mercoledì 31 dicembre 2014

Il signore delle vigne

È l’ultimo giorno dell’anno, e sarò veramente contento domani di mettere un cinque al posto del quattro: checché ne dicano Renzi e Facebook, con tutti i loro tentativi di farci credere che abbiamo passato mesi meravigliosi, questo è stato veramente un anno di merda. Auguri per il prossimo. Ma veniamo a noi.
Com’era che si intitolava quel film con… quell’attore… sì, quello australiano… no, neozelandese… che piace alle donne… che è stato nominato miglior attore per aver sostenuto il ruolo del genio schizofrenico… ah, sì, Russell Crowe, e il film era Un’ottima annata, diretto da quell’altro genio di Ridley Scott.
Ecco, si sarebbe potuto dire che il film di Scott avrebbe potuto essere stato tratto da questo libro di Noah Gordon (e non da quello di Peter Mayle come è in realtà), con qualche libertà d’artista, se non fosse che il film è uscito nelle sale nel 2006 e il libro è stato pubblicato nel 2007. Ma più o meno il succo (tanto per restare in tema) è quello.



Di Noah Gordon avevo già letto, diversi anni fa,  MedicusLo Sciamano e Il medico di Saragozza, in pratica tutti i libri con i quali è diventato famoso, e li avevo trovati molto piacevoli. Sono tutti romanzi in cui la tematica principale è la medicina: sono storie di uomini in diverse epoche e diverse ambientazioni che in una forma o nell’altra hanno dedicato la propria vita a curare il prossimo.

Anche questo Il signore delle vigne è la storia di un uomo con una passione, che in questo caso non è la medicina ma l’uva. Siamo nella Spagna della seconda metà del diciannovesimo secolo, una nazione dilaniata da guerre civili e lotte per il potere, e Josep Alvarez è un povero contadino che suo malgrado si trova invischiato in pericolose tresche politiche che lo costringono a scappare per qualche anno in Francia, dove impara a raffinare l’arte della coltivazione delle vigne. Una volta tornato nel paese natìo, Josep transita per diverse peripezie fino a coronare il suo sogno di riuscire ad ottenere del buon vino dai rachitici vitigni del suo arido pezzetto di terra.
Un buon romanzo, forse con situazioni più o meno già viste o lette da qualche altra parte e senza nulla di particolarmente eclatante, che si legge comunque molto bene per merito di uno stile votato all’essenziale e una profonda conoscenza della contestualizzazione. Il modo di vivere, i costumi e le usanze della Catalogna del 1870 sono perfettamente credibili e le ambientazioni rigorose, così come del resto il quadro storico e sociale dell’epoca. L’altra sera l’ho letto per tre ore sotto il piumone senza che fossi stroncato dal sonno, e questo è un chiaro indice di un testo che vale.
Ma l’essenzialità della scrittura ha portato anche un leggero difetto, più una sensazione che altro: ho notato cioè una sottile freddezza, un accenno di estraniazione dello scrittore dalla pagina, un frenare passioni e coinvolgimento in favore di una narrazione distaccata e del tutto mirata alla storia. In pratica una scrittura da professionista puro, i sentimenti del quale sono attentamente nascosti e mai rivelati. Considerando che il romanzo è stato scritto alla ragguardevole età di ottant’anni, direi che l’autore ha avuto un considerevole lasso di tempo per fare esperienza.
Se lo vogliamo chiamare difetto…
Il Lettore

lunedì 29 dicembre 2014

Consigli impertinenti per il vero intellettuale da salotto

Questa è stata una delle sorpresine che ho trovato sotto l’albero: un cadeau portato da Babbo Natale per conto e su richiesta di mia moglie e mio figlio. I libri sono i regali che gradisco di più (insieme ad accette e coltelli), e una volta scartato il pacchetto ho gongolato fino a che non ne ho assimilato concretamente il titolo, al ché un sottile dubbio ha cominciato ad insinuarsi nei meandri della mia coscienza…
Sarà mica una presa per il culo?




Consigli impertinenti per il vero intellettuale da salotto è una silloge sui generis, una raccolta di termini più o meno usati o di moda nel parlare comune in certi ambienti ognuno con la sua brava spiegazione satirica riferita a come dovrebbe comportarsi, cosa dovrebbe dire e cosa dovrebbe pensare il moderno intellettuale. Alcuni esempi:

Instant book: di solito sono sempre delle cazzate.
“Un uomo di profonda cultura”: perifrasi per indicare uno che non fa un cazzo.
Blogger: è da un pezzo che voi dite che è una nuova tipologia di stronzo.
Sintassi: non preoccuparsene troppo, è soltanto un pregiudizio.
Luigi Mascheroni è un giornalista e scrittore e ha raccolto in questo libretto le definizioni e i consigli da lui già pubblicati nelle riviste sulle quali scrive. Tra le righe sature di satira (per gli scrittori in erba: evitate gli allitteramenti!)  si può riconoscere la presenza di un vero amore per la Cultura con la “C” maiuscola, e la condanna per tutte le forzate manifestazioni della sottocultura a cui ci sottopongono televisione e falsi letterati. Alcune battute sono carine e strappano un sorrisetto, in altre ti riconosci, e alcune sarebbe da mandarle a memoria per citarle al momento giusto e fare così la figura del perfetto snob cacacazzi. Fra i metodi per riconoscere questi ultimi me ne sono piaciuti solo alcuni:
DANDY. Il dandy post-contemporaneo si vede da:
6) dal fatto che sceglie sigari “Sancho Panza” ma li accende con dei Bic da un euro. E soprattutto li fuma al chiuso, in locali pubblici, meglio se ci sono bambini e donne incinta;
7) dal fatto che non tollera né i bambini né le donne incinta;
18) dal fatto che sa benissimo che la barba non fa il filosofo, e infatti possiede una splendida collezione di rasoi a mano. Che tiene in un armadietto. Per radersi invece usa dei Bic usa-e-getta. Che fa molto dandy;
19) dal fatto che sa bene che nella vita lo stile è tutto. Ma i soldi lo sono di più;
20) dal fatto che non ha mai abbastanza soldi. Ma questo succede anche a chi non è un dandy;
25) dal fatto che se incontra un hipster gli infila la pipa su per il culo.
E, sempre per restare sul politically correct, ci sono anche consigli sulle cose da tacere e su quelle da esternare:
Cose da pensare, senza dire: “Handicappato”, “negro”, “cieco di merda”, “frocio del cazzo”.
Cose da dire, senza pensare: «Disabile», «Persona di colore», «Ohhh, aspetta che aiuto quel povero non vedente…», «Io ho un sacco di amici omosessuali».
Mi rimane un dubbio: perché l’autore non avrà messo le definizioni in ordine alfabetico?
Il Lettore

sabato 27 dicembre 2014

L’altra donna

Vi avevo già detto che delle opere di Rex Stout tengo l’elenco in macchina per controllare via via quali di esse manchino nella mia collezione, e che lo stesso succede per quelle di Ed McBain. Quando uno ha scritto 124 (centoventiquattro, uno più uno meno) romanzi risulta un po’ difficile ricordarseli a memoria.
Questo mi mancava.



