sono state riconosciute ben presto come dotate di un valore universale e chiunque scriva sull’argomento non può fare a meno di riferirsi ad esse.
Le cinque leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo M. Cipolla:
1.       Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
2.      La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa.
3.     Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita.
4.      Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.
5.      La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Corollario: Lo stupido è più pericoloso del bandito.

L’autore disegna inoltre un grafico con il quale suddivide l’umanità in quattro categorie (intelligenti, sprovveduti, banditi e stupidi) basate sulle conseguenze delle proprie azioni, dimostrando con valide e spassose argomentazioni l’esattezza della sua quinta legge.
Una lettura veloce, divertente e intelligentemente didattica, da non farsela mancare nella collezione di casa.
Il Lettore

domenica 22 settembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 22 settembre

Eccoci pronti con il consueto quiz domenicale. Dopo tre recensioni negative di fila mi è preso lo scrupolo di cominciare la prossima settimana con qualcosa di buono.
Via con gli indizi:
1 – Questa volta si tratta di un saggio.
2 – Anzi, di ben due saggi nello stesso volumetto.
3 – L’autore è uno storico italiano scomparso nel 2000.
4 – Con gli argomenti dei due saggi abbiamo a che fare tutti i giorni (purtroppo).

5 – Visto che sarà almeno la sesta o la settima volta che mi concedo il piacere di leggere questo libro, è ovvio che ne parlerò molto bene.

Sotto con le risposte!
Freereader

venerdì 20 settembre 2013

La libreria del buon romanzo

A proposito di buoni romanzi e dei romanzi che parlano di romanzi, ovvero: come rovinare un’idea magnifica.


Il libro di Laurence Cossé è imperniato su un plot davvero affascinante: i due protagonisti decidono di aprire a Parigi una libreria nella quale saranno venduti esclusivamente buoni romanzi, e a decidere se un romanzo appartiene o meno a questa categoria sarà un comitato di scrittori rigorosamente anonimi.  Quindi fuori tutto ciò che non è romanzo, e soprattutto fuori i romanzi cattivi. La libreria ha un immediato successo di pubblico e vendite e diventa un luogo nel quale si ritrovano tutti coloro che amano la buona letteratura, certi di non restare mai delusi nelle loro aspettative. Ma ben presto cominciano i boicottaggi anche sotto forma di vere e proprie azioni criminose che danno al romanzo il tono del giallo, e non manca neppure la vena color rosa oltre alla continua dichiarazione d’amore dell’autrice nei confronti dei buoni romanzi.
L’idea è veramente geniale, peccato però che l’autrice ben presto si trasformi in una ragioniera logorroica analizzando tutti, ma dico tutti, i risvolti burocratico-commercial-finanziari dell’operazione, a scapito della fluidità di lettura e della tensione narrativa innescata dall’aspetto giallo. Alternate a parti in cui emerge prepotente l’amore per i libri e per i romanzi meritevoli si incontrano lentissime successioni di accadimenti superflui, riflessioni pedanti, continui problemi personali dei personaggi e plateali atti d’accusa contro l’egemonia commerciale di un complesso sistema di case editrici votate più al guadagno che alla letteratura, che hanno dissacrato la cultura riducendola ad una demagogia volta a spingere l’immissione sul mercato di opere senza alcun merito se non quello di essere capaci di fare cassetta. Come dice uno dei personaggi, è la paccottiglia che ti fa fare i soldi, non le opere che meritano. E se questo è un fenomeno che anche qui in Italia sta andando avanti da parecchi anni ed è lodevole che venga denunciato, resta il fatto che in questo modo l’autrice ha reso noioso un romanzo che avrebbe potuto essere veramente valido.
In poche parole, dopo un inizio interessante l’opera diventa veramente troppo lunga e lenta, l’aspetto giallo passa in secondo piano ed è risolto in maniera arruffata, la storia d’amore appare come minimo poco verosimile e un po’ patetica e le polemiche librarie, peraltro giustissime, sono scritte in un tono più da articolo di quotidiano che di romanzo. Ma è possibile anche che la traduzione abbia fatto la sua parte nel peggiorarlo.
Peccato, perché le prime pagine sono intriganti e creano delle aspettative che purtroppo con il proseguire della lettura vengono deluse.
Ciò che resta, e di cui comunque va dato merito all’autrice, sono l’atto d’accusa nei confronti del sistema editoriale e l’esternazione dell’amore per la buona letteratura.
Il Lettore

