giovedì 30 gennaio 2014

Il grande libro di Simon’s cat

Torniamo ai fumetti, o meglio alle strisce, ai cartoons e alle vignette con le quali Simon Tofield racconta la convivenza con il suo gatto in una serie esilarante di situazioni che possono essere riscontrate da tutti i possessori (o meglio: posseduti) di un felino domestico. Nella vita reale Tofield di gatti ne ha quattro, dal cui normale comportamento trae lo spunto per ironizzare sulla coesistenza umano/felina con quell’irresistibile humour britannico che ha permesso al suo personaggio di diventare in breve tempo un fenomeno del web con più di 400 milioni di visualizzazioni su Youtube.


Dagli inizi del Novecento ad oggi il mondo del fumetto e delle arti illustrate ha sfornato una miriade di personaggi in forma di gatto (da Mio Mao a Garfield, a Huckle, a Silvestro a Felix a Jiji a Zorba a Tom a Romeo al Gatto con gli Stivali a Birba a Gambadilegno a Lucifero allo Stregatto e a tutti gli altri gatti con o senza nome che ora non mi vengono in mente), e questo simpaticissimo micio è solo uno degli ultimi della serie di felini che ha saputo divertire milioni di persone.
Simon’s cat non ha un nome, è solo il gatto di Simon, a differenza del Nuovo Arrivato (da chissà dove), un micino pestifero che ne combina di tutti i colori facendo imbestialire sia Simon che il suo gatto e che in alcuni episodi prenderà il nome di Teddy.
Il gatto di Simone invece è un adulto con la fissazione del cibo, adorabile ma tendente all’anarchia come tutti i gatti e disposto a qualsiasi bassezza, anche a travestirsi da nido, pur di soddisfare la sua mania alimentare. I personaggi che lo contornano spaziano da uccelli a porcospini, da cani a conigli e non può mancare il nanetto da giardino al quale il gatto cerca in più di un’occasione di addossare la colpa delle proprie nefandezze. Se volessimo fare un paragone lo potremmo avvicinare al Garfield delle prime strisce: cinico, menefreghista, egocentrico e tendente alla pinguedine, ma a differenza del personaggio di Jim Davis il nostro eroe non si esprime attraverso parole o pensieri ma unicamente con la gestualità, limitandosi a dei concisi “mao” quando vuole attirare l’attenzione in maniera più decisa.


Lo stile del disegno è semplicissimo, lineare e quasi stilizzato con un uso di chiaroscuri molto limitato, ma nonostante ciò Tofield riesce a rendere perfettamente le tipiche espressioni dei gatti giocando su minime variazioni della forma degli occhi (costituiti solo da un cerchio con un punto all’interno), di bocca, naso e orecchie, trasmettendo con precisione al lettore gli stati d’animo e le intenzioni che animano le bestiole.


Come possono concordare tutti coloro che convivono con dei gatti, la casa di Simon è perennemente uno sfacelo, qualsiasi iniziativa lui si appresti ad intraprendere è destinata al fallimento e anche l’attività più semplice, come mangiare un panino, dormire o lavarsi i denti, viene complicata fino all’esasperazione dalla presenza di questi pericolosi agenti disturbatori in forma di peluche.
Come la bastarda che mi sta passeggiando sulla tastiera del computer e sembra che ora stia facendo proprio lo stesso gesto del gatto di Simon: quell’indice puntato ad indicare una piccola bocca spalancata.


Il Lettore

martedì 28 gennaio 2014

La casa dalle finestre nere

Anche in questo caso, se proprio un difetto vogliamo andarcelo a trovare, in questo romanzo di Clifford Simak del 1963, possiamo puntare un occhio bonario sull’ingenuità con cui l’autore guarda alla possibilità dello scontro nucleare tra superpotenze che in quel periodo angosciava mezzo mondo. Basta. Per il resto, il romanzo rimane ancora oggi uno dei massimi capolavori di fantascienza che siano mai stati scritti: soddisferebbe anche quei lettori che non amano questo genere di letteratura.