Quando la coppia di emigranti lucani dette alla luce il proprio bimbo, nella New York del 1926, lo registrò all’anagrafe con un nome italiano, Salvatore, seguito da un “Albert” come secondo nome, forse per omaggiare la nuova patria che li aveva accolti: Salvatore Albert Lombino.

A ventisei anni, e chissà quale sarà stata la vera ragione, Salvatore decise di cambiare del tutto il proprio nome, e l’anagrafe statunitense accettò di trasformarlo in Evan Hunter. Non contento, Salvatore (Evan) cominciò ad usare parecchi pseudonimi per firmare i libri che stava scrivendo: Richard Marsten, Hunt Collins, Ezra Hannon, John Abbott, Curt Cannon, ma ora è ricordato soprattutto con l’alias che più degli altri lo ha portato alle vette del successo: Ed McBain
Chi è che non ha mai nemmeno una volta sentito parlare dell’87° Distretto? Chi è che non ha visto il film Il seme della violenza, con Jack Lemmon nella parte del protagonista e un giovanissimo e inconsueto Sidney Poitier in quella del delinquente da redimere? Chi è che non ha letto Gli amanti? Chi non ha mai visto qualche puntata del Tenente Colombo o di Ironside?
E chi è quello sventurato che non ha mai sentito parlare del film Gli uccelli di Alfred Hitchcock?
La produzione di Evan Hunter, o Ed McBain che dir si voglia, è vastissima e di altissimo rilievo sia come autore che come sceneggiatore, e leggere le sue opere è sempre un piacere. Vanno giù come l’acqua, diceva quello. La serie dell’87° Distretto è stata scritta dal 1956 al 2005 per un totale di 55 romanzi, l’ultimo dei quali è uscito lo stesso anno della morte dell’autore. Una serie in cui insieme al “giallo” Ed McBain inserisce spesso tematiche attuali al momento, e sempre comprimari ben caratterizzati di contorno ai protagonisti che costituiscono la squadra investigativa.
Ma L’altra donna appartiene a un’altra serie protrattasi per una ventina di avventure, quella in cui il protagonista seriale è l’avvocato Matthew Hope, un civilista i cui problemi personali, sentimentali e genitoriali, hanno la stesa rilevanza dei casi in cui si imbatte man mano. In questo caso Hope è coinvolto in un triplice omicidio, la strage della famiglia di un suo amico, e nel farlo contribuire alla ricerca della soluzione Ed McBain ne approfitta per scandagliare i rapporti di coppia e le problematiche tra padri e figli in una Florida rovente, in definitiva riprendendo i temi già trattati a fondo ne Gli amanti, firmato però da Evan Hunter. Il bello dell’ex Salvatore Lombino è proprio questo: i suoi non sono semplici “gialli”, non sono avventurette usa e getta, ma in ognuna si può trovare la trattazione di una problematica particolare, la denuncia di situazioni sociali al limite, l’analisi di difficili interrelazioni tra persone.
Lo stile di Ed McBain, anche quando indugia nelle riflessioni o descrive un personaggio martoriato da problemi psicologici, è sempre velocissimo, pragmatico e accattivante, costituito da una terminologia semplice per tutti senza alcunché di ricercato. Ma la cosa che veramente adoro del suo stile è la costruzione dei dialoghi: riesce a tessere delle conversazioni anche lunghissime, di pagine e pagine, senza mai inserire righe esplicative e addirittura senza mai chiarire di chi siano di volta in volta le voci in gioco, ma lasciando scandire il ritmo solo dal botta e risposta del parlato senza alcun intervento autoriale. Ne deriva una velocità di lettura astronomica e un’immedesimazione totale, una concentrazione assoluta, che sembra di stare guardando un film. Di quelli interessanti.
Se avete già letto qualcosa di Ed McBain non vi ho rivelato nulla di nuovo. Se ancora non lo conoscete, andate in un negozietto di libri usati e per meno di cinque euro portatevi a casa due o tre vecchi gialli Mondadori scritti da lui. Non ve ne pentirete.
Il Lettore

giovedì 25 dicembre 2014

La verità non basta

Ci risiamo: visto, preso, portato a casa e lette le 394 pagine in un giorno o poco più. L’unica amarezza rimane quella che ora dovrò aspettare un altro annetto fino all’uscita della prossima avventura di Jack Reacher.