mercoledì 18 settembre 2013

L’ottava vita

Zzzzzzzzzzz…

Zzzzzzzzzzz…


Zzzzzzzzzzz…
Zzzzzzzzzzz…
Eh? Come? Ah, già… stavo leggendo e sono arrivato a pagina quaran… zzzzzzzzz…
Basta, un’altra dimostrazione di come non si debba dare ascolto alla televisione né si debbano comperare libri scritti da persone famose per le loro apparizioni sul piccolo schermo.
Io amo gli animali e i gatti in particolare e amo leggere saggi e romanzi che ne parlano, ma questo libro di Licia Colò è talmente infarcito di banalità che risulta fin dall’inizio noioso al punto da diventare ben presto illeggibile. Un’ovvietà dopo l’altra. Ho la fortuna di avere amici, più di uno e per niente famosi, che hanno saputo scrivere sugli animali molto ma molto meglio di quanto ha fatto la Colò. Non mi va nemmeno di sprecarci altre parole.
Da archiviare e dimenticare.
Il Lettore

lunedì 16 settembre 2013

Un karma pesante

Brava Sonia! Complimenti, ci hai azzeccato in pieno.
Era da parecchio che volevo leggere uno dei romanzi di Daria Bignardi, forse perché come donna mi ha sempre intrigato e anche perché quando ancora guardavo un po’ di televisione lei riusciva a condurre una tra le trasmissioni meno insopportabili dei vari palinsesti.


Avevo sentito parlare bene del suo romanzo d’esordio Non vi lascerò orfani e quando Sergio, chiamiamo così con uno pseudonimo l’amico che me lo ha prestato, consegnandomi Un karma pesante mi ha comunicato di non avercela fatta a proseguire oltre pagina 30, devo dire che ci sono anche rimasto male.
Trenta pagine è una quantità indicativa: se un libro non ti prende in questo inizio di itinerario sarà molto difficile che poi riesca a capovolgere l’effetto e a conquistarti. Naturalmente esistono alcune rare eccezioni a questa regola, vedi Uomini che odiano le donne, che lì per lì stavo quasi per abbandonare. Avrei commesso un tremendo errore. Ma l’affermazione di Sergio non solo mi ha incuriosito, è stata anche di stimolo alla lettura per poter scoprire i motivi dell’abbandono.
Be’, le ragioni le ho trovate subito.
Con uno stile di scrittura da bambino delle elementari per un bambino delle elementari, nel quale brilla l’assenza delle subordinate in una successione pressoché ininterrotta di frasi striminzite costituite da sintagmi verbali del tipo soggetto-predicato-oggetto, tale che già dopo poche righe le palpebre cominciano a farsi pesanti, si sviluppano i pensieri della protagonista caratterizzati dall’assoluta mancanza del minimo spunto atto a suscitare un briciolo di interesse nel lettore. E qui le palpebre raggiungono il fondo corsa.
Costringendomi a restare sveglio, da pagina 22 ho cominciato a saltare leggendo solo una riga su tre. Visto che più o meno il senso di un discorso banale e scontato poi si capisce lo stesso, questo lascia presupporre come le restanti 2 righe su 3 siano del tutto inutili.
Una noia, ma una noia... magari di pesante ci fosse stato solo il karma!
Però d’un tratto mi imbatto in una scoperta esaltante: andando avanti così, 1 su 3, mi accorgo di essere arrivato a pagina 37!
Bene, la gara con Sergio l’ho vinta, tra me e me gli do ragione e il libro posso pure piantarlo qui e concludere con un sonnellino lo stato di torpore che mi ha provocato. E visto che comunque la Bignardi, come donna se non come scrittrice, continua ancora ad intrigarmi, non abbandono la speranza che gli altri suoi romanzi siano almeno un briciolo migliori di questo.
Il Lettore 

domenica 15 settembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 15 settembre

