venerdì 29 giugno 2018

Il richiamo del cuculo


Ed ecco J.K. Rowling sotto una nuova veste, quella di giallista, e con uno pseudonimo: Robert Galbraith, quasi a voler rinnegare definitivamente il maghetto che l’ha resa miliardaria.
Ma sarà un caso che questo Il richiamo del cuculo ha cominciato a vendere solo quando si è saputo chi in realtà si celava sotto il nome di Galbraith?



Intendiamoci bene: questo romanzo non è affatto da da buttare via: io l’ho trovato abbastanza piacevole e sicuramente più soddisfacente de Il seggio vacante, tanto per restare sulle opere del post-Potter, con una buona trama e uno svolgimento fatto bene, personaggi simpatici e ben caratterizzati e buona contestualizzazione. Un giallo di media qualità, non abbastanza entusiasmante ma pienamente leggibile.
Il protagonista Cormoran Strike è un investigatore privato squattrinato, reduce di guerra e senza una gamba per una ferita in combattimento, e il cui rapporto di coppia con una donna splendida ma mentalmente instabile è appena terminato. Per di più è figlio di un musicista che a suo tempo è stato un idolo delle folle, e con il quale non ha molti rapporti ma che gli viene ricordato in continuazione da chiunque incontri.
Il detective si trova a dover investigare sul suicidio di una modella bellissima e famosissima, che il fratello di lei crede non sia stato affatto un suicidio. Da qui, lui e la sua aiutante indagano e interrogano chiunque abbia avuto a che fare in qualche modo con il caso fino a scoprire come è andata veramente.
Il giallo è ben costruito e la risoluzione soddisfacente. La vicenda è leggera, pur con qualche morto di mezzo, e la caratteristica dell’essere un “giallo” è pienamente rispettata. L’unico punto che mi sento di sottolineare negativamente è la ormai consueta, fastidiosa prolissità di Joanne Kathleen Rowling che in alcuni punti ha sfiorato una vera e propria logorrea. Ripeto: non che il romanzo sia noioso come lo è stato quello di cui fornisco il link sopra, ma ci è andata pericolosamente vicino, salvandosi grazie all’interesse suscitato dai personaggi accattivanti.
Colei che mi ha gentilmente prestato questo romanzo, grazie, mi dice che è il primo di una serie della quale possiede anche i successivi.
Penso che perlomeno un altro con gli stessi protagonisti principali prima o poi lo leggerò.
Il Lettore



martedì 26 giugno 2018

Non sfidarmi


Per avere qualcosa di buono bisogna tornare all’estero.
La prima e più importante domanda che si pone un lettore di Lee Child quando si appresta a leggere l’ultima, attesissima avventura di Jack Reacher, è se questa sarà scritta in prima o in terza persona, perché le narrazioni si sono susseguite fino ad ora quasi in modo casuale tra l’uno e l’altro metodo senza far supporre uno schema ciclico ricorrente.
Seguita a ruota dalla curiosità di sapere il dove Reacher agirà in quest’ultima occasione, perché il succitato ipotetico lettore sa già di trovarsi in mano un libro che in ogni caso lo soddisferà.
A distanza di un anno dal precedente, questo Non sfidarmi è uscito in libreria il mercoledì pomeriggio (con un giorno in anticipo sull’annunciato), la mattina successiva l’ho preso e il venerdì mattina ne avevo già terminato la lettura.
Con la stessa soddisfazione di sempre.