Clifford Donald Simak è considerato uno dei massimi autori di Science fiction di sempre, anche se non ha avuto il seguito di mostri sacri come Isaac Asimov, Ray Bradbury o Arthur Clarke, ma con le sue opere ha saputo dare origine ad una cerchia consistente di  appassionati che ne hanno fatto un vero e proprio autore di culto. Un po’ quello che è successo anche a Walter Tevis o Richard Matheson.
Questo perché nello scrivere Simak ha sempre tenuto presente temi degni di attenzione, come lo scontro uomo/natura e la dicotomia esistente tra progresso e tecnologia da una parte e valori umani dall’altra, e li ha stesi con la finezza che gli è propria dotandoli di quella consistente carica di fascino che ha reso famosi romanzi come Anni senza fine, Mastodonia, Pellegrinaggio vietato, Fuga dal futuro e altri.
Anche se il titolo può far pensare ad un classico dell’horror, La casa dalle finestre nere si dipana sulla base del concetto di un possibile contatto di noi terrestri con civiltà aliene, dipinte in questo caso da Simak con un positivismo di fondo che infonde una nota di roseo ottimismo alla storia e alle sue conclusioni. Nel romanzo le figure dei personaggi sono tratteggiate con un garbo squisito che sfocia a volte nella poesia, rendendo la lettura semplice e fresca e suscitando continui spunti di curiosità.
La tensione narrativa è innescata dall’autore fin dal primo capitolo, nel quale non appare il protagonista ma due personaggi che si interrogano sulle possibili ragioni per le quali un certo Enoch Wallace, stando ai documenti, sembra avere la rispettabile età di 130 anni con l’aspetto di un uomo di 30. È vero che Wallace è un tipo tranquillo e conduce una vita da eremita senza infastidire nessuno, ma simili discrepanze prima o poi saltano fuori, soprattutto agli occhi di un governo che come tutti i governi non si fa mai gli affari propri e deve continuamente rompere le scatole ai cittadini tranquilli. Il far entrare in scena il protagonista solo nel quinto capitolo ricalca quella tecnica che Umberto Eco descrive benissimo nella sua analisi critica della prima tavola del fumetto Steve Canyon di Milton Caniff, apparsa in Apocalittici e Integrati: aumentare la curiosità del lettore attraverso un “ritardare l’aspettativa”, cioè inquadrare il protagonista dapprima attraverso riferimenti di comprimari, e quindi farlo apparire solo in seguito.
È una tecnica interessante: si dà inizio alla storia definendo un gruppo di personaggi e tramite essi si accenna al protagonista e si promette un seguito, creando in definitiva una suspence anche senza colpi di scena e suscitando nel lettore l’avidità di sapere come la storia prosegua.
E quando finalmente la vicenda è vista dagli occhi di Wallace il lettore viene a conoscenza della soluzione agli enigmi che assillano i personaggi di contorno: il protagonista è il responsabile di una “stazione di transito” intergalattica, una specie di punto di appoggio per viaggiatori interstellari nel quale fanno scalo alieni che si spostano da un pianeta all’altro, prendendosi un momento di riposo sulla Terra come noi potremmo scendere a prendere un caffè a Roma Termini mentre stiamo andando a Napoli. Già questo è un ottimo punto di partenza per poter caratterizzare personaggi e civiltà aliene, senza contare che, come in tutte le trame che si rispettano, la vicenda sarà complicata dall’insorgenza di un grosso problema e dai tentativi per una soddisfacente risoluzione.
Gran romanzo, mi ha fatto venire voglia di rileggere anche gli altri di Simak.
Il Lettore

domenica 26 gennaio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 26 gennaio

La rilettura di Neanche gli Dei ha dato la stura alla voglia di rileggere ancora altri classici del genere fantascientifico. Dopo averne fatto un’ingozzata suppergiù all’età di vent’anni, ed essermi pappato pressoché tutti gli autori conosciuti, per un pezzo mi sono dedicato ad altre letture, ma ultimamente sento rinascere il desiderio di tornare a quel genere che mi aveva dato non poche soddisfazioni. Sarà un indizio della vecchiaia che incombe?