Visto che la scorsa settimana da quanto il quiz era difficile non mi ha risposto proprio nessuno, forse sarà il caso di tornare a libri un po’ più abbordabili (è un eufemismo… per chi non ha colto la sfumatura ironica).
Gli indizi di questa puntata:
1 – E’ un romanzo di recente pubblicazione (2010) alquanto pubblicizzato.
2 – L’autrice è italiana: molto famosa, molto visibile, molto affascinante, molto brava nel suo mestiere principale.
3 – Il mestiere principale dell’autrice non è quello della scrittrice.
4 – E il bello è che di romanzi ne ha scritti più di uno.

5 – La trama del romanzo parla di… be’, sinceramente vi confesso che non sono riuscito a capirlo: ho piantato il libro a pagina 37…


Ma non demordete, di questo romanzo se ne è parlato molto. Anche se non ne capisco ancora il perché.
Freereader

venerdì 13 settembre 2013

Un segreto non è per sempre

Alessia Gazzola, giovane medico siciliano con la passione per la scrittura, dopo l’esordio con L’allieva ha voluto bissarsi con questo Un segreto non è per sempre, duplicando così la scopiazzatura di Kay Scarpetta e arrivando persino a conferirgli quell’alone di faciloneria e pressappochismo tipico del guitto nostrano quando decide di imitare i professionisti di oltreoceano.

Anche Kay Scarpetta ti annoia dopo che ne hai lette due avventure, ma perlomeno la professionalità di Patricia Cornwell fa sì che il suo personaggio almeno si comporti come una donna, non come un concentrato di futilità.


Ricordate il post di qualche tempo fa su La lama del rasoio, nel quale tracciavo un raffronto tra prezzo di copertina e valore intrinseco del libro? Questo della Gazzola è uno di quei casi in cui il bilancio dell’operazione costi/benefici si avvicina pericolosamente al prendere a capocciate il muro più vicino.
In barba della pubblicità intessuta, delle recensioni entusiastiche pilotate e dei 17.60 euro del prezzo di copertina, il libro si merita solo l’attribuzione di uno sconfortante “pessimo” a causa dello stile da ragazzina sfarfalleggiante, insulso e superficiale, che non riesce a coinvolgere il lettore e si sofferma su particolari superflui, alla faccia della scrittura ellittica, che non ottengono altro scopo che infastidire: non c’è bisogno di spiegare che il dottor X è il superiore della protagonista, così come basta nominare i soggetti Y e Z senza attardarsi a specificare che sono le sue colleghe. Il lettore non deficiente a queste cose ci arriva da solo.
I dialoghi sono stucchevoli, pedissequi e formali; l’uso delle citazioni latine (forse per far vedere che le conosce?) è pleonastico e saccente; il riportare una finta biografia tratta da  Wikipedia (due pagine e mezzo!) per spiegare chi è un personaggio ti fa cadere le braccia; i medici che appaiono per nulla professionali nei loro comportamenti (un giovane anatomopatologo che fa consulenze psichiatriche e ne sa più dei superiori?); l’uso di ricercati (nel senso deteriore del termine) aggettivi per descrivere atteggiamenti (un cane dallo sguardo candido? Una giapponese dallo sguardo terso?); l’insistente impiego del punto esclamativo (ma a questa la stupisce tutto?); il reiterato utilizzo di esotici termini idiomatici (Tizia è un fake, Caio ha gli occhi smoky, Sempronio sta preparando uno smoothie… ma dove siamo, a Roma o in Central Park?); la giapponese che parla dapprima in un italiano stentato e dopo pochi scambi improvvisamente assimila la lingua e formula discorsi in un italiano perfetto; le considerazioni pseudo-profonde inserite tra le frivolezze, che sembra quasi ve le abbia volute cattedraticamente incastrare a forza per conferire un tono serio e compreso…
Arrivato a fatica a pagina 55, dopo aver letto di una dottoressa talmente cretina da scambiare la sua giacca con quella di un cadavere (ma che caz… dove siamo, alla neurodeliri?), non gliela faccio più e chiudo il libro senza alcun senso di rimpianto.
Posso mica stare a perdere tempo così.
Forse questo romanzo potrà soddisfare quelle ventenni la cui capacità cognitiva rivaleggia con quella di uno scarabeo stercorario, di certo non un lettore dotato di un minimo di consapevolezza.
Il Lettore 