  

Stavolta l’azione, narrata in terza persona, è collocata principalmente in Germania a circa metà degli anni ’90, quindi qualche anno prima del congedo di Reacher dall’esercito in cui è ancora un maggiore di una branca speciale della polizia militare.
Reacher dovrà ricercare, individuare e fermare una persona, avendo solo pochissimi dati a disposizione, dei quali non fa parte nemmeno il nome ma si sa solo che è americana, prima che questi venda un “qualcosa” a una “forse” organizzazione terroristica.
Gli indizi sono veramente inconsistenti, ma Reacher trova ad aiutarlo tutta l’organizzazione di intelligence statunitense e la sua vecchia amica Frances Neagley, il letale sergente maggiore affetto da aptofobia (o afefofobia, cioè la repulsione nei confronti dell’essere toccata da qualcuno), alla quale ha già fatto ricorso (o “dovrà” fare ricorso, visto che il libro è uscito già qualche anno fa ma la vicenda è temporalmente quasi di vent’anni successiva a questa) nello splendido Vendetta a freddo.
Come al solito Reacher riuscirà a sbrogliare la matassa, troverà la persona e salverà il mondo dal una possibile tragedia, facendo giustizia a modo suo fregandosene delle leggi, ma mettendo sempre al primo posto la “sua” morale che in ogni caso è perfettamente condivisibile.
Oltre a trovare il tempo per la consueta relazione sentimentale “mordi e fuggi” anch’essa descritta senza una parola in più o una in meno dalla perfezione.
Ottimo Child come sempre: scrittura sopraffina, come sempre tutto il necessario inserito al punto giusto e nulla di superfluo.
Un gran piacere.
Il Lettore

venerdì 22 giugno 2018

Il metodo Catalanotti


A dispetto delle numerose recensioni entusiastiche che si sono affannate a spiegare quanto questo romanzo sia eccezionale (14 su 16 su IBS - ! -), e che a me hanno confermato solo quanto la gente non capisca nulla in realtà di ciò che sta leggendo e sia dotata di una capacità critica prossima allo zero assoluto, devo confessare che a me  pirsonalmente questo è il primo romanzo di Montalbano che non mi è piaciuto proprio.
Un calo di stile deludente da parte di Andrea Camilleri, oserei dire più che un calo un vero e proprio tonfo, e me ne dispiace davvero.

  

L’indagine in se stessa ci potrà anche stare, anche se i presupposti su cui si basa sono alquanto inverosimili (come ad esempio il fatto che un Mimì Augello prenda una cantonata in maniera così grossolana), ma a me non sono piaciuti principalmente il modo di narrare, diverso dal solito, molto più superficiale, facendo troppo ricorso a situazioni ormai da tempo consolidate e stereotipate fino a raggiungere una certa patina di stucchevole, e soprattutto il comportamento di un Salvo Montalbano sulla via del rincoglionimento senile.
E' come se Camilleri si fosse fatto un elenco delle cose che di Montalbano in genere piacciono e abbia insistito (ed esagerato) su quelle.
Ora, capisco benissimo come un sessantenne possa pure perdere il lume della ragione per una donna molto più giovane, ma il rapporto tra il Commissario e il nuovo capo (provvisorio) della Scientifica mi è apparso nettamente sopra le righe, veramente esagerato. Con una donna, poi, che in altri momenti della sua vita Montalbano stesso avrebbe mandato a cagare subito (senza farsene tanti pensieri) per la sua freddezza e antipatia.
Invece nasce la cotta fulminante, tanto da far (finalmente!) mettere da parte Livia e rispondere sgarbatamente a Fazio. Addirittura.
E stavolta risulta esagerato anche il rapporto idilliaco di Montalbano con il cibo, tirato in ballo più del solito nelle situazioni più diverse fino a sfiorare situazioni che non sarebbero dispiaciute al Ferreri de La grande abbuffata.
Per dirla tutta, ma di questo non ne sono sicuro al 100%, secondo me è stato leggermente modificato anche il modo di scrivere nello stretto dialetto siciliano dell’agrigentinese. Molti termini non mi sono sembrati i soliti, quelli a cui ero abituato, ma sono stati variati di poco: “amuninni” invece che “iamuninni”, per “andiamo”, e così via anche per altri, ma è tranquillamente possibile che in questo mi sbagli io.
Questo è un romanzo che può soddisfare quelle persone che si sono avvicinate a Montalbano solo da poco, non coloro che lo conoscono fin dall’inizio e hanno letto tutte le sue avventure.
Il Lettore