Ecco gli indizi del quesito di questa settimana:
1 – Ovviamente, visto il preambolo, è un romanzo di fantascienza.
2 – L’autore è americano, ma non di origine, ed è molto famoso, ma non quanto un Asimov.
3 – Ci sono creature aliene, altrimenti che fantascienza sarebbe?.
4 – Il romanzo è uscito negli Stati Uniti pressoché in contemporanea con la morte di J.F.K.
5 – Il romanzo ha ottenuto un importante riconoscimento vincendo uno dei premi più famosi per la letteratura sulla Science fiction. Non vi dico quale altrimenti andate subito su Google a digitare “premio Pincopallino 19..” e lo trovate subito.
Freereader

venerdì 24 gennaio 2014

Neanche gli Dei

Chissà per quale strano motivo mi è presa la voglia di rileggere, a distanza di quasi quarant’anni da quando me l’ero gustato la prima volta, questo capolavoro di Isaac Asimov. Forse perché sto passando un momento in cui sono particolarmente schifato della nostra attuale situazione politica, e mi sono tornati in mente i tre sintagmi successivi che fanno da cappello alle tre parti in cui il romanzo è diviso e che presi insieme costituiscono una profonda verità di Friedrich Schiller:

Contro la stupidità / neanche gli Dei / possono nulla.


Asimov ideò questo romanzo dopo quasi dieci anni che non scriveva di fantascienza, essendosi dedicato completamente alla divulgazione che trovava assai più remunerativa (e questo nonostante fosse già considerato il più grande scrittore di hard science fiction esistente: da considerare che è suo anche quello che è considerato il più bel racconto del genere mai scritto, Notturno, elaborato quando aveva 21 anni). Un decennio che evidentemente gli è servito, dal momento che l’autore stesso ha specificato che questo è il suo romanzo di fantascienza preferito e il libro stesso ha ottenuto i maggiori riconoscimenti della letteratura fantascientifica: il Premio Hugo e il Premio Nebula.
Oltretutto, Neanche gli Dei, oltre ad essere diventato un caposaldo della letteratura fantascientifica, potrebbe essere preso ad esempio per spiegare due concetti utili a tutti gli aspiranti scrittori: l’ipotesi da cui partire e l’ellissi letteraria.
Una delle tecniche che si utilizzano nei corsi di scrittura creativa  per stimolare le capacità creative degli allievi è quella di ipotizzare una determinata situazione e porsi la domanda: che cosa succederebbe se… ? Che cosa succederebbe se finalmente al governo salissero persone dotate di un briciolo di cervello? Che cosa sarebbe successo se Otello non avesse creduto alle false accuse di Iago? Eccetera.
Nel nostro caso la domanda che si pone Asimov è: “che cosa succederebbe se un ricercatore scoprisse l’esistenza sulla terra di una certa quantità di plutonio 186?” Dal punto di vista chimico l’esistenza dell’isotopo di plutonio 186 è del tutto impossibile: il plutonio ha peso atomico 244, e ciò significa che per essere stabile ha bisogno all’interno del suo nucleo di 94 protoni e circa 150 neutroni a bilanciarli. Un ipotetico atomo di plutonio 186 avrebbe una vita lunga nemmeno un trilionesimo di trilionesimo di secondo. Ma se per caso venisse trovato… Asimov parte da questo paradosso e costruisce un universo parallelo, un parauniverso nel quale le leggi della fisica sono diverse da come noi le conosciamo, finendo con il mettere in comunicazione i due universi attraverso un dramma nel quale sono in gioco le loro stesse esistenze.
Se nel romanzo può essere individuato un punto debole, questo consiste proprio nella consueta logorrèa dell’autore russo, che come sua abitudine si dilunga a volte eccessivamente (anche se questo modo di scrivere è considerato con simpatia dai suoi affezionati), ma in questo caso la prolissità è riscattata dal modo geniale in cui Asimov ha scritto la parte centrale del romanzo, quella ambientata nel parauniverso e nella quale mostra la vita degli antagonisti alieni.
Non a caso ho scritto mostra, in corsivo per catalizzare l’attenzione, perché Asimov non si mette a raccontare, ma con un mirabile ricorso all’ellisse fa letteralmente calare il lettore all’interno del mondo alieno senza spiegargli i perché e i percome delle sue affermazioni e delle scene che si trova ad affrontare. Asimov dà per scontato, non specifica chi sia un Morbido o per quale motivo un Sinistride brilli a volte in quel modo: il lettore lo capisce a poco a poco proseguendo nel romanzo, ma è proprio il mostrare senza superflue spiegazioni che innesca nel lettore la curiosità necessaria a proseguire. Nell’affrontare la seconda parte del libro ci si trova dapprima spaesati, ma l’interesse cresce andando avanti fino ad arrivare a comprendere la complessità di una società del tutto immaginaria senza che l’autore si sia messo a descriverla. Basta questo a classificare il romanzo come un capolavoro.
Lo stesso Asimov aveva già utilizzato questa tecnica sia nella trilogia del Ciclo della Fondazione che in Io, robot, sia nel racconto Sulle proprietà endocroniche della Tiotimolina risublimata, scritto da dottorando all’età di 28 anni e con il quale elabora un esperimento: far passare un racconto inventato per un vero articolo scientifico. O viceversa. La Tiotimolina di Asimov è un composto capace di sciogliersi in acqua prima che lo sperimentatore la immerga nel liquido, e questo grazie alla sua contemporanea esistenza sia nel presente che nel futuro (il bello è che se il ricercatore furbino fa soltanto finta di immergerlo, il composto non si scioglie…). La genialità di Asimov è consistita nello scrivere il racconto come se fosse il risultato di una vera ricerca scientifica, con tanto di grafici, tabelle e bibliografia. Il racconto/articolo fece scalpore, tanto che all’esame finale della tesi per il dottorato uno degli esaminatori gli chiese per scherzo di illustrargli le proprietà della Tiotimolina…
Il Lettore

