domenica 29 novembre 2015

Lo Squizzalibro di domenica 29 novembre

Presto che è tardi! Presto che è tardi! E oggi che ti è preso? Approfittando del fatto che non piove devo scappare a spaccare (e dagli con le allitterazioni!) un po’ di legna, quindi bando alle ciance e pronti con il quiz!
Vai, vai… vai a fare legna, che è meglio!




1 – Il libro da indovinare oggi è… come definirlo? Un thriller? Un romanzo storico? Una storia di paese? Un giallo esoterico? La rivisitazione di personaggi famosi? Ah be’, se non lo sai te… Forse tutto un po’ di queste cose.
2 – Gli autori sono due nostri connazionali, molto conosciuti e guarda caso entrambi laureati in Medicina e Chirurgia. Due medici? Questa domenica vogliamo esagerare? Tra tutti e due hanno scritto una quarantina di libri ma mi sembra sia la prima volta che lavorano insieme.
3 – Il primo autore, oltre che medico, è un romanziere famosissimo, che ha venduto milioni di copie dei suoi libri che per lo più sono ambientati quasi tutti nella stessa cittadina. Ho un vago sospetto…
4 – Il secondo autore è anch’esso uno scrittore, ma anche docente di materie che interessano i poliziotti e noto personaggio televisivo. Ma ti sei rincoglionito? Così è veramente lapalissiano!
5 – Il romanzo è ambientato alla fine del 1800 e vi compare un reale personaggio storico, un discusso scienziato le cui teorie hanno dato la stura a molteplici discussioni. Questa te la potevi risparmiare, ho già indovinato da un pezzo! Indizi facili va bene, ma così è troppo!
Non sei mai contento… via che è tardi, al prossimo appuntamento!
Freereader

venerdì 27 novembre 2015

Essere un gatto

No, non è un manuale di comportamento per felini di colonia come potrebbe sembrare dal titolo, ma un romanzo per ragazzi di Gatto Matt Haig (l’errore non è mio, è lui che si firma proprio così) che ha avuto molto successo in Inghilterra e che pare anche qui stia riscuotendo nutrite approvazioni.




In effetti non è male (per essere un romanzo per ragazzi), scritto con uno stile essenziale e rapido nel quale l’autore entra spesso volutamente in prima persona a commentare la storia, e condito di quella vena orrorifica che ha sancito il successo delle fiabe più famose, da Hansel e Gretel a Pollicino.
Barney Willow è un dodicenne con tutti i problemi della sua età, compresa quell’insoddisfazione di fondo adolescenziale che gli fa desiderare di Essere un gatto per sfuggire alle complicazioni quotidiane. Detto e fatto, mai stuzzicare la magia propria del mondo gattesco. Svegliandosi una mattina si ritrova proprio nel corpo di un felino e da qui cominciano le sue tribolazioni perché, anche se la nuova condizione lo porta a scoprire molteplici vantaggi (agilità, sensi potenziati, capacità di comprendere i linguaggi di tutti gli animali ecc.), gli fa anche comprendere che in fondo stava meglio prima, e così inizia un’avventura per riuscire a reimpossessarsi del suo corpo originale che nel frattempo è stato occupato dall’anima del gatto di cui lui ha preso le sembianze.
Sì, perché nella realtà romanzesca di Haig questi scambi, queste trasmigrazioni sono la norma, e Barney stesso sotto forma di gatto è costretto a doversi difendere da altri ex-gatti trasformatisi in umani che lo vogliono nientedimeno che uccidere. E cosa c’è di più facile per un “umano” che uccidere un gatto?
Devo dire che, sia pur destinato a un pubblico giovane, questo romanzo possiede un livello di pathos degno di un buon thriller, e leggendo si sta veramente in ansia per la sorte del ragazzino anche se si è consapevoli che alla fine la storia si risolverà bene. Ma Barney riuscirà a riconvertirsi nella persona che era? O la malefica strega cattiva arriverà ad ammazzarlo? Ritroverà il padre misteriosamente scomparso? Riuscirà a far capire alla sua migliore amica che c’è Barney Willow dentro il gatto che lei sta accarezzando? (Sì, ci riesce, ingegno maschile e potenza intuitiva femminile).
Un romanzetto simpatico che è riuscito gradevole anche a chi come me non è più un ragazzetto, e sono convinto che potrebbe piacere anche a qualche blogger gattofilo di mia conoscenza.
Il Lettore