giovedì 12 settembre 2013

Contrappunto del tabacco e dello zucchero

Una delle cose che adoro fare quando sono in casa altrui è esaminarne le librerie.
Non mi interessano le Poltrone Frau né il televisore da 98 pollici né il modernissimo robot installato in cucina né tantomeno l’angolo attrezzato a sauna e palestra ipertecnologica. Ma le librerie sì. Anche le scrivanie, devo dire, e i secretaire e le sobrie ribaltine in legno con i cassetti colmi di strumenti per lo scrivere, ma questa può essere considerata un’estensione dell’interesse primigenio.

Contemplando i titoli presenti nelle librerie degli altri può capitare che prendi in mano un volume che ti ha colpito, e quando questo succede nell’invidiabile biblioteca di un amico, e quando l’amico ti si avvicina e ti dice piano: “Ah, quello! È veramente carino…”, ecco, quelle semplici parole ti scatenano dentro un irresistibile desiderio di leggere quel libro, e non puoi assolutamente fare a meno di chiederglielo in prestito (prima o poi dovrò scrivere un post sui libri in prestito, è un argomento da sviluppare).


Il saggio di Fernando Ortiz che mi aveva incuriosito è stato pubblicato nella collana Il Ramo d’Oro di Rizzoli Editore, in uno di quei formati minuscoli veramente tascabili, sia pure con rilegatura a filo, copertina rigida e sovracoperta che lo etichettano come un’edizione di lusso. Uno di quei libri che già il tenerlo in mano e lo sfogliarlo ti procurano un piacere di quelli che solo chi lo prova può comprenderlo.
Fernando Ortiz è stato un antropologo cubano di fama planetaria e nel 1955 è stato anche candidato al Premio Nobel per la Pace. Sulla base delle sue profonde conoscenze in campo etnologico e musicale ha scritto questo saggio alla fine degli anni ’30 conferendogli un aspetto da partitura bachiana: una disputa, un litigio, una diatriba, uno scambio di opinioni, una controversia tra due poli opposti come aveva già fatto il reverendo Juan Ruiz nella sua Lite che ebbe Don Carnevale con Donna Quaresima.
Il Contrappunto del tabacco e dello zucchero evidenzia, come dice lo stesso Ortiz, “i sorprendenti contrasti che abbiamo còlto fra i due prodotti agricoli fondamentali della storia economica di Cuba”.
Un saggio ma anche un mirabile esempio di letteratura, un esercizio di prosa che sconfina spesso nella poesia: per descrivere i pregi di questo libricino in modo molto migliore di quanto io possa permettermi ve ne riporto direttamente un brano di quelli da far rimanere del tutto affascinati.  Anche se è un po’ lungo, vedrete che poi mi ringrazierete per averlo trascritto:
 “La canna da zucchero e il tabacco sono un totale contrasto. Si direbbe che una costante rivalità li anima e li separa fin dalla culla. La prima è una graminacea, il secondo una solanacea. L’una spunta dal germoglio, l’altro dal seme: quella da grandi pezzi di fusto con nodi che mettono radici, questo da minuscoli semi che germinano. La prima ha la sua ricchezza nel fusto, e non nelle foglie che si buttano via; il secondo nelle sue foglie, e non nel gambo che si disdegna. La canna da zucchero vive nel campo per molti anni, il cespo di tabacco solo per brevi mesi. Quella  cerca il sole, questo l’ombra: giorno e notte, sole e luna. Quella ama la pioggia caduta dal cielo, questo l’ardore emanante dalla terra. Dal tallo della canna si ricava il succo per il profitto, dalle foglie di tabacco si elimina il succo perché guasta. Lo zucchero perviene al suo scopo umano grazie all’acqua che lo stempera riducendolo a sciroppo, il tabacco ci arriva grazie al fuoco che lo volatilizza convertendolo in fumo. Bianco è il primo, bruno il secondo; dolce e senza odore lo zucchero, amaro e aromatico il tabacco. Sempre contrasto! Alimento e veleno, ridestare e assopire, energia e fantasticheria, piacere della carne e diletto dello spirito, sensualità ed escogitazione, appetito che si soddisfa e illusione che sfuma, calorie di vita e spirali di fantasia, indistinzione volgaruccia e anonima fin dalla culla e individualità aristocratica e di marca in tutto il mondo, medicina e magia, realtà e inganno, virtù e vizio. Lo zucchero è femminile, è lei, il tabacco è lui… La canna fu un dono degli dèi, il tabacco dei demoni; la canna è figlia di Apollo, il tabacco un parto di Proserpina…”
Bello, vero?
E nel proseguire del battibecco continuo, quasi un dialogo socratico, Ortiz trasforma i due protagonisti nei personaggi principali della storia di Cuba dando modo loro di spiegare passato e presente della società latino-americana, di operare un’analisi del patrimonio indigeno di conoscenze e di identificarsi nell’essenza cubana stessa.
Una vera e propria “chicca”, di quelle che una volta lette vorresti non doverle restituire al legittimo proprietario…
Il Lettore