Lee Child è riuscito a soddisfare i suoi lettori anche questa volta. Devo dire anche in modo migliore delle ultime. Abbiamo tra le mani un thriller leggero, va bene, di pura azione, niente di che farti guadagnare il Nobel, ma i difetti, se vogliamo chiamarli così, finiscono qui. La verità non basta è un romanzo che ti tiene incollato dalla prima pagina all’ultima, senza mai far calare la tensione e mantenendosi sempre sul plausibile. C’è lo stile, c’è la trama, c’è il protagonista, c’è l’ambientazione, ci sono vari colpi di scena e un finale che soddisfa, che vuoi di più?
E poi, il personaggio.
Penso che Jack Reacher sia uno dei protagonisti più azzeccati degli ultimi tempi: puro, genuino, giusto, minimalista, invincibile. L’altro personaggio di fantasia al quale assomiglia di più è Tex Willer. Come dice uno dei più grandi esperti nazionali in materia di fumetti (che sono onorato di avere per amico), Tex è uno dei fumetti più venduti perché tutti vorremmo poter essere come lui. Tutti vorremmo poterci comportare come ci pare, tutti vorremmo poterci far giustizia da soli, ma sempre nell’ambito di una rigorosa morale, tutti vorremmo poter mettere a tacere il prepotente di turno senza spiacevoli conseguenze. Jack Reacher in fondo è come Tex: entrambi onesti e retti e giusti fino al fanatismo, ad entrambi non serve nulla di inessenziale, entrambi sono del tutto disinteressati al denaro, entrambi lottano in maniera formidabile e inseguono il cattivo di turno come degli instancabili mastini e, soprattutto, alla fine vincono sempre. Lo stereotipo dell’eroe rude ma buono, e chi di noi non vorrebbe essere così?
Questa è una di quelle avventure in cui Reacher parla in prima persona e racconta un avvenimento occorsogli nel 1997, immediatamente prima di abbandonare l’esercito, decisione derivata in parte anche da quanto gli accadrà in questo romanzo. Il narratore quindi è interno alla storia ma anche onnisciente, e sta raccontando da un punto temporale situato più avanti nel futuro, come si evince dai riferimenti all’11 settembre nel corso della narrazione. Nel suo ruolo di maggiore della polizia militare Reacher viene mandato in missione in un posto sperduto del Tennessee, ad indagare sull’omicidio di una giovane ragazza nel quale i suoi superiori temono possa essere implicato un militare dei corpi speciali statunitensi. Ovviamente Reacher risolverà l’intrigo, non senza prima aver tonfato diverse persone, averne messe definitivamente a tacere delle altre ed essere stato piacevolmente coinvolto in una liaison di quelle invidiabili.
Il tutto può sembrare una trama scontata, ma vi assicuro che non lo è. O perlomeno è lo stile di Lee Child, come dicevo, a fare in modo che tu prenda in mano il libro e non lo lasci più fino alla fine. Child sa come caratterizzare i personaggi, sa come rendere interessante un’ambientazione sperduta nella quale non c’è assolutamente nulla di rilevante, sa come inserire adeguatamente le metonimìe e come collocare al punto giusto i colpi di scena, sa come fuorviare il lettore e poi farsi perdonare per averlo portato su false piste. Il tutto fornendo spesso notizie di carattere generale dosate in modo ammirevole e facendo in modo che una volta giunto all’ultima pagina il lettore tiri un sospiro di soddisfazione. Dopo una quindicina di romanzi, ormai si può affermare come l’autore inglese sia diventato un maestro del genere, e da lui dovrebbero imparare tutti quegli scrittori di thriller che infarciscono i loro romanzi di esagerazioni, di colpi di scena ad ogni pagina, di personaggi del tutto incredibili e di fatti fuori dal mondo (avete presente i film western di quarta categoria nei quali non ricaricano mai le pistole?).
Jack Reacher sarà certo un personaggio nettamente sopra le righe, ma Child ha saputo anche renderlo umano, riportarlo sulla terra, costruendogli un passato coerente con il suo atteggiamento e un modo di comportarsi nel quale spiccano anche i sentimenti insieme alla forza bruta adoperata sempre in modo chirurgico. Tex Willer ma anche, sempre per restare sul fumetto, Dago, l’immortale personaggio di Robin Wood e Alberto Salinas.
E speriamo che il prossimo esca il prima possibile.
Ah… dimenticavo, Buon Natale a tutti!
Il Lettore

martedì 23 dicembre 2014

Candido, o l’ottimismo

Non starò qui a fare una recensione di questo Candido che è uno dei libri più famosi al mondo, sul quale sono stati scritti volumi di critica e che è stato preso come spunto da parecchi altri scrittori – tra i quali il nostro Leonardo Sciascia con il suo Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia –, né starò a spiegarvi chi sia stato il signor François-Marie Arouet, in arte Voltaire.
E allora di cosa stiamo parlando, sei scemo? Direte. E con una premessa così non avreste tutti i torti, in effetti.



Di cosa parliamo, allora? Il Candido lo conoscono tutti (mi auguro), tutti sanno chi sia stato Voltaire… potrei anche piantarla qui e darvi appuntamento a dopodomani. Va bene, l’ho letto, consiglio di farlo anche a voi, buona lettura, arrivederci.

Ma non mi pagano (Ha! Ha! Ha! Scusate…) per scrivere poche righe, e di conseguenza mi dilungherò con qualche altra facezia (a questo punto mi vengono in mente Alessandro Dumas e il suo Il conte di Montecristo, questo sì pagato a righe… e per questo prolisso, ridondante, logorroico, interminabile… e nonostante ciò uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale).
Dirò solo che una delle ragioni per cui la lettura dei classici al giorno d’oggi non risulta così piacevole, almeno per me, è che oramai siamo abituati a ben altri ritmi e linguaggi di quelli dell’epoca in cui sono stati scritti quelli che vengono considerati i punti fermi della letteratura. Le situazioni e i concetti, gli stati d’animo e i sentimenti esposti da William Shakespeare sono incomparabili, ma personalmente ho sempre trovato noiosissima la sua lettura; ho riletto da poco Robinson Crusoe e anche questo l’ho trovato pericolosamente vicino agli effetti di un gas soporifero. Non escludendone la bellezza, comunque.
Il pregio del Candido di Voltaire, invece,  è quello di essere perfettamente leggibile ancora oggi (e devo elogiare anche la traduzione perfetta di Stella Gargantini), con uno stile dinamico saturo di quell’ironia che ha reso famoso l’illuminista francese.
Voltaire era veramente un grande: già all’epoca condannava la vivisezione e i vivisettori, e reputava che l’uomo non avesse affatto quella superiorità per diritto divino sugli animali e su tutta la natura come la Chiesa predicava. La sua visione distopica del mondo che lo circondava si rivela attraverso la polemica nei confronti delle ingiustizie e delle superstizioni, con il suo scetticismo e con le paradossali avventure del suo protagonista, la cui ingenuità nei confronti delle cose che lo circondano assume dei contorni che surreali è dire poco.
L’uso di sillogismi esasperati e in fondo illogici costituisce una bonaria presa in giro dell’allora  nascente studio scientifico della logica ("nasi servono ad appoggiarvi gli occhiali, ed infatti noi abbiamo degli occhiali"), e il fatto stesso che Candido segua molto volentieri le lezioni del suo mentore Pangloss per la sola ragione di poter continuare a saziarsi della bellezza di Cunegonda è solo uno dei simpatici non sense che non avrebbero sfigurato in qualche libro odierno.
Ecco il pregio più rilevante: se l’autore di Candido fosse stato per noi un perfetto sconosciuto, avremmo anche potuto dire che il libro avrebbe potuto essere stato scritto ieri.
Il Lettore 

domenica 21 dicembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 21 dicembre

Non capita spesso, e per indagarne le ragioni prima o poi ci scriverò sopra un post, ma ogni tanto mi piace tornare ai classici, anche se la maggior parte delle volte poi finiscono con l’annoiarmi. Anche qualche giorno fa, tanto per farvi capire come mi prendano questi schiribizzi, in libreria ho preso in mano una copia del Paradise Lost di John Milton e mi sono messo a leggerne i blank verses in lingua originale: bellissimi, in particolare la prima pagina.
Ma, forse per la centocinquantottesima volta in vita mia, ho pensato che leggerlo per intero sarebbe stato veramente troppo impegnativo e ho finito per lasciarlo lì. Andrà per la centocinquantanovesima, forse.
Ma qualcos’altro ha risvegliato la mia curiosità…



1 – Come anticipato, il libro oggetto di questa Mistery box (eh sì, mi sono lasciato traviare da Masterchef…), è un classico, e di conseguenza lo conoscerete tutti (almeno per sentito dire…).