lunedì 23 novembre 2015

La donna in gabbia

Un altro scrittore nordico che diventa famoso sull’onda innescata da Stieg Larrson. Dopo la Svezia e la Norvegia stavolta siamo in Danimarca, dove Jussi Adler-Olsen ha dato vita al personaggio del solito poliziotto imbranato ma geniale, esperto ma pigro, sfortunato ma consapevole, capace per certi versi ma da mandare a cagare per molti altri, subissato di problemi (ovviamente), il cui unico aspetto positivo mi è sembrato quello di avere un personaggio-spalla molto più interessante del protagonista.




Non mi è piaciuto granché questo La donna in gabbia, a partire dalle motivazioni del cattivo di turno che architetta un rapimento funambolico (ma mai spiegato nei particolari) con lo scopo di rinchiudere la donna sequestrata in una camera iperbarica a una pressione cinque volte maggiore di quella normale per poi ucciderla fra atroci dolori dopo quasi sei anni (!!!) riportando di colpo la pressione alla normalità. Della serie: dobbiamo far colpo sul lettore, fanculo la plausibilità.
È come il cattivo di qualche altra situazione che, invece di sparare subito al buono immobilizzato e farla finita, si mette a narrargli tutta la storia della propria vita dandogli modo di limare con le unghie la catena d’acciaio con cui è legato, romperla, saltargli addosso mentre quello continua a blaterare e alla fine trionfare.
Qui, un caso già chiuso viene riaperto dopo cinque anni dall’eroe di turno che dopo 450 pagine di problemi personali e minuziose indagini (unico lato positivo del libro, perlomeno un’investigazione condotta come si deve. Il problema è che i passi che ha intrapreso lui avrebbero dovuto essere stati compiuti dagli altri poliziotti che avevano archiviato il caso cinque anni prima), alla fine scopre il colpevole e si muove fulmineo per arrestarlo prima che uccida la donna, ma… occavolo! Ho lasciato la pistola a casa!
Giuro, proprio così. Roba da farti cadere le palle.
È per questo che al protagonista ho preferito la figura della spalla, sotto forma di un enigmatico profugo siriano aspirante poliziotto, musulmano e caciarone, che viene affiancato allo sbirro vero e che nel corso del romanzo rivela doti inaspettate e alla fine contribuisce in modo sostanziale a risolvere la situazione.
Dicevo che il romanzo non mi è piaciuto, poco plausibile, redatto per far colpo ma in definitiva troppo lungo e pure leggermente noioso anche se scritto in una prosa decente. Si vede invece che molta altra gente ne è rimasta parecchio soddisfatta, dal momento che questo La donna in gabbia non è altro che il primo capitolo di una serie di avventure con gli stessi protagonisti, avventure nelle quali il poliziotto Carl Mørck e il suo aiutante Assad si troveranno a sbrogliare altri cold cases abbandonati da tempo. Un’ennesima conferma che i miei gusti non si conformano a quelli della massa. Continuerete ancora a seguirmi?
Questo l’ho letto in cartaceo, ma alcune altre vicende dell’inquirente danese mi sono state fornite in digitale dal mio pusher di libri in formato elettronico. Sinceramente, nonostante il successo non è che questa prima avventura mi abbia fatto venire molta voglia di seguirne ulteriormente gli sviluppi.
Lettore

giovedì 19 novembre 2015

Avvertenza!

L’altro giorno è apparsa nei giornali online questa notizia:
Uno scrittore arriva a prendere a bottigliate in testa la persona che ha osato criticarlo?
Cavoli! Non vi siete mai chiesti perché pubblico questo blog con uno pseudonimo?



Oltre a Snoopy, al quale perlomeno qualche dubbio viene, di gente che scrive romanzi ce n’è di tutti i tipi. Come dice Gianrico Carofiglio nel suo libro di racconti Non esiste saggezza: “È una categoria variegata quella degli aspiranti scrittori. Ci sono i normali, i depressi, gli ingenui, gli esaltati. I pazzi…” e, come già ho avuto modo di esporre in altre occasioni, soprattutto queste ultime quattro categorie di scrittori in genere non accettano che i propri scritti vengano criticati. Guai a dire a qualcuno che la sua opera fa schifo!

