Ognuno ha le sue idiosincrasie: anche se mi piace
leggere e scrivere, caratterialmente sono un tipo realista, con i piedi per
terra, e per questo non mi calo volentieri in una qualsiasi dimensione onirica.
Così come non sopporto la stupidità, il circo, il calcio e i finocchi sia crudi
che lessi. E adesso che c’entrano i
finocchi? C’entrano, vedrai che c’entrano, fammi finire.
Questo romanzo stupefacente non è altro che un sogno, e anche per questo
motivo leggendolo non mi ha dato il
piacere complessivo che avrebbe meritato. Ma mi inchino, e mi tolgo pure il cappello di fronte all’incredibile genialità dell’autore.
Si parte con un incipit
sbarazzino, dotato di un’ironia sottile, che fornisce subito un assaggio di ciò
che sarà il resto:
"Il
venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca
d'Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino
la situazione storica. La trovò poco chiara.”
E poi continua:
“Resti
del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino
rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno,
immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano
all'orizzonte le sagome sfatte di qualche Romano, gran Saraceno, vecchio
Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs. Il duca d'Auge sospirò pur
senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti. Gli unni
cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani
disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano
persiane. I Normanni bevevano calvados".
I Gaulois che fumavano gitanes
e i Saracineschi che chiudevano
persiane mi han fatto morire… per non parlar del Calvadòs... Da qui già si
può capire che ci si trova di fronte a un’alternativa: 1) Un autore
completamente fumato; 2) Un genio della scrittura.
È buona la seconda.
Continuando a leggere si
capisce che Raymond Queneau si è
impegnato non poco per scrivere un testo in cui forma e contenuto collaborano
alla perfezione per formare insieme null’altro che un gioco colto, un profondo divertissement d’autore, per trovare
interpretazioni soddisfacenti del quale si sono mossi tutti i critici più
importanti. I protagonisti sono un Duca che viaggia nel tempo e un pigro barcaiolo
dei tempi odierni che si sognano a vicenda fino ad incontrarsi, si
compenetrano, si scambiano i ruoli e intervengono continuamente nelle vicende
l’uno dell’altro, tanto da poterli considerare come la dimensione onirica di
una stessa persona.
Già dall’incipit si può avere un’idea
dell’attenzione maniacale che Queneau ha riservato alla scelta del linguaggio,
inventando termini di sana pianta quando necessario, per saturare il testo con
giochi di parole (calembours, per
dirla alla francese), allitterazioni, omofonìe e fantasiosi voli pindarici.
Ogni parola è studiata, ognuna ha un proprio scopo, a volte doppio o triplo,
tanto da impegnare non poco il lettore che voglia coglierne i risvolti
nascosti. Queneau si è inventato una lingua sua propria, un insieme di francese
scritto, parlato, di gergo, con inediti neologismi frammischiati a fonemi
arcaici da tempo in disuso. Anche per questo non siamo in presenza di una
lettura agevole ma sicuramente impegnativa, che diventa anche soddisfacente
quando si riesce a cogliere un riferimento dapprima poco chiaro. E c’è sempre
da considerare che originariamente il tutto è stato scritto in una lingua che
non è la nostra.
Nella traduzione di questo
testo, Italo Calvino è stato davvero
fantastico, così come del resto Umberto
Eco per gli Esercizi di stile
dello stesso Queneau. Per poter rendere in un’altra lingua un testo così
complesso, cercando di renderne apprezzabili la maggior parte delle sfumature, non
basta conoscere alla perfezione entrambe le lingue, ma il traduttore deve
essere egli stesso un artista ed entrare in sintonia con l’autore ricreando le
sue trovate in una lingua diversa.
Il significato del titolo, i cui riferimenti compaiono solo all’inizio e alla fine del
romanzo sotto forma di oscure citazioni tratte da Baudelaire e dalla Bibbia, è
quasi incomprensibile, e poco ce lo spiega Calvino che per comprenderlo lui
stesso ha dovuto interpellare direttamente Queneau, non ottenendo altro che il
significato francese del sintagma che sta ad indicare delle persone idealiste,
romantiche e nostalgiche, ovviamente riferendosi ai protagonisti.
Ora i “letterati” mi
salteranno addosso. Opinione personalissima: come ho già detto io amo il
pragmatismo, e di conseguenza, per quanto alta possa essere la genialità e
profonda la ricerca e pur plaudendo al talento di Queneau, ho visto questo
romanzo come nient’altro che un dotto divertimento, una masturbazione
intellettuale che non mi ha regalato il piacere di lettura che ottengo da un
(semplice) buon romanzo. In fondo, le vicende del Duca d’Auge e di Cidrolin
non mi hanno interessato poi così tanto, né la mancanza di un filo logico
percepibile ha contribuito a sostenere la tensione narrativa. Ovvero, il filo
logico nello svolgimento non è che non ci sia, ma le continue divagazioni, e il
punctum incentrato sulla ricerca di
forma e significato del linguaggio, distraggono dalla linea principale fino a
farla passare in secondo piano. Sarò gretto e meschino ma, ripeto ad nauseam, pur riconoscendo e plaudendo
ad un capolavoro non mi sento di consigliarlo a chi è in cerca di una piacevole
lettura.
A chi di dovere: vedi che
concedendo tempo al tempo, i suggerimenti vengono presi in considerazione…
Ah già, dimenticavo, i finocchi: uno dei tormentoni del
romanzo è la passione smodata che i protagonisti (il protagonista) mostrano per
l’essenza di finocchio, fantomatica
bevanda che ricorre in continuazione per tutta la vicenda fino a farti venire la
malsana voglia di assaggiarla sul serio. Ributtante, a parer mio, ma de gustibus…
Il Lettore