2 – L’autore era francese, e pubblicava sotto uno pseudonimo (un nom de plume, tanto per restare oltralpe).
3 – Il genere del romanzo è fantastico (nel senso di fantasioso…), ma sotto sotto, come sempre nel caso delle opere importanti, il contenuto è una serie di allegorie che denunciano le situazioni sociali e le correnti di pensiero dominanti dell’epoca.
4 – Ma se il protagonista del romanzo fosse vissuto in quest’Italia odierna, con tutta probabilità non ci sarebbe riuscito proprio, ad essere coerente con se stesso.
5 – Il racconto in questione è stato ripreso innumerevoli volte da autori successivi e citato in un numero infinito di opere, e da esso hanno tratto almeno tre film e un’opera musicale .
E voi? Cosa ne pensate dei classici?
Buon primo giorno d’inverno!
Freereader

venerdì 19 dicembre 2014

Fermo

Penso che ne esistano pochi, di maschietti della mia età e anche più giovani, che non abbiano provato un senso di profonda inutilità per l’anno che abbiamo trascorso sotto le armi. Per tutti quelli che ci sono passati sarebbe stato meglio aver fatto qualcos’altro, qualsiasi altra cosa sarebbe stata più costruttiva. In realtà, anche quell’anno infruttuoso passato al servizio dello stato ci ha fornito delle esperienze che inconsciamente ci sono servite nella costruzione della nostra vita successiva.


Anche quanto appena detto potrebbe essere uno spicchio della morale che intende comunicarci Sualzo con la sua graphic novel. Anche se il suo protagonista sceglie di rifiutare la naia e opta per il servizio civile, quell’anno di costrizione, all’inizio visto come una inutile coercizione, viene utilizzato dal protagonista, più o meno consciamente, per crescere e maturare mettendo in discussione molte delle convinzioni che aveva prima di partire per Bibbiena.
Fermo non è un racconto d’azione, chi cerca roboanti battaglie e coloratissime splash pages qui non le troverà; direi più un romanzo di formazione: un ragazzo che utilizza quell’anno che dapprima reputa perso per indagare dentro se stesso e cercare delle risposte a delle domande che, chi più chi meno, tutti ci si pone a quell’età. Ed ecco che attraverso esperienze per lui nuove la sua coscienza si matura e riesce a risolvere, sia pure parzialmente, i dubbi che lo angosciano.


Sualzo, al secolo Antonio Vincenti, è un illustratore e fumettista umbro che si è fatto conoscere prima in Francia (dove la cultura del fumetto è di parecchi gradini superiore alla nostra…) e quindi in casa. Sia questo Fermo, che il precedente L’improvvisatore, sono graphic novels che l’autore ha costruito sulla base delle sue esperienze personali e in entrambe le quali si può riconoscere un lungo lavoro di riflessione e preparazione.

Dal punto di vista grafico il tratto del disegno è la cosiddetta linea chiara, in una rappresentazione situata a metà tra l’iconico e il realistico, con colori pastello e tonalità tenui. Si direbbe un disegno ingenuo, poco più che infantile, ma perfettamente adatto alla resa dei sentimenti che Sualzo intende trasmettere. Come sceneggiatore di se stesso ha anche saputo dosare i diversi punti di ripresa delle inquadrature per costruire una gabbia variata, cosa di per sé difficile quando l’autore intende spalmare i pensieri dei protagonisti – racchiusi in dida il cui colore stacca sempre dal fondo del riquadro in maniera netta – su parecchie vignette.
In definitiva un vero e proprio romanzo “fumettato”, in cui testi e disegni si integrano fornendo ciascuno la propria dose di argomentazioni allo scopo di costruire un concetto complessivo. Un bel racconto, che si legge con interesse e che porta a riflettere.
Anche per noi che il militare, purtroppo, ce lo siamo sciroppato.
Il Lettore

mercoledì 17 dicembre 2014

Stupore e tremori

C’è qualcuno che dice che gli scrittori sono tipi strani, e quest’affermazione troverebbe una conferma solo a guardare le foto della scrittrice belga Amélie Nothomb, con le sue espressioni allucinate e i suoi abiti rigorosamente neri. Ma basterebbe anche solo dare un’occhiata ai titoli che ha messo ad alcuni suoi romanzi: Igiene dell’assassino, Cosmetica del nemico, Metafisica dei tubi… per concordare che tanto per la quale non è.
Non sarà tanto per la quale, ma per scrivere scrive bene, e parecchio.


Amélie Nothomb è diventata famosa fin dal suo primo romanzo, Igiene dell’assassino, e dal momento che ha trascorso la sua giovinezza prima in Giappone e poi in Cina ed essendo perfettamente bilingue (francese e giapponese), era scontato che prima o poi avrebbe trasfuso la sua esperienza nei paesi orientali in una qualche storia. Questa.
Stupore e tremori è una vicenda molto autobiografica nella quale una giovane ragazza belga (guarda caso) viene assunta a lavorare come interprete in una grossa società giapponese per merito della sua perfetta padronanza delle due lingue. Fin dal primo giorno di lavoro, però, la sua esperienza alla Yumimoto si trasforma in un incubo a causa dello scontrarsi con la rigidissima gerarchia giapponese e con il formalismo esasperato. La Nothomb riesce a raccontare le vicissitudini della protagonista con una forte carica ironica che strappa spesso dei sorrisi durante la lettura, man mano che la protagonista passa da interprete a semplice segretaria, continuando a scivolare sempre più in basso nei meandri della gerarchia, letteralmente fino a doversi mettere a pulire i cessi.
Ma ci sarà anche una parvenza di riscatto finale…
Celata dietro i sorrisi spunta fuori la ferma condanna per la rigidezza delle regole alle quali tutti i giapponesi hanno accettato di sottostare (lo stesso titolo, Stupore e tremori, sta a rappresentare lo stato d’animo in cui tutti dovrebbero sentirsi al cospetto dell’imperatore), e se questo può essere sopportabile per un uomo, si rivela con l’essere degradante per tutte le figure femminili, che hanno una vita programmata fin dalla nascita dalla quale un’evasione è praticamente impossibile.
Bel racconto, mi è piaciuto. Certo che la figlia di un ambasciatore, una che per le esigenze diplomatiche del padre si è spostata dal Giappone alla Cina, quindi a New York, poi in Bangladesh, finalmente in Europa a Bruxelles, ancora qualche anno a Tokio, poi ancora a Bruxelles per finire con l’abbarbicarsi a Parigi, di cose da raccontare ne dovrebbe avere, ed è quello che fa la Nothomb nei suoi romanzi pubblicati finora uno all’anno, puntuali come un orologio belga. E non c’è dubbio che lo sa fare.

Il Lettore

lunedì 15 dicembre 2014

Invito a un’indagine

Con mio grande piacere, nel corso della consueta visita al solito negozietto di libri usati, ho scoperto una copia di uno dei romanzi di Rex Stout che ancora non possedevo. Rex Todhunter Stout è stato eletto il miglior giallista del secolo scorso e ha scritto, nel corso della sua carriera, diverse decine di racconti e un centinaio di romanzi, e di questi ultimi circa una settantina sono presenti sui miei scaffali. Nel suo caso, come del resto anche per Ed McBain, tengo sempre in macchina l’elenco delle opere che possiedo, dal momento che mi è molto difficile ricordare al volo se un titolo dubbio l’ho già letto in passato oppure mi manca.