domenica 8 settembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 8 settembre

Ed ecco l’ormai consueto appuntamento con il quiz domenicale.
Dal momento poi che la risposta a questo indovinello potrò fornirvela solo fra tre o quattro giorni perché spengo il pc e me ne vado a trascorrere una breve vacanza al mare, e di conseguenza avrete più tempo per pensarci, stavolta vi avverto che il quiz è veramente difficile!
Ecco gli indizi:
1 – L’oggetto del contendere è un saggio: esaustivo sia pur breve, serio ma anche scherzoso, scritto in una prosa da togliersi il cappello con sconfinamenti nella pura poesia.
2 – L’autore è latino-americano e qualche decina d’anni fa è stato anche candidato al premio Nobel per la Pace.
3 – Il libro è stato scritto nella seconda metà degli anni ’30.
4 – Lo stile utilizzato è un’armonica unione tra una conversazione socratica e un concerto di Johann Sebastian Bach.

5 – Con i protagonisti del libro, i soggetti del saggio, abbiamo a che fare tutti i giorni.


Non vi demoralizzate, è vero che è difficile e che è un libro che non si vede di solito nelle librerie, ma con un po’ di iniziativa…
Freereader

venerdì 6 settembre 2013

Come dire ad un amico che il suo romanzo è una porcata?

Tempo fa mi ha chiamato un conoscente - al telefono era un po’ titubante - e mi ha chiesto se per cortesia potevo dare un’occhiata ad un romanzo che aveva appena finito di scrivere. Era venuto a sapere di questa mia attività di valutatore, e aveva pensato di poter ottenere da me una conferma ai giudizi positivi che aveva già ricevuto da alcuni suoi amici prima di spedire il romanzo a qualche casa editrice. Gli ho risposto che lo avrei fatto volentieri appena avessi trovato un po’ di tempo, e dopo una quindicina di giorni ho cominciato a leggere il suo lavoro sperando tra me e me che risultasse per lo meno passabile, anche se da quando m’era arrivato il testo avevo notato che c’era in esso un qualcosa di indefinibile che fin dal titolo mi aveva fatto presagire una possibile conclusione.