mercoledì 22 gennaio 2014

Senza trama e senza finale

Quella squisita persona che è l’editore che pubblica i miei libri mi ha regalato per Natale questa raccolta di brani tratti dal nutrito epistolario di Anton Cechov. Mi ha fatto felice e, proprio perché lo ritengo una persona squisita, non mi ha sfiorato nemmeno per un attimo il pensiero che con un regalo del genere abbia voluto suggerirmi qualcosa…


Come dice il sottotitolo: “99 consigli di scrittura”, i brani raccolti da Piero Brunello provengono tutti da lettere che Cechov ha inviato ad altri scrittori, ad amici e parenti, e sono stati scelti estrapolando dalle lettere quei passi nei quali l’autore russo esprime il suo pensiero nei confronti della scrittura. Consigli preziosi, se lo stesso Raymond Carver dichiarava, nelle sue lezioni di scrittura creativa, che Cechov aveva avuto un’enorme importanza per il suo lavoro. Suggerimenti per tutti coloro che in un qualsiasi modo si stanno cimentando nella scrittura.
A detta di molti, Cechov è il più grande scrittore di racconti mai esistito, e per questo si può star sicuri che ogni sua affermazione possiede uno spessore non indifferente.
In sole ottanta pagine sono condensate talmente tante perle preziose per tutti gli scrittori che potrei utilizzarle per parecchi mesi come corollario alla scritta Freereader che campeggia in cima a questa pagina (e in effetti una ce n’è già, e qualcun’altra in futuro ce ne leggerete…), sia riguardanti considerazioni a carattere generale: “I migliori scrittori «ritraggono la vita com’è», ma in modo tale che leggendo si senta «come dovrebbe essere», ed è questo che vi avvince”; sia a sfondo filosofico: “Il proprio piacere è una bella cosa, certo; lo si prova scrivendo, e poi?”; sia riguardanti la tecnica di scrittura in modo più specifico: “Non forbire, non limare troppo, sii sgraziato e audace. La brevità è la sorella del talento”; oppure: “Non inventare sofferenze che non hai provato, non descrivere paesaggi che non hai veduto – giacché in un racconto la menzogna infastidisce assai più che in una conversazione”.
E ancora: “Potete piangere o gemere sopra un racconto, potete soffrire insieme con i vostri personaggi, ma ritengo che bisogna fare in modo che il lettore non se n’accorga”.
Consigli per ottenere i quali in molti oggigiorno frequentano i corsi di scrittura creativa sborsando non pochi quattrini, corsi che in buona parte dei casi sono tenuti da personaggi che non fanno di nome Anton Cechov.
Il Lettore

lunedì 20 gennaio 2014

Il conte di Montecristo

Che in questo caso non è il celeberrimo romanzo di Alexandre Dumas, ma il titolo di un racconto di Italo Calvino pubblicato sia nella raccolta di racconti Ti con zero (Einaudi), che in Calvino - Romanzi e Racconti II (Mondadori) e in Racconti matematici (Einaudi), e il cui protagonista è lo stesso Edmond Dantès di Dumas inquadrato nel corso della sua prigionia nel castello d’If.