venerdì 15 giugno 2018

Mi chiamo Simone


Dopo Ugo e il partenopeo Commissario Criscuolo ecco che Massimo Bertarelli cambia ancora personaggi e ambientazione del suo nuovo romanzo, lasciando stavolta quasi invariato il titolo (dopo Mi chiamo Ugo adesso Mi chiamo Simone), e del tutto lo stesso il creatore e realizzatore della copertina: il mitico disegnatore Claudio “Ferro” Ferracci, che dopo palazzi di Monza, scarpe da poveraccio e cartelli artigianali, si è trovato ad aver a che fare con ombre ed edicole in puro stile “noir”.
È questo il romanzo che vi avevo anticipato di aver già letto a suo tempo in formato elettronico nella sua forma embrionale, appena scritto, sul quale “Max” voleva un parere (da uno che se ne intende, hi, hi, hi…).



E il parere è stato positivo fin da allora: questo romanzo mi è piaciuto subito, fin dall’inizio.
Poi, appena mi è arrivata la copia in cartaceo con tanto di dedica personalizzata, lo ho riletto con piacere per poter scrivere questo post. Visto l’andazzo di questi ultimi tempi avevo pensato che a finirlo ci avrei messo un po’ di più, ma la scrittura di Massimo Bertarelli è come un bicchiere di acqua fresca quando hai sete: dopo due giorni l’avevo finito. Con lo stesso piacere della prima volta. Anzi, ancora maggiore perché conoscendolo già nelle grandi linee mi sono gustato i particolari.
Una cosa che ho notato è la perfezione: non un refuso, non una virgola fuori posto, non una parola inesatta. Io perlomeno non ne ho visti. Quindi una notevole cura editoriale, molto meglio di tante case editrici blasonate, e a monte un notevole impegno dell’autore nel riguardare e correggere.
In tutto il romanzo un solo termine mi ha fatto storcere il naso, di pochissimo, e nessun’altro oltre me ne sarà rimasto colpito. A pagina 166 si legge la frase “Uno dei pochi semafori superstiti lo trovo rosso, manco a farlo apposta, a Biassono, in pieno centro a fianco della caratteristica torre dell’acquedotto.
Quel “caratteristica” a me è sembrato superfluo, ridondante, un’inutile precisazione dal tono vagamente pubblicitario (il perché completo di questa mia critica è spiegato qui). Un appunto leggero, opinabile e per nulla importante, per un aspetto che avrà colpito solo un rompipalle pedante come me.
Per il resto null’altro da dire: la trama c’è, lo stile è fresco e veloce, i personaggi sono ben delineati, le curiosità innescate vengono risolte e tutto questo ne fa un romanzo leggero e piacevole, che si legge con gusto nello stile a cui ormai Massimo Bertarelli ci ha abituato.
Per quanto riguarda i personaggi l’autore si è rifatto alla vicenda di quello che può essere considerato il suo primo romanzo di successo: Mi chiamo Ugo, di cui ho parlato nel link citato sopra. Viene tirato in ballo lo stesso rappresentante delle forze dell’ordine coinvolto in quel libro: il commissario Munafò, a cui viene chiesto aiuto da Simone per aver notato delle cose strane che stanno succedendo nel suo quartiere.
Simone è l’edicolante di una zona di Monza, un quasi cinquantenne con il desiderio di redimersi da un passato da delinquente che gli ha fatto passare qualche anno in carcere. Narra in prima persona e al tempo presente di come, essendo venuto a conoscenza che alcuni tipi poco raccomandabili stanno agendo vicino a casa sua, decida di: A) informare la polizia; B) fare qualcosa per conto proprio (hai visto mai che i piedipiatti sono troppo lenti). Mentre, in alcuni capitoletti, dei fatti che succedono a Munafò sono narrati in terza persona.
Simone è attorniato da una schiera di amici e conoscenti simpatici e ben caratterizzati, a partire dall’anziana e dolce Paola, che contribuiscono a loro volta a meglio descrivere il carattere di Simone stesso.
Tecnicamente, se nei suoi romanzi precedenti Massimo Bertarelli aveva lasciato che lo influenzassero Gianrico Carofiglio, Andrea Camilleri e Maurizio De Giovanni, in questo ha lasciato che a farla da padrone fosse lo stile di Lee Child. Gli è riuscito benissimo: le scene d’azione sono precise, dinamiche e coinvolgenti, lo stesso Child non avrebbe saputo fare di meglio. Complimenti.
Che dire di più? Se volete un romanzo ben scritto e pienamente godibile, da tutti, leggetevi le avventure di Simone (che smielatura! Che pubblicità smaccata! Quasi quasi mi faccio schifo da solo…) e non ve ne pentirete.
Per chi fosse interessato: stiamo organizzando una presentazione qui a Perugia dell’altro romanzo di Massimo Bertarelli, Giallo d’Ischia, nella quale parleremo anche di questo Mi chiamo Simone. Probabilmente sarà in settembre e ci sarà anche lo stesso Massimo insieme a Claudio Ferracci. Non vedo l’ora, dal momento che con Massimo ci conosciamo solo epistolarmente e non ci siamo mai visti di persona pirsonalmente.
Vi terrò informati.
Il Lettore