E una volta iniziata la lettura, già dopo poche pagine sono caduto nello sconforto: il lavoro che alcuni suoi “amici” avevano giudicato molto buono a me invece appariva scialbo, piatto, la trama scontata, i personaggi senza spessore, ingenuo, costellato di errori di ortografia e di sintassi e di virgole tra soggetto e predicato, ridondante di aggettivi, avverbi e inutili specificazioni e in definitiva del tutto mancante di stile e struttura. Una vera delusione.
Qualche volta mi assale il dubbio che io sia un critico troppo severo nei confronti delle opere che leggo… ma no, non lo sono, anzi, più leggo e vado avanti e più mi convinco di avere quasi sempre ragione. La qualità della letteratura sta calando a picco: date un’occhiata per esempio al premio Bancarella 2013 e a tutte le sue recensioni (non solo quelle pubblicitarie), e qualcuno deve pur fare qualcosa per spargere la voce.
Ma ora il problema che mi si poneva era un altro: come comunicarglielo?
Avrei potuto dirgli “be’, non sarebbe male, ma…”, oppure “sì, carino, ma…”; di certo non potevo affrontarlo di petto sparandogli un “guarda, fa proprio schifo, è una cagata mostruosa, invece di scrivere faresti meglio a continuare ad andare a vedere le partite di calcio che ti piacciono tanto” come invece avrei voluto. Non potevo proprio.
Invece è proprio quello che ho fatto, ritenendo che addolcire la pillola sarebbe stato ipocrita da parte mia e del tutto inutile per lui. Senza considerare che se glielo avessi promosso mi sarebbe toccato fra sei mesi di dover leggere anche il seguito.
Se un amico vi chiede un’opinione sul proprio romanzo e questo è una porcata, dovete dirglielo senza tacere nulla. Ad eccezione della vostra amicizia ne guadagneranno tutti.
Con altre parole, ovvio:
Guarda, secondo me, ed è un’opinione personale, bada bene, al tuo romanzo manca una certa, come dire, esperienza. Ti sei lasciato trasportare dall’entusiasmo e non hai considerato che enfatizzare troppo certe situazioni le rende difficilmente apprezzabili da parte di un pubblico maturo. Del resto hai solo 34 anni, hai tutto il tempo che vuoi per affinare il tuo stile. Sì, ogni tanto c’è anche qualche errore, ma cosa vuoi, quelli scrivendo di getto ci scappano sempre, l’importante è poi eliminarli in fase di correzione, così come i refusi. E magari sfoltire un poco gli avverbi e gli aggettivi. Secondo me così com’è non funziona del tutto bene, ma intendi, non è che sia da buttare via, con un po’ di lavoro potrai di certo migliorarlo, che so, sistemare qualche virgola, cambiare qualche metafora un po’ troppo scontata, aggiustare un pochino la trama…
Eccetera.
Non l’ha mica presa bene. Non la prendono mai, bene.
Agli altri che l’hanno letto è piaciuto molto” ha ribattuto guardando da un’altra parte.
Infatti la mia è solo un’opinione personale” ho risposto.
E mi hanno consigliato di spedirlo a qualche editore.
Certo, lo puoi mandare tranquillamente. Ma magari prima sarebbe il caso di correggere tutti quegli errori d’ortografia. Sai, per fare un’impressione migliore.
Mi hanno detto che è uno dei romanzi più interessanti che abbiano mai letto.»
Non lo metto in dubbio, dipende dalle letture che hanno fatto finora.
Proprio.”
Già.”
Io comunque lo spedisco.
Ma certo! Magari se fossi in te prima aggiusterei un poco la vicenda: sai, al giorno d’oggi parlare di un amore contrastato con una proprietaria terriera sullo sfondo di una guerra civile mi sembra leggermente anacronistico…
Ma è autobiografico!”  
Sei stato con una che si chiamava Scarlett?
Certo, per due anni a Nairobi, perché?”
“No, nulla…”
 Non posso mica cambiare la mia vita!
 “No, certo che no, ma magari un pochino… E se fossi in te riguarderei anche il titolo.
Perché, cosa c’è che non va nel titolo?» mi ha risposto stizzito.
Niente di grave, intendi, solo che secondo me La mia Africa nel vento non è che sia così facilmente comprensibile…
Il Valutatore & lo Scrittore

mercoledì 4 settembre 2013

Eragon

Quando tu consigli a tuo figlio delle letture e lui segue i tuoi consigli e legge i libri che gli hai indicato, allora, quando lui ti domanda “Papà, hai letto Eragon?” e tu rispondi “No” e la dichiarazione successiva è “Devi leggerlo, è molto bello”, allora, dicevo, è fatta, non hai scappatoie, ti ha proprio incastrato e tu non puoi esimerti dal prendere in mano il volume consigliato dal pargolo e provare a leggerlo per poterne poi parlare con cognizione di causa con colui che stai cercando di indirizzare a tutt’altro tipo di letture.