Il racconto fa parte del periodo dedicato da Calvino alla riscrittura combinatoria, con la quale l’autore ha sentito la necessità di analizzare testi scritti da altri e di sottoporli ad un’opera di “restauro” che ne arricchisse il carattere con la sua personale interpretazione, e mostra un Dantès riflessivo e meditabondo all’interno della sua cella mentre impiega il suo tempo alla ricerca di una concreta possibilità di evasione.
Gli fa compagnia, senza nemmeno accorgersene, un abate Faria còlto anche lui nella frenetica attività di mettere in atto continui tentativi di fuga, tutti contraddistinti dal carattere empirico e fallimentare, sulla base dei quali Dantès cerca di costruire deduttivamente un suo personale piano di evasione.
Ma la genialità di Calvino consiste nell’aver traslato i due personaggi su un diverso piano di lettura, facendoli diventare i metapersonaggi di un iperromanzo nel quale si confrontano con lo stesso Dumas per cercare di individuare quale, tra tutte le varianti narrative possibili, sarà quella che potrà permettere loro di fuggire dalla prigionia.
Il lettore rimane sorpreso infatti quando l’abate, nel corso di uno dei suoi molteplici ed inutili tentativi, irrompe nello studio dello stesso Dumas e scartabella tra i fogli in cui sono riportate le numerose varianti del romanzo alla ricerca di quella in cui è descritta l’evasione definitiva, entrando così in una metanarrativa che mescola realtà e finzione letteraria.
Oltre a ciò, dal racconto emerge la prosa squisita di Italo Calvino, sia nelle poderose descrizioni fisiche dell’ambiente-fortezza che nelle elucubrazioni deduttive del marinaio, che spaziano dalla geometria solida nel cercare di immaginarsi una plausibile struttura del castello alle riflessioni sulle intersezioni possibili tra finzione romanzesca e realtà storica.
E come non ammirare la vicinanza a Borges e al suo Aleph quando Calvino afferma: “In un caso o nell’altro, a ben vedere, egli [l’abate Faria] tende al medesimo punto d’arrivo: il luogo della molteplicità delle cose possibili. A volte io mi rappresento questa molteplicità concentrata in una risplendente spelonca sotterranea, a volte la vedo come un’esplosione che s’irradia. Il tesoro di Montecristo e la fuga da If sono due fasi d’uno stesso processo, forse successive o forse periodiche come in una pulsazione”.
Se non l’avete ancora fatto leggetelo, venti minuti di tempo ben spesi.
Il Lettore

sabato 18 gennaio 2014

Lo Squizzalibro di sabato 18 gennaio

A ha! Sorpresi, eh? Non ve l’aspettavate uno Squizzalibro di sabato, vero? Questo perché sono doppiamente perfido: vi farò aspettare fino a lunedì per scoprirne la soluzione, e non solo il quesito è difficile, ma difficilissimo, perché l’oggetto del quesito non è nemmeno un libro…


1 – …ma è un singolo racconto.
2 – E nemmeno famosissimo come Le nevi del Kilimangiaro di Hemingway o Il gabbiano di Cechov. Conosciuto sì, famoso no.
3 – L’autore lui sì che è famoso: italiano, colonna portante della letteratura del Novecento, deceduto da qualche anno.
4 – Il racconto è narrato in prima persona da un personaggio letterario, anche costui molto famoso.
5 – Il titolo del racconto è ripreso pari pari da un classico della letteratura.
A voi le risposte…
Freereader

giovedì 16 gennaio 2014

Altri consigli ad uno scrittore esordiente

Visto che sembra che questo argomento interessi a parecchie persone, continuiamo sull’onda dei suggerimenti per aspiranti scrittori. Stavolta i consigli non sono miei, ma di Sandrone Dazieri, ex militante ambientalista, scrittore e sceneggiatore, autore della serie di romanzi del “Gorilla” e del serial televisivo “Squadra antimafia”. Dal momento che comunque ne condivido i pensieri ho pensato di riportarli per chi non si fosse ancora imbattuto in questo post.
Li potete trovare qui:


E in pratica il consiglio è uno solo: lascia perdere.
Sono consigli deprimenti, è vero, ma a differenza dell’indisponente ironia fuori luogo del De Silva sono molto reali e concreti. Sono veri, ecco la differenza. Succede proprio come afferma Dazieri: è molto molto difficile che il romanzo di una sedicenne sia buono, è ancor più difficile pubblicare, è praticamente impossibile avere successo.
L’unica aggiunta che posso fare è quella che magari il consiglio di lasciar perdere è un po’ eccessivo, anche se molte volte sarebbe andato anche a me di elargirlo a qualcuno di quelli che hanno provato a farsi pubblicare non possedendo la minima capacità di vergare scritti. Lasciar perdere del tutto no, continuare a provare senza illudersi sì. Magari cercando di migliorarsi quanto più possibile. Non aggiungo altro.
Un ringraziamento ad A. M. per aver rilanciato il post su FB, altrimenti mi sarebbe sfuggito.

Il Lettore

martedì 14 gennaio 2014

Le colpe dei padri

Tirando le somme, il romanzo di Alessandro Perissinotto mi è piaciuto, ma in un’analisi a posteriori si capisce il perché, pur essendo arrivato secondo con 78 voti nella classifica del Premio Strega 2013, non è riuscito a vincerlo ed è stato surclassato dai 165 voti assegnati a Walter Siti. Tutto ciò ammettendo che i giudizi siano stati equi e non abbiano pesato su di essi politiche commerciali e raccomandazioni (pia illusione…); né d’altra parte ho letto il libro che ha vinto, quindi in questo senso non posso fare paragoni.


Ripeto: mi è anche piaciuto, ma Le colpe dei padri, pur essendo scritto molto bene, pieno di tensione narrativa, con una storia tessuta abilmente e un colpo di scena finale almeno per me inaspettato, a parer mio finisce con lo scadere per eccesso.
Alessandro Perissinotto insegna “Teorie e tecniche delle scritture” all’Università di Torino, e non si tira indietro nell’insistere a volercelo ricordare a tutti i costi. Ciò che mi ha dato fastidio del libro è questo collocarsi ripetutamente in cattedra , nei panni di un narratore onnisciente interno alla storia, sciorinando una sicuramente superba cultura attraverso l’uso reiterato di citazioni, latinismi, descrizioni di fatti storici, conclusioni pedanti che con l’andare appesantiscono la narrazione fin quasi a farle raggiungere la forma di una metascrittura.
Cultura sopra le righe, fine conoscenza delle materie insegnate, dei meccanismi strategici delle grandi imprese, delle lotte sindacali degli ultimi cinquant’anni e della vita sociale di Torino sono ampiamente riversati in un romanzo attraverso una poderosa autoreferenzialità, che finisce col farti sperare ad ogni capitolo che l’autore la pianti di parlarsi addosso.
L’iniziare quasi tutti i capitoli esplicando, quasi in forma di dogma, un concetto che poi verrà suffragato dai fatti narrati, carica non poco la struttura del romanzo insieme allo stile di scrittura contorto, ricco di incisi e di subordinate, e se ciò ti fa apprezzare l’erudizione dell’autore, d’altra parte ti fa desiderare di leggere qualcosa di più fluido e lineare.
Pur apprezzando il finale del libro, una volta terminato, intorno alla mezzanotte di una sera in cui il sonno stentava a venire, dopo averlo posato sul comodino mi sono ingoiato un paio di racconti di Murakami: acqua pura, stilisticamente rinfrescante, sorbetto sgrassante dopo una pietanza troppo complessa.
Il Lettore

domenica 12 gennaio 2014

Come funzionano i romanzi

Che dire? È la quarta volta che lo leggo e ci ho ancora trovato qualcosa di nuovo. Questo saggio di James Wood, dal sottotitolo “Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori”, è veramente eccezionale.