È un giudizio che per quanto soggettivo non viene mai accettato perché ovviamente non condiviso dall’autore della schifezza che, anzi, la giudica la miglior cosa che sia mai stata scritta al mondo. Forse solo perché di opere ne ha lette in tutto altre cinque o sei, ma soprattutto perché su quell’opera, anche se è venuta fuori una schifezza (ma l’autore non se ne rende mai conto), lui ci ha lavorato, ci ha faticato sopra, ci è rimasto concentrato per mesi, ci ha spremuto sudore e ci ha messo tutto ciò che aveva dentro ritrovandosi alla fine stremato e svuotato, e sentire un perfetto sconosciuto che alla fine gli dice “guarda, è una palla immane, illeggibile, dovresti come minimo riscriverla daccapo…”, capisco bene come questa non sia una cosa che fa molto piacere.
Il problema è che nella maggior parte dei casi l’autore non possiede la capacità di valutare obiettivamente il proprio lavoro (tranquilli, Stephen King sostiene che non ci riescono nemmeno gli scrittori affermati), e questo succede perché l’autore stesso non ha letto e non legge abbastanza, ma da qui a rintracciare il critico e sbattergli una bottiglia sulla testa non è che sia una cosa tanto normale e indica la presenza di complicazioni psichiche che vanno ben oltre il saper svolgere un’autocritica consapevole.
Bene, l’avvertenza del titolo di questo post consiste nell’informare tutti gli eventuali interessati che, nella vita reale, Freereader non fa la commessa in un negozio come la sventurata dell’articolo: l’autore di questo blog è un tipo alquanto nervoso e iperattento, piuttosto ben piantato, esperto di arti marziali, e oltre alla lettura ha un’insana passione per i coltelli e le motoseghe e gira sempre armato.
Se qualche scrittore al quale ho stroncato o stroncherò un lavoro intendesse mettere in campo una rimostranza attiva… a buon intenditor poche parole.
Freereader

lunedì 16 novembre 2015

La rabbia e l’orgoglio

Dopo la tragedia di Parigi sono apparsi sui giornali molti titoli che recitano più o meno così:
Perdonaci Oriana, avevi ragione”.
Ma sono sicuro che in molti quei titoli non l’hanno capiti, perché Oriana Fallaci è stato un personaggio talmente difficile che in tanti hanno scelto di non leggerla mai, e molti di coloro che lo hanno fatto hanno poi preferito attaccarla o perlomeno dimenticare subito ciò che aveva scritto.




Oriana Fallaci è stata una scrittrice scomoda, osteggiata da coloro che non hanno mai accettato il suo rifiuto di conformarsi ai dettami di certe classi dirigenti, e fino ad ora non m’ero mai accinto a recensire un suo libro, forse perché già solo il nome della più grande giornalista italiana mi incuteva timore facendomi desistere dal solo tentare di esprimere qualche pensiero sul suo modo sublime di scrivere. Un modo che mi ha colpito fin dalle prime sue parole che ho letto, tanti anni fa, all’inizio dello splendido Il richiamo della foresta di Jack London, di cui costituivano quella che più che una prefazione era una vera e propria opera letteraria a sé stante.
Un personaggio del quale ho amato la maggior parte dei libri che ha scritto, e che schifata da come stavano andando, e ancora stanno, le cose qui in Italia ha scelto un esilio volontario perché: “vivere gomito a gomito con un’Italia i cui ideali giacevano nella spazzatura era diventato troppo difficile, troppo doloroso”.
E dopo quattordici anni le cose sono anche peggiorate.
Di lei non ho mai scritto, e non lo farò nemmeno ora.
Di questo La rabbia e l’orgoglio, buttato giù all’indomani dell’11 settembre (o del 13 novembre?), non dirò nulla, se non: se non l’avete ancora fatto, leggetelo.
Lettore

venerdì 13 novembre 2015

Quello che non uccide – Millennium Vol. 4

Così come è già successo per la mitica trilogia in cinque volumi di Douglas Adams, anche in questo caso abbiamo una trilogia, peraltro già esaustiva del suo e con l’autore originario deceduto, alla quale si è voluto appioppare un quarto volume del quale non se ne sentiva proprio il bisogno.
E se nel caso della “trilogia” galattica perlomeno l’autore era lo stesso e si sarà pure divertito a scrivere i capitoli successivi ai primi, nel caso di Millennium 4 non si può fare a meno di pensare che gli scopi sono stati esclusivamente quelli di fare più quattrini possibile.