lunedì 11 giugno 2018

L’ultima caccia


Ed eccoci ad un altro romanzo di Joe R. Lansdale. Un romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia, l’ennesima chicca dello scrittore texano. Un romanzo di formazione come molti altri che Lansdale ha scritto, dedicato all’essere adolescenti in procinto di diventare adulti. Un romanzo adattissimo per ragazzi.
Forse è per questo che Lansdale per una volta ha messo da una parte le parolacce e il linguaggio scurrile.



Richard Dale è un quindicenne texano ai tempi della grande depressione. Con il suo amico di colore Abraham si imbarca in una caccia al cinghiale che ha massacrato i suoi cani e terrificato sua madre incinta di un suo nuovo fratello. Un cinghiale gigantesco, vecchio, cattivo e spaventoso che si è già reso responsabile di altre uccisioni ed è temuto da tutti.
Quelle impronte erano grandi quasi quanto la mano di un uomo corpulento ed erano impronte di cinghiale. Non dovetti pensarci sopra a lungo per capire che quella che stavo osservando era opera del Vecchio Satana, il Cinghiale del demonio”.
A dir loro come devono condurre la caccia c’è il nonno di Abraham, il vecchissimo Pharaoh, un ultracentenario a cui il Vecchio Satana ha distrutto le gambe ed è costretto ad essere trascinato in giro su un carretto trainato da un maiale.
Gli ingredienti ci sono tutti: due ragazzi che stanno crescendo, un essere che incute timore, il coraggio di cui riempirsi, la paura da allontanare, il piacere della caccia, l’incombenza della morte, un vecchio mentore da cui essere guidati, la trasformazione dei due adolescenti in uomini.
E ci sono anche le tecniche di scrittura: contestualizzazione esauriente, ritmo serrato, descrizioni precise, metonimie accurate. Un’altra piccola perla del creatore di Hap e Leonard.
Per scrivere la quale Lansdale è ricorso ai ricordi personali: l’ambiente del sud degli Stati Uniti è quello della sua infanzia (con solo una quarantina d’anni di differenza che non sono poi  così significativi), così come la povertà e i vicini di casa; il padre del giovane Richard, per arrotondare i magri introiti di famiglia, fa il lottatore nelle fiere di paese così come ha fatto lo stesso padre dello scrittore; gli animali e la natura che circondano i due ragazzi sono gli stessi che hanno fatto compagnia allo scrittore nella sua giovinezza.
Un bel romanzo, e ai fini del piacere di lettura non importa poi così tanto che il finale sia scontato fin dall’inizio.
Il Lettore