Adocchiato questo Invito a una indagine mescolato a titoli più famosi come La traccia del serpente, La guardia al toro, Nero Wolfe e l’FBI o Alta cucina, sono restato incerto sull’averlo letto o meno e sono andato subito in auto a controllare: vai! Un altro pezzo aggiunto alla mia collezione! Alla modica cifra di due euri…
Questa volta vi parlerò della trama ancora di meno di quel poco che faccio di solito: dirò solo che in questo caso l’indagato è nientemeno che Orrie Cather, cioè quello che assieme a Saul Panzer è il più attivo degli investigatori che collaborano con Nero Wolfe. Non dico altro, perché in fondo le trame dei romanzi di Stout passano in secondo piano nei confronti del piacere che si prova entrando nel mondo del suo personaggio principale.
Leggere un’avventura di Nero Wolfe è come sedersi sulla tua vecchia poltrona: sarà vecchia e fuori moda ma ti accoglie sempre con calore, sarà rovinata, ma ne conosci tutte le confortevolezze e ti piace persino passare le dita sugli strappi e sulle screpolature della pelle consumata. I ritmi e le abitudini dei residenti nella vecchia casa di arenaria rossa ti sono talmente familiari che è come se tu fossi un loro ospite ricorrente e affezionato, innamorato della cucina di Fritz Brenner, affascinato dalla serra di orchidee sul terrazzo, e talmente rispettoso che non ti sogneresti mai di sedere sulla poltrona preferita dello scostante padrone di casa o dietro la scrivania di un accomodante ma pericoloso Archie Goodwin
Il clichet narrativo dei gialli di Stout si discosta poche volte dalla classica struttura ternaria problema – tentativi di risoluzione – epilogo, e in quest’ultimo è quasi sempre il genio di Wolfe che trova una soluzione alla quale nemmeno le autorità, nei panni dell’ispettore Cramer, erano riuscite ad arrivare, e ciò che li rende particolarmente gustosi è la caratterizzazione che l’autore ha infuso nei personaggi e nell’ambiente, a partire dal suo personaggio principale che lo scrittore ha costruito come se guardasse in uno specchio riflettente l’esatto opposto di se stesso: Stout era uno spilungone magrissimo, Wolfe è alto ma obeso; Stout era freneticamente attivo, Wolfe pigro e indolente; Stout innamoratissimo della seconda moglie, Wolfe misogino inveterato; ma la passione per la buona cucina e per le orchidee è comune in entrambi, oltre alla genialità che in Stout si è manifestata in campi anche diversi dalla scrittura. Entrambi hanno parecchi punti in comune con il mio carattere, dal momento che odiavano svisceratamente i politici, i maneggioni, gli ottusi e la televisione.
Dal momento che il primo romanzo con Nero – La traccia del serpente – è del 1934, e l’ultimo uscì dopo la morte dell’autore nel 1976, è ovvio che sia le ambientazioni, che gli usi comuni e le tecniche di indagine, sono datati di almeno quarant’anni rispetto a noi, ma ciò non toglie, almeno a me, la piacevolezza di leggere lo stile chiaro e pacato dello statunitense e di essere continuamente in cerca degli esemplari che mancano alla mia collezione, compresi gli scritti in cui non compare l’investigatore montenegrino.
Il Lettore

sabato 13 dicembre 2014

La Mennulara

E scusate il giorno di ritardo sul mio consueto ritmo di uscita dei post, ma ieri sono stato impegnato tutta la giornata ad assistere ad un convegno di quelli in cui un po’ di finti sapienti spendono un sacco di soldi degli enti di appartenenza (cioè nostri) per sciorinare un mucchio di cazzate, per di più in modo noiosissimo, a un pubblico del tutto disinteressato.
Parentesi lunghetta: tanto per restare in tema di utilizzo della lingua italiana, lo sapete quali sono le parole più comuni negli interventi esposti nei congressi? L’intercalare più ricorrente, mediato dalla fazione più retorica degli esponenti della sinistra italiana, è costituito dal verbo diciamo…” ripetuto in media ogni 5 parole e nel 98% dei casi a sproposito: “…passo ora, diciamo… la parola, diciamo… al dottor Pinco Pallino, diciamo…”, e dall’altro osceno termine quantaltro, che sta chiaramente a significare che il relatore non sa lui stesso cosa cazzo d’altro aggiungere alle puttanate esposte fino a quel momento (il ché succede veramente troppo spesso). Spero vivamente che mi legga qualcuno dei relatori del convegno di ieri.
E dopo lo sfogo, perdonatemi anche questo, passiamo al libro di oggi, che è veramente, veramente interessante. L’ho finito di leggere proprio ieri mattina nel corso del convegno…



Mi è piaciuto molto, un romanzo interessante fin da prima della prima pagina, fin da quella dedica dell'autrice “Alla British Airways” che verrà spiegata solo all’interno dei ringraziamenti oltre la fine del libro, tra i quali colpisce lo sperticato e criptico encomio al suo editor

La Mennulara è un romanzo che penetra nel più profondo modo di pensare della provincia siciliana, riferito sì alla metà dei trascorsi anni sessanta, ma reale ancora oggi senza sostanziali variazioni. Una mentalità che ho trovato splendidamente riassunta in una frase a pag. 205: “…Pietro Fatta e padre Arena erano impassibili, esempi di quella abilità a dissimulare i propri pensieri e sentimenti che i siciliani si bevono con il latte materno”.
Con la scusa di raccontare la vita di Maria Rosaria Inzerillo, la mennulara, che significa “raccoglitrice di mandorle”, Simonetta Agnello Hornby costruisce un mosaico complesso di vita in un piccolo paese siciliano e lo fa portando ad interagire le visuali di più protagonisti, spaziando su più piani temporali, fino a rendere palesi tutte le molteplici sfaccettature di una donna dalla personalità complessa e intrigante. La mennulara è un personaggio molto particolare, che da povera ragazza di campagna finisce col diventare l’amministratrice dei beni di una ricca famiglia decaduta; è amata e odiata, è benefattrice e despota, angelo e arpia, ma soprattutto chiacchierata, e le azioni che ha intrapreso nel corso della vita non sempre vengono capite e spesso sono fraintese, fino a determinare quadri diversi della stessa persona in ognuno di coloro che hanno avuto a che fare con lei.
Il merito di Simonetta Agnello Hornby è quello di mostrare fatti e comportamenti e lasciare che il lettore si formi la sua idea, spesso contrastante con quella dei protagonisti del romanzo che continuano ad inseguire apparenze sbagliate. L’autrice sa evocare la tragedia, sa portare il lettore ad immaginare che accada qualcosa di irreparabile prima ancora di porne le basi, e sa intrecciare il tutto in un collage complesso ma chiarificatore del modo in cui si interagiva, e come lo si fa tuttora, in ambienti che mostra di conoscere perfettamente.
A differenza di Camilleri, il romanzo non è scritto in dialetto ma in un italiano fluente che riflette solo un poco le inflessioni della lingua sicula, e questo lo dico per tutti coloro a cui piacerebbe Montalbano ma non sopportano di leggerne il dialetto (chi vuol capire capisca, mizzica…). 
E pensare che questo è stato il suo primo romanzo. A questo punto penso proprio che leggerò anche gli altri due della Hornby che mi trovo in casa, tra i libri della consorte, e che fino ad ora avevo snobbato per uno stupido senso di diffidenza: un altro autore avvocato… di sicuro sarà raccomandata… vattelapesca come scrive…
Va be’, saper cambiare idea è un segno d’intelligenza, no?
Il Lettore