L’ultima volta che ho letto un fantasy è stato trent’anni fa esatti: quel Signore degli Anelli che è e resterà sempre una pietra miliare del genere. Dopodiché non ho più sentito la necessità di leggere opere che bene o male hanno tutte preso spunto da Tolkien, comprese quelle tanto decantate Cronache di Narnia di Clive Staple Lewis.
John Ronald Reuen Tolkien ha scritto la sua Trilogia tra il 1937 e il 1949 e aveva 45 anni quando l’ha iniziata. Lewis ha iniziato a scrivere le Cronache nel 1948, a 50 anni, e nessuno riuscirà a togliermi dalla testa che deve essere stato almeno in parte influenzato dall’opera di Tolkien con il quale era in rapporto di profonda amicizia.
Christopher Paolini ha iniziato a scrivere Eragon a 14 anni e lo ha finito a 15 nel 2002, e purtroppo per lui di anni non ne aveva quaranta e non aveva amici che si chiamassero Lewis o Tolkien. Ma aveva dalla sua che Il Signore degli Anelli era già stato pubblicato cinquant’anni prima, e di sicuro aveva già visto un film intitolato Guerre stellari uscito nelle sale appena una ventina d’anni prima.
E probabilmente a questo punto gli è venuta l’idea geniale: prendo i personaggi, le battaglie e l’ambientazione di Tolkien, la trama del film di Lucas e le metto insieme! Detto fatto.
Dalla sua aveva inoltre i genitori con la loro piccola casa editrice, che dopo aver riscritto pressoché tutta la prima stesura (parole dello stesso Paolini), lo hanno pubblicato in tiratura limitata permettendo così di farlo leggere e gradire al figlio di uno scrittore che ha “pillottato” il padre (questa mi sembra di averla già sentita…) fino a convincerlo ad interessare il suo editore. Quest’ultimo ha messo in moto i suoi esperti, e dopo aver riconfezionato il pacco ha messo in piedi una massiccia campagna promozionale che ha condotto libro e (presunto) autore a diventare famosi in tutto il mondo.
Il venire a conoscenza di questi aspetti mi ha tranquillizzato, perché leggendo il libro mi si stava rafforzando la convinzione di come un quattordicenne non avrebbe mai potuto scriverlo tutto da solo: la prosa, la sintassi, il lessico e alcune considerazioni sociali e politiche non sono propri di un ragazzino, ma l’evidente frutto del lavoro congiunto di persone con molta più esperienza.
Comunque, oltre alla scopiazzatura di trama, protagonisti e ambientazione, il libro è un susseguirsi continuo di stereotipi, pure alquanto noiosi, situazioni già viste, ripetizioni, battaglie già combattute e personaggi banali; con pochi spunti originali, come la figura del gatto mannaro, sfruttati poco e che si perdono nella prolissa e tediosa narrazione. Anche le critiche ufficiali, pur non stroncandolo del tutto, evidenziano i numerosi difetti che non permettono affatto di comprendere il successo planetario che il libro ha ricevuto.
Non ricordo molto dei miei dodici anni, ma so per certo che a quell’età non solo avevo già letto tutta l’enciclopedia Conoscere (e quando dico tutta intendo proprio tutta, pagina dopo pagina), mi ero gustato l’opera omnia di Jules Verne, alcuni dei romanzi anche più volte, nonché Stevenson, Cooper, quasi tutto Salgari, buona parte di London e molti altri, e sono convinto che le avventure di questo immaginario ragazzino prescelto dalla sorte ma alquanto imbranato non mi avrebbero entusiasmato nemmeno allora.
Però riconosco, purtroppo, come su un ragazzino di dodici anni che non ha ancora letto le opere più importanti di fantasy il libro di Paolini possa fare colpo, ma anche di come esso debba necessariamente essere integrato con letture sia pure dello stesso genere, ma dotate perlomeno di uno spessore più rilevante:
Figlio, hai letto Lo Hobbit?”
«No.
Devi leggerlo, è molto bello…
Il Genitore Lettore