Stieg Larsson aveva creato un capolavoro e la sfiga ha voluto che non si sia potuto godere gli apprezzamenti (e il conquibus) che ne sono derivati, ma editori ed eredi non si sono rassegnati alla dipartita non tanto di Larsson stesso quanto di un mucchio di soldi, e hanno incaricato David Lagercrantz di dare seguito alle avventure di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander, seguendo peraltro le indicazioni dello stesso autore che sembra avesse ipotizzato per Millennium una sequela di dieci volumi dei quali ne ha portati a compimento solo tre. Della serie: se i personaggi sono azzeccati, perché non sfruttarli fino in fondo?
E il personaggio di Wasp, ovvero Lisbeth Salander, la donna che odia gli uomini che odiano le donne, è di sicuro uno dei personaggi letterari più azzeccati degli ultimi decenni.
La figura di Lisbeth appartiene all’epica pura, pur essendo più un antieroe che un eroe, perché dotata di valori incrollabili, di una volontà di ferro, di comportamenti coerenti e capacità personali nettamente sopra le righe. Una figura che nonostante i modi scostanti e le stranezze, ma di sicuro anche per queste, conquista subito il lettore, lo incuriosisce e lo porta a leggere velocemente i piani della vicenda in cui lei non compare per poter tornare a seguire le avventure che lei vive in prima persona. E il fatto che alla fine riesca a trionfare, come si spera facciano gli eroi, al lettore non può che fare piacere.
Il sottotitolo che è stato messo a questa Millennium 4 è stato preso pari pari dall’Ecce homo di Friedrich Nietzsche dove, a proposito dell’uomo che rinasce a nuova vita guarito dalla minaccia della morale tradizionale, il filosofo afferma: “Was ihm nicht umbringt, macht ihm stärker”, cioè: “ciò che non lo uccide, lo rende più forte", ovvero in latino: “qui non occidit, servat”, o in perugino schietto: “quil che ‘nnamazza, ‘ngrassa” (perdonate la ridondanza ma m’è venuto spontaneo). E il concetto sembra applicarsi a più di uno dei protagonisti, che lottando contro nemici e avversità riescono a fortificarsi e vincere le loro battaglie.
Dicevo che di questo romanzo non se ne sentiva il bisogno, perlomeno io, ma una volta terminato devo ammettere che mi ha fatto piacere leggerlo se non altro per sentir parlare ancora di Lisbeth. La prosa e la costruzione di David Lagercrantz sono agili e scattanti, e l’inserimento del bambino savant che risulta fondamentale nella risoluzione del caso è molto interessante. Alla fine si legge bene e incuriosisce, portando all’attenzione del lettore la problematica del grande fratello (leggi l’Nsa statunitense) che si approfitta della tecnologia per scopi anche ignobili.
Però… anche se è un buon romanzo, scritto bene e con protagonisti intriganti, penso che gli manchi il fascino dei tre libri originari di Larsson.
È possibile che sia solo una mia impressione, ma ancora una volta non sento proprio il bisogno di un Millennium 5.
Il Lettore 

lunedì 9 novembre 2015

Punto di non ritorno

Quale uomo può permettersi di traversare in autostop tutti gli Stati Uniti per andare a incontrare per la prima volta una persona, naturalmente una donna, della quale ha solamente sentito la voce al telefono?
Ma Jack Reacher, naturalmente.