mercoledì 10 dicembre 2014

Regole per vecchi gentiluomini

Avete presente Zoella? La blogger che ho nominato qualche giorno fa perché ha battuto il record della Rowling vendendo 78000 copie del suo libro nella prima settimana di uscita? Bene, ora è scappato fuori che Girl Online non l’ha nemmeno scritto lei, ma si è affidata a un ghostwriter. E il lettore ingenuo continua a farsi prendere per i fondelli… Poco importa che per la vergogna l’oca giuliva abbia deciso di scomparire per un po’ dalla circolazione, intanto ha venduto e continuerà a vendere. Oggi giorno non conta nulla se il libro valga o meno, conta solo se l’autore è più o meno conosciuto. In che mondo viviamo…

Ma parliamo di cose serie. Tempo fa, girellando per il solito negozietto di libri usati, mi sono imbattuto in uno di quei titoli magnifici che non puoi fare a meno di portarti a casa; magari ti viene anche il sospetto che sia tutto titolo e niente arrosto, come insegna un noto autore italiano, ma quando un romanzo si intitola Regole per vecchi gentiluomini tenti comunque la sorte e vada come vada, speriamo bene.


E una volta tanto è andata bene, altro che numeri primi…
Il romanzo di Peter Pounchey è una piccola perla trovata per caso e per questo forse ancora più preziosa. Una narrazione pacata, un ritmo con la lentezza propria della persona anziana e uno stile cristallino nel quale spicca la capacità di descrivere ambienti e paesaggi fanno di questo racconto un’opera capace di coinvolgerti e smuovere qualcosa al tuo interno.
Poche cose sono più tristi di un vecchio rimasto del tutto solo in un posto isolatissimo nel corso di un inverno gelido, che di per se stesso rappresenta una metafora. McIver, il protagonista, è un professore di storia al termine della vita che ha visto andarsene tutte le persone a lui più care e ha scelto di finire i suoi giorni nel luogo stesso che insieme alla moglie amata per quasi quarant’anni si erano eletti a residenza: una foresta sperduta nelle vicinanze di Cape Cod, nei pressi di Boston, un luogo che non a caso era caro a Henry Thoreau. Sentendo avvicinarsi la fine McIver decide di impiegare il tempo che gli resta scrivendo il romanzo che si sente dentro da molto, e per farlo si impone delle regole che dovrebbero combattere sia le difficoltà pratiche che le angosce dovute alla vecchiaia. Vi lascio il piacere di leggerle per conto vostro, ma non posso fare a meno di citare la n. 7 – Lavorare ogni mattina,  che sottintende lo scrivere ogni mattina almeno una scena, e la n. 3 – … accendere il fuoco quando occorre, bruciando prima le cose meno importanti. Dove queste ultime stanno per …sedie pieghevoli, i libri scritti dalla concorrenza e altra immondizia prima dei libri buoni e dei miei.
Peter Pounchey costruisce così gli ultimi mesi di vita di McIver intrattenendo il lettore con le difficoltà oggettive del vecchio intercalate alle sfaccettature del romanzo che egli sta scrivendo, analizzandone via via la trama e i personaggi così come l’autore si impone di costruirlo ogni mattina. L’edificazione di un romanzo dentro un romanzo, fino ad una conclusione che anche se si può prevedere fin dall’inizio non per questo risulta scontata o deludente.
Una lettura affascinante, elegante e malinconica, di classe.
Il Lettore

lunedì 8 dicembre 2014

Il Circolo Dante

Avrebbe anche potuto rappresentare una buona iniziativa, le premesse c’erano tutte: l’aprire il pubblico americano alle tematiche di Dante Alighieri, sfruttare l’onda montante dei romanzi storici, l’intreccio fra letteratura e thriller, i primi tentativi di una parificazione razziale, una buona dose di mistero e qualche omicidio che ci sta sempre bene.

Ma non tutti si chiamano Umberto Eco.


E in effetti questo autore qui, che si chiama Matthew Pearl, ci ha provato: ha preso una situazione storica reale – gli Stati Uniti subito dopo la guerra di secessione – ha messo insieme un gruppo di letterati realmente esistiti nella colta Boston dell’epoca e li ha incaricati di tradurre la Commedia in inglese osteggiati dal resto del gotha universitario; quindi ha cominciato ad ammazzarli – a farli ammazzare – con criteri che richiamano le bolge dantesche, ha messo un poliziotto di colore ad indagare e ha pasticciato un po’ fino alla risoluzione del dilemma e alla scoperta dell’assassino.
Ma – dicevo – l’autore non si chiama Umberto Eco, non si chiama John Grisham e nemmeno Roberto Benigni, e sebbene abbia anche dimostrato una buona conoscenza della materia da cui ha preso spunto, come risultato dei suoi sforzi non è venuto fuori altro che un polpettone noiosissimo che ho terminato a fatica e dopo cinque minuti è caduto nel dimenticatoio.
Esistono libri che, pur non sapendone individuare una ragione precisa, sono talmente noiosi e insignificanti che non si reggono. A volte basta un’inezia, una parola sbagliata, un periodo costruito meno che bene, per trasformare un buon libro in un libro illeggibile; altre volte la resa formale può ingannare ed è nel significato del testo che bisogna ricercare le ragioni di una mancanza. Altre volte ancora l’autore non riesce ad inserire quegli spunti che rendono i personaggi interessanti e la vicenda eccitante. Se vogliamo restare nell’ambito dei romanzi storici, di Gary Jennings e di Ken Follett, tanto per citarne un paio, ne esistono pochi. Ogni tanto un editore pompa con la pubblicità una giovane promessa, come in questo caso, ma il più delle volte l’assenza di spessore viene subito alla luce.
Va be’, dimentichiamolo.
Ma a proposito del venire alla luce, tanto per restare in tema dantesco vi diletterò con la quartina terminale del Purgatorio, la meno conosciuta tra le finali di cantica e anche quella che mi si confà meglio, dal momento che io non sono talmente maligno da meritarmi l’inferno né abbastanza buono da poter finire in paradiso:
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
Puri e disposti magari lo saremo anche, ma ce lo meriteremo?
Il Lettore 

sabato 6 dicembre 2014

Il seggio vacante

Ce l’ho fatta! Ho finito anche questo! Ci ho messo alcuni mesi (intercalato ad altre letture, naturalmente), ma alla fine sono arrivato in fondo. E sì che sono solo 552 pagine, neanche tantissime, scritte fitte, va bene, ma è l’attenzione che devi porre in ogni fase della lettura a fartelo sembrare interminabile. E la noia a fartelo sospendere spesso…