lunedì 2 settembre 2013

Il mostro, anatomia di un’indagine

Al momento, Michele Giuttari passa il suo tempo tra lo scrivere libri e le comparsate televisive, ma dal 1995 al 2003 ha ricoperto il ruolo di capo della Squadra Mobile di Firenze e ciò gli ha permesso di riportare le sue personali esperienze investigative in questo Il mostro, anatomia di un’indagine, nel quale ricostruisce gli itinerari percorsi da polizia e magistratura nella vicenda dei sedici omicidi attribuiti al “mostro di Firenze”.


Il libro non è un romanzo ma la cronaca, presuppongo veritiera, delle ricerche condotte  dagli inquirenti per giungere alla ricostruzione di che cosa è veramente successo nelle campagne intorno a Firenze tra il 1974 e il 1985. Non è un romanzo e non si legge nemmeno come un romanzo, a causa del lessico e dello stile da poliziotto, e mi auguro che per gli altri suoi romanzi “veri”, che non ho letto, Giuttari abbia utilizzato un linguaggio più consono e scorrevole. E comunque il tono, soprattutto nelle ultime pagine, è quello dell’autore che ha voluto togliersi diversi sassolini dalle scarpe.
Non mi sono mai lasciato irretire dal fascino pompato dall’eco mediatico dei delitti che fanno scalpore, anzi, ho sempre odiato l’abitudine dei quotidiani locali e non di inserire nelle locandine, per fare cassetta, reiterati titoloni altisonanti anche quando non avevano nulla di nuovo da dire sulla tragedia del momento, e di conseguenza ho letto il libro in maniera non condizionata dalle numerose voci di corridoio e dagli infiniti richiami giornalistici.
Quello che ne è emerso è un panorama desolante sia della vicenda in sé che dei meccanismi che ne hanno permesso, ma solo in parte, la ricostruzione.
Nel suo libro Giuttari porta solo fatti, non teorie, e fornisce la sua versione cronologica del riesame degli episodi di sangue e delle investigazioni da lui stesso compiute, e proprio dal succedersi dei fatti appare una realtà agghiacciante, non solo perché a distanza di anni e dopo decenni di investigazioni non si è arrivati a chiarire per nulla una vicenda squallida maturata in ambienti di provincia, quanto per ciò che si legge tra le righe della cronaca: indagini talora ammirevolmente professionali, ma più spesso portate avanti all’insegna del dilettantismo, ingiustificabili carenze di collegamenti tra gli organismi statali, la farraginosità degli obblighi procedurali, dimenticanze incomprensibili e ingiustificabili da parte di autorità ufficiali, la burocrazia che lega le mani alla polizia stessa, l’omertà in seno agli stessi enti preposti a combatterla, l’influenza nefasta di oscuri personaggi indirizzata a tacitare e confondere una possibile risoluzione.
È una storia che si legge con stupore e alla fine lascia insoddisfatti, sia per la mancanza di un finale positivo che plachi il desiderio di giustizia, sia per la carenza di fluidità nello stile dell’autore.
E in fondo, noi abituati a guardare CSI si rimane meravigliati e in un certo qual modo delusi dalla realtà dello stato delle investigazioni nostrane.
Il Lettore

domenica 1 settembre 2013

Lo Squizzalibro di domenica 1 settembre

Pronti per il quiz domenicale? Allora ecco gli indizi:
1 – L’autore è italiano e compare spesso in televisione.
2 – Il libro non è un romanzo ma si può considerare una cronaca.
3 – I fatti di cui racconta hanno provocato molto scalpore.
4 – Alcuni dei protagonisti sono morti, alcuni tra i più importanti dei responsabili dei fatti narrati sono invece liberi come l’aria.

5 – Molti personaggi ed istituzioni ne escono proprio niente bene.


Mmmhh, riguardando gli indizi mi rendo conto che non sono abbastanza indicativi, per cui vi dico anche che non è un coccodrillo su Andreotti, né una delle ipotesi sulla strage di Ustica né una biografia di Berlusconi. A voi!
Freereader