Per chi non lo conoscesse, James Wood è uno, forse il più importante, dei critici letterari del New York Times, quindi di lettura e scrittura qualcosina ne capisce.
Ma capisce anche lo stato d’animo del lettore che, nei panni di un umile studente, si appresta ad affrontare un testo del genere, se egli stesso afferma: “Pensando al comune lettore, ho cercato di ridurre ciò che Joyce chiama «autentico fetore scolastico» a livelli sopportabili”. Ciò significa che non ha voluto porsi su una cattedra, ma ha intavolato con noi una discussione come se fossimo seduti su due comode poltrone di un club esclusivo ed ha iniziato a spiegarci le varie costruzioni che costituiscono l’oggetto “romanzo”, cercando di rendere piacevole e comprensibile la spiegazione. Devo dire che c’è riuscito in pieno. E la cosa curiosa è che ripercorre la storia della letteratura romanzesca prendendo come esempio solamente testi che si è trovato a portata di mano nella sua libreria domestica.
Wood parte analizzando la differenza che esiste tra la narrazione in prima persona, la narrazione condotta da un narratore esterno onnisciente e il cosiddetto stile libero indiretto, e prosegue fornendo una panoramica delle tecniche narrative utile a chiarire molti aspetti della letteratura ai quali un lettore medio non fa nemmeno caso, ma che interessano non poco tutti coloro che per una qualche ragione sono collegati al fenomeno “scrivere”. Passa agevolmente a disquisire di personaggi, di dettagli, di linguaggio, dialoghi, metafore, coscienza e convenzioni, e man mano che vai avanti non ti sembra più nemmeno di essere all’interno di un saggio ma prendi per mano Dostoevskij, Shakespeare, James, Tolstoj e molti altri e ti lasci condurre da loro in una passeggiata nel corso della quale ti spiegano il perché e il percome quel brano lo hanno scritto in quel determinato modo, con quali intenzioni e per raggiungere quali scopi.
Una specie di guida turistica nei meandri della letteratura, pienamente abbordabile da tutti coloro che non si limitano ad essere lettori passivi ma vogliono entrare nei meccanismi di formazione delle frasi e dei concetti che formano un buon romanzo.
Il Lettore

venerdì 10 gennaio 2014

Dieci consigli per affrontare un editore

Dal momento che penso potrebbe interessarvi, come contraltare al mio stesso post dell'altro ieri ho pensato di fornire io stesso alcuni consigli nel caso che a qualcuno venga in mente di spedire un proprio manoscritto ad un editore serio. I consigli sono basati esclusivamente sulla mia esperienza di Lettore, di Valutatore per una casa editrice e di Scrittore che ha pubblicato qualcosina, e ovviamente vanno presi con beneficio d’inventario. Ma non tanto.