Perché quella voce gli è sembrata sensuale, e le cose espresse sensate, e guarda caso la donna svolge attualmente quello che era stato il suo vecchio incarico di capo della 110° della Polizia Militare, e la faccenda è troppo intrigante per lasciarla cadere così. Questa Susan Turner bisogna conoscerla di persona a tutti i costi. Così Jack Reacher impiega ben tre romanzi per trasferirsi dal Montana fino in Virginia dove vive e lavora la Turner e quando arriva sul punto di fare la sua conoscenza… è qui che parte quest’ultima avventura dell’ex poliziotto militare che si ritrova di nuovo arruolato nell’esercito in modo coatto e chiamato a rispondere di accuse che potrebbero causargli problemi seri. Ma Reacher sa bene che non ha nessuna colpa, e usa i suoi soliti sistemi alla Tex Willer per farlo comprendere anche ai suoi antagonisti.
Lee Child non perde un colpo. Anche quest’ultima avventura di Reacher è tesa e si lascia leggere d’un fiato, anche se il finale mi è sembrato un poco “soft” rispetto allo standard a cui ci ha abituato finora. La prosa dello scrittore inglese naturalizzato statunitense è talmente fluida e accattivante che riesce a rendere interessante anche la descrizione del traffico automobilistico nei meandri dei sobborghi di Los Angeles dove, e questo è uno dei plot secondari della vicenda, sembra che viva nientepopodimeno che la figlia (!!!) quattordicenne dello stesso Reacher…
Credo che non vi toglierò il piacere della lettura rivelandovi che alla fine Reacher riuscirà a sbrogliare tutti gli interrogativi, perché non è tanto questo che incuriosisce nei suoi romanzi quanto il sapere il come vi riuscirà, e anche per il solo piacere di una buona lettura. Per farvi capire meglio vorrei riportarvi il brano in cui Reacher mette fuori combattimento due antagonisti durante il volo in un aereo di linea a 8000 metri di quota, senza che gli altri passeggeri si accorgano di nulla, ma sarebbe troppo lungo da riportare integralmente. Fatto sta che Child è un maestro nel raccontare queste cose, e anche nei dialoghi non scherza affatto.
Mi giunge notizia che altri due romanzi di Child sono in preparazione per la pubblicazione in italiano. Bene, io sono qui in attesa.
Il Lettore 

venerdì 6 novembre 2015

Punto linea superficie

Diciamo subito che Wassily Kandinsky non è tra i miei pittori preferiti, ma quando un’artista cerca di spiegare il suo pensiero attraverso una forma d’arte diversa da quella in cui è esperto la cosa mi incuriosisce, e poi ho pensato che, se la sua pittura non la apprezzo, forse avrei compreso meglio il suo pensiero attraverso un linguaggio costituito da parole.


Questo non è successo, e se da una parte ho apprezzato con interesse il tentativo di cercare un’espressione del sentimento in ogni rappresentazione grafica, dall’altra l’ho trovato un saggio freddo e asettico, in concordanza con ciò che mi appaiono i suoi dipinti astratti e geometrici. Sarà che una parte di me rimane legata alle scuole più tradizionali, e così come di Picasso preferisco il periodo blu, di Kandisnsky mi piacciono di più i dipinti nei quali era ancora legato all’impressionismo e non si era ancora unito alla Bauhaus. Peccato, da questo libro mi aspettavo di più, un qualcosa che coinvolgesse anche la problematica del processo creativo, ma questa è una cosa che riguarda solo me e non se ne può imputare una colpa al pittore russo.
In ogni caso all’epoca in cui è uscito questo libro è diventato subito uno dei testi di riferimento nel mondo dell’arte, e quindi va un plauso all’autore per aver saputo enunciare la teoria grafica cercando di coinvolgere più piani dell’esistenza. Anche se spesso certe sue affermazioni andrebbero un pochetto affinate: “Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere (…) Esterno – Interno”.
Trovo che questa affermazione sia di molto riduttiva, visto che ogni fenomeno può essere vissuto non solo in due ma in un’infinità di maniere diverse, né la fumosa spiegazione che segue il concetto contribuisce a renderlo più chiaro. Così come mi sembra riduttivo ricondurre ogni forma dell’arte pittorica a formule geometriche e matematiche. Se per la musica questo sarà anche fattibile, con le dovute scremature, non credo che ciò funzioni per la pittura tout-court e per l’uso dei colori come sostiene Kandinsky.
Va be’, un libro che non mi ha entusiasmato. Ma al momento ne sto leggendo ben tre altri contemporaneamente, ai quali ero molto interessato e che mi sono capitati uno dopo l’altro nel giro di pochi giorni. Non ho potuto fare a meno di iniziarli insieme, tanta era la curiosità per ognuno di essi, e nei prossimi giorni ve ne darò il resoconto man mano che li terminerò.
Il Lettore