Le vicende di Harry Potter le ho lette tutte e devo confessarvi che, al di là di quella ricerca della pietra filosofale che per prima ha fatto conoscere il maghetto ai lettori di tutto il mondo, dalla seconda alla settima le ho trovate noiose e insignificanti. Per onestà devo aggiungere che né mia moglie né mia nipote condividono questa affermazione, tanto da sfiorare lo scontro aperto ogni volta che trattiamo l’argomento. L’unica avventura che ho trovato carina è la prima, e anche i film che hanno tratto da tutte le vicende mi sono sembrati troppo cupi per poterseli gustare.
Con questo Il seggio vacante, che comunque penso rappresenti una grande prova d’artista, Joanne Kathleen Rowling finalmente si stacca dalla saga che le ha fatto guadagnare il titolo di baronetto e ben più di 500 milioni di sterline (per chi non l’avesse colta da solo, c’è parecchia ironia in questa frase).
La Rowling tira le fila di una massa consistente di marionette e le fa muovere con una scioltezza il più possibile vicino al reale, da burattinaio navigato, dando loro la possibilità di esternare i proprio pensieri sia attraverso le loro azioni che raccontandoceli lei. Il rovescio della medaglia è che in questo modo, cioè facendo agire un’infinità di personaggi, sia pure in maniera mirabile, la trattazione si allunga a dismisura risultando in fin dei conti prolissa e noiosa. C’è da dire anche che l’autrice ogni tanto riesce a risollevare il lettore annoiato (ma più che annoiato: impaziente) fornendogli degli sprazzi di acume che interrompono spesso la monotonia. D’altra parte, per voler descrivere i modi di fare e di pensare di un nutrito gruppo di abitanti di un paesino della provincia inglese, con tutte le loro bassezze, abiezioni, cattiverie, ripicche, gelosie e psicosi, non poteva scegliere una maniera migliore, facendo leva su particolari di ogni tipo, concentrando ed esasperando gli screzi cronici all’interno di qualsiasi famiglia ed evidenziando i sentimenti peggiori: egoismo, meschinità, stupidità, ignoranza.
(Anche la tecnica di inserire parentesi chilometriche, lunghe spesso anche ben più di una pagina, per spiegare retroscena che aiutino il lettore a comprendere meglio una data situazione, ad esempio familiare, fa parte dell’insistenza sulla prolissità che l’autrice sciorina a piene mani. Avete notato quanto è lunga questa parentesi? Niente, in confronto a quelle della Rowling.)
Il romanzo è scritto benissimo, sicuramente una grande prova da parte di una professionista esperta, ma non è un prodotto da consumo immediato né un libro di evasione. In definitiva io l’ho trovato alquanto noioso: l’ho preso e lasciato parecchie volte preferendo dedicarmi ad altro, ma alla fine sono riuscito ad arrivare in fondo fino a scoprire quella tragedia che l’autrice ti fa prefigurare per tutta la narrazione senza decidersi ad attuarla.
Va be’, un libro che non mi ha entusiasmato. E non credo che il paesino di Pagford faccia guadagnare alla Rowling neanche una minima parte di quanto ha tirato fuori da Hogwarts. Comunque, tanto per ritornare sul tema dello scrivere cazzate, leggevo l’altro ieri che uno dei record di vendite detenuto dalla Rowling è stato battuto dalla blogger Zoella che del suo primo libro, Girl Online, ha venduto 78000 copie solo nella prima settimana dalla pubblicazione.
E io mi ostino ancora a scrivere recensioni serie…
Il Lettore

giovedì 4 dicembre 2014

Io sono il Libanese

Faccio ammenda! Nell’ultimo post che ho pubblicato l’altro ieri, La verità sul caso Harry Quebert, mi è scappata una castroneria gigantesca: il film di Kurosawa nel quale la stessa vicenda è narrata da più punti di vista non è Ran, come dapprima avevo citato, ma Rashomon (non andate a guardare, l’ho corretto quasi subito, ma l’avevano già letto in venti). Chiedo scusa a tutti e venti per essermi fidato della memoria senza andare a controllare (ehhh… quando uno invecchia…) e ringrazio il Ferro per avermelo fatto notare (e per aver  concordato al 90% sulla mia valutazione del romanzo di Dicker, il ché fa sempre piacere).
Veniamo al romanzo di oggi.
Quando lessi Romanzo criminale non ne rimasi molto colpito, anzi, ricordo che lo trovai lento e a tratti noioso, e la fortuna è stata che me l’avevano prestato. Ovviamente non ho visto le serie televisive, e se non mi avessero prestato anche questo Io sono il Libanese, per me l’esperienza con Giancarlo De Cataldo avrebbe potuto ritenersi conclusa.

Ma qui l’attività di scambio è fitta, e vista la gratuità non ho potuto fare a meno di leggere quest’ultimo prestito (a sua volta comprato usato a sei euri…). Poche sedute ed era finito, poco più di 130 pagine con meno di 300 parole ciascuna, il classico romanzetto usa e getta da operazione commerciale.