Eccoli, buon pro vi facciano:
1 – Se avete scritto un racconto (o una poesia), ma anche due o tre, e vi viene in mente di spedirli subito ad un editore perché ritenete siano la cosa più bella che sia mai stata scritta al mondo, pensateci meglio. Anzi, rinunciate subito all’idea. Prima trovate il tempo di scriverne un’altra trentina, in modo perlomeno da avere in mano un’opera decente, poi leggete i successivi consigli.
2 – Se avete scritto un’opera completa, ad esempio un romanzo, e vi viene in mente di spedirlo subito ad un editore perché ritenete sia la cosa più bella che sia mai stata scritta al mondo, pensateci meglio. E poi ripensateci ancora. Siete ancora convinti? Va be’, proseguiamo.
3 – Se siete proprio convinti, allora il passo successivo è impaginare la vostra opera in modo che sia un piacere leggerla (ad uso pressoché esclusivo di un eventuale Valutatore): caratteri sufficientemente grandi, righe ben spaziate, margini ampi sia di lato che sopra e sotto il testo. Questo è facile, basta ricalcare una qualsiasi pagina di un romanzo in una buona edizione. Ma fatelo, renderete la lettura più piacevole a colui che dovrà giudicare l’opera e lo predisporrete in modo positivo. Non fate l’errore di sottovalutare questo aspetto.
4 – Ora sarà il caso di rileggere ciò che avete scritto. Ah, non lo avevate ancora fatto? Ecco, è arrivato il momento. Ma non una, e neanche due volte. Minimo 4 o 5 volte, muniti di dizionario e grammatica, e non velocemente: dovrete soffermarvi su ogni singola parola, e proseguire solo dopo averla analizzata. Solo così si eliminano gli errori e i refusi: i Valutatori li odiano.
5 – Ora che pensate di aver ripulito il tutto (accidenti, non pensavo mica di aver lasciato così tanti errori!), rileggetelo ancora. Niente ma, fatelo.
6 – Visto? Vi erano sfuggiti, eh! Questo dovrebbe insinuarvi un dubbio: e se ce ne fosse ancora qualcuno di cui non mi sono accorto? Ciò significa che è arrivato il momento di far leggere il testo a qualcun altro, che non si farà sfuggire l’occasione per dirvi tutti gli aspetti del romanzo che a lui non piacciono e nello stesso tempo vi farà notare malignamente che a pagina 82 avete lasciato una “a” senz’acca. Non ditegli “cavolo, l’ho riletto cinque volte!”, è quello che si aspetta e lo fareste felice. Ma se stimate l’incaricato….
7 – …tenete conto dei suoi consigli seri, e correggete dove necessario.
8 – Rileggetelo ancora. Sì, anche questo è necessario (e chiedetevi: ma provo davvero piacere nel rileggerlo?). Se sì, proseguite.
9 – Bene, ora dovrebbe essere a posto (forse). È arrivato il momento di scegliere con cura gli editori a cui spedirlo, badando che il vostro testo possa rientrare in una collana o in un filone che sia supportato da quegli editori. Soliti consigli: non spedite poesie a chi non le pubblica, non spedite romanzi erotici a chi non li ha in catalogo eccetera. Anche questo è facile, una ricerca in rete vi fornirà tutte le informazioni necessarie.
10 – Seguite i consigli che troverete in rete nei siti delle varie case editrici. Se l’Editore Pincopallino non vuole manoscritti cartacei, volete fargli un dispetto? Chi ci rimetterebbe? Se Tizio comunica che fino a novembre non accetta testi in valutazione, spedirglielo significherebbe solamente far sogghignare l’editor che si sta apprestando a massacrarvi il figlioletto.
11 – In assenza di indicazioni, fate come vi pare. Supporto cartaceo? Digitale? Stessa cosa, basta che il prodotto sia confezionato bene (come layout, intendo, non il pacchetto postale…).
12 – Nell’interloquire con l’editore cercate di essere il più sobri possibile: già deve leggere la vostra opera, l’appesantirlo con pagine e pagine di sinossi, curricula, biografie e spiegazioni varie servirebbe solo ad irritarlo. Chiarezza e stringatezza. No, è ancora troppo lungo, più conciso: all’editore non importa nulla che da adolescente scrivevi poesie.
13 – Spedite pure, anche a più editori, tanto lo sanno benissimo che l’avete mandato anche ad altri.
14 – Preparatevi all’attesa. Anche lunga. Ma anche lunga lunga. Di più: siate preparati al fatto che qualcuno non vi risponderà mai. Lo so, vi darà fastidio, ma è così. Mica sono obbligati. Rassegnatevi.
15 – Alcuni invece vi risponderanno: al 95% di voi l’opera sarà rifiutata, preparatevici in anticipo.  Adducendo scuse banali, tipo che non fa parte dei programmi editoriali, che è buona ma fuori collana, che è buona ma ha bisogno di una revisione, e altre amenità del genere. Non credeteci, sono tutte balle, studiate apposta per ferirvi il meno possibile. La verità è che il vostro romanzo fa veramente schifo, e l’amico al quale lo avete dato da leggere non ha avuto il coraggio di confessarvelo. Sorpresi? Ma le statistiche sono statistiche, pensavate davvero di essere così bravi da rientrare in quel cinque per cento? No, la verità è solo che non sapete scrivere in un modo tale che poi sia interessante da leggere. Tranquilli, non è mica una tragedia il non essere capaci a scrivere (io non sarò mai capace di pilotare un aereo da caccia, ma non per questo ne faccio un dramma, e ci fosse stata una volta che non mi è impazzita la maionese…). Qui urge una precisazione: un 10% di quel 95% di romanzi rifiutati costituisce la categoria dei romanzi “abbastanza buoni ma con i quali l’editore pensa di non riuscire a guadagnarci nulla”: il risultato è lo stesso, vi diranno sempre che non fa parte dei loro programmi editoriali, ma il convincervi di essere rientrati in questa categoria  vi servirà da consolazione.
16 – Dimenticavo. Se in effetti siete stati così bravi da rientrare in quel 5%, e ora avete in mano il frutto della vostra fatica sotto forma di un volumetto ancora intonso con il vostro nome in copertina, adesso dovete sperare di