In pratica la trama è inesistente e, se gli si volesse dare una veste, sarebbe quella di far vedere uno scorcio della vita di quel Libanese che sarebbe stato il capo della banda della Magliana in Romanzo criminale. In sostanza un prequel, confezionato con l’unico scopo di incassare un po’ di quattrini tra libro e riduzioni (mi correggo: ampliamenti) televisive.
Scorcio che dice poco, salvo far conoscere un delinquentucolo di mezza tacca con smisurate manie di grandezza che attua assieme ai suoi compari una sequela di tentativi poco o niente riusciti di atti criminosi, apparendo sì cinico e duro ma in definitiva sfigato, e affetto da un dilettantismo cronico. Basta, tutto qui. Ah, sì, c’è anche una storia d’amore che dovrebbe far capire al lettore come mai al protagonista, nel romanzo successivo (che però è uscito prima…) non interessi molto l’universo femminile. Stavolta basta davvero. Il romanzo, se vogliamo continuare a chiamarlo così visto che non c’è una trama, è inconcludente e una volta che l’hai finito ti domandi: va be’, e allora?
L’unico pregio che vi ho trovato è la scrittura: pragmatica, asciutta, veloce, con poche concessioni alle riflessioni pur essendo scritto in terza persona, quasi tutta azione descritta devo dire anche piuttosto bene e inserimenti dialettali che non danno fastidio. Questa sì, è migliorata rispetto al romanzo precedente (che però è ambientato dopo…).
Nonostante l’operazione commerciale, se ci fosse stata una trama (o una parvenza di conclusione), sarebbe anche risultata una lettura piacevole, ma così…
Il Lettore

martedì 2 dicembre 2014

La verità sul caso Harry Quebert

Avevo già bocciato la app Aldiko in quanto scomoda per leggere i pdf, quando ho scaricato questo libro in versione epub e ho scoperto che invece questi ultimi l’applicazione permette di leggerli benissimo. Ottimo. Così mi sono imbarcato nella lettura telefonica di quest’altro tomo di oltre seicento pagine consigliatomi tempo fa da un amico accanito lettore, e scrittore, e fotografo, e… basta così. Ehi! Dico a te, hai visto? Alla fine ho seguito il tuo consiglio, mi sono fidato di un amico nonostante svariate altre recensioni trovate in giro ne parlassero più male che bene.
Avrò fatto bene?



Vi risponderò commentando volta per volta le affermazioni discordanti sul romanzo di  Joël Dicker trovate in rete:

Ottima leggibilità. Vero; è difficile staccarsi dalle pagine di questo romanzo: lo stile (fin troppo) semplice e discorsivo ti spinge a proseguire ad oltranza insieme al (fin troppo) sapiente inserimento di continui spunti di interesse in una trama (fin troppo) ben architettata. Di certo è un romanzo che si legge molto bene, e anche il continuo alternarsi di analessi e prolessi aiuta di volta in volta a rinnovare l’attenzione insieme alle variazioni della figura narrante.
Troppe pagine inutili. Vero anche questo:  un paio di centinaia di pagine in meno non gli avrebbero fatto male. Troppe ripetizioni, troppe ciarle a volte inutili, troppe insistenze controproducenti.
Thriller inesistente. Be’, questo no. In effetti ci si chiede come possa andare a finire, e la curiosità di sapere che fine abbia fatto Nola Kellergan crea uno stato di tensione che può a buon diritto fregiarsi dell’epiteto di thriller. Peccato che poi l’autore voglia emulare il Rashomon di Kurosawa facendo vedere diverse scene ogni volta dal punto di vista di vari personaggi, e questo francamente da una parte un po’ stufa, e da un’altra confonde le idee e rende il tutto alquanto artefatto.
Storia d’amore ridicola (patetica, sdolcinata, troppo poco credibile… eccetera eccetera). Ebbene sì, la liaison tra Quebert e Nola assume troppo spesso toni talmente sdolcinati da sfiorare il surreale passando per il vomitevole. E anche il rapporto tra Harry e Marcus assomiglia troppo a ciò che potrebbe idealizzare un ventenne bisognoso di un mentore.
Personaggi caricaturali (troppo ciarlieri, stereotipati ecc.). In effetti alcuni personaggi appaiono incongrui: ufficiali di polizia che riescono non si sa come a tenere nascosti elementi fondamentali ai fini dell’indagine, i protagonisti stessi dal comportamento equivoco, comprimari costruiti apposta per farli sembrare quello che poi si rivelano non essere...
Troppi insegnamenti di scrittura. Sarà perché sono interessato all’argomento, ma in un primo momento io li avevo trovati interessanti. Alcune massime già conosciute, altre meno, situazioni che ogni aspirante scrittore impara sulla propria pelle eccetera. Il problema è che poi capisci che certe dritte l’autore le avrà anche vissute, ma nessuno ti toglie  dalla testa la convinzione che sotto i trent’anni uno sia troppo giovane per mettersi in cattedra a dispensare lezioni di scrittura, e di conseguenza sospetto fortemente che abbia saccheggiato diversi manuali di scrittura per sciorinare le sue massime (su cui in effetti insiste veramente troppo). E lasciamo perdere quelli che pretenderebbero essere insegnamenti di vita…
Letteratura elementare. Be’, questo non trovo che sia un difetto. Non tutti si chiamano Proust o Hemingway e anche un romanzo leggero può essere fonte di piacere. Ma a parte questo, il fatto che l’autore si parli molto addosso, in una sorta di meta-letteratura, spesso ti fa cadere le braccia per non dire qualcos’altro. Letteratura elementare? Elementare di sicuro, Letteratura? Mah…
Elementi inverosimili. Ce ne sono diversi, dai personaggi che ardono dal desiderio di raccontare tutti gli affari propri ad un perfetto sconosciuto al fatto che nella casa del protagonista possa entrare di continuo qualsiasi persona che si trovi a passare da quelle parti, fino al parlare con nonchalance di pompini in una lezione universitaria. Il parossismo è lo sfociare in vere e proprie castronerie: a un certo punto l’autore afferma che l’idrogeno gassoso liberato in aria dà luogo ad un’esplosione terrificante. Nulla di più falso, come è facile verificare con un semplice esperimento di scissione elettrolitica. L’idrogeno gassoso liberato in aria non provoca assolutamente nulla. Ma nessuno gliel’avrà fatto notare?
Dialoghi puerili. Sarà perché avrà voluto esprimere il modo di parlare della provincia americana e di un certo tipo di classe sociale, e non so se il giovane svizzero ci sia riuscito, fatto sta che i dialoghi sono spesso veramente frivoli fino a sfiorare il ridicolo.
Giudizio finale (personale). Mio caro amico che me lo hai consigliato, mi rivolgo direttamente a te per confessarti che questo romanzo proprio non mi è piaciuto. L’ho terminato a fatica,  e se non ci fossi stato in mezzo tu me ne sarei proprio fregato di quale fine potesse aver fatto Nola Kellergan. Anzi, mi stupisco proprio che sia piaciuto a te, conoscendo i tuoi gusti e la tua capacità critica. Forse perché si avverte che la trama è “troppo” costruita, perché la resa è semplicistica, perché i personaggi sono davvero stucchevoli, “architettati” e inverosimili, e si “sente” che è stato scritto da un poco più che ventenne inesperto probabilmente coadiuvato da una schiera di editors.
Resta il fatto che il libro ha venduto migliaia di copie e questo, una volta di più, mi lascia stupefatto sui gusti barbari della massa di lettori comuni che si lasciano irretire dalla pubblicità e dalle stronzate.
Un’ennesima conferma di ciò che sostenevo qualche post addietro: volete avere successo? Scrivete cazzate. E pubblicizzatele bene.
Il Lettore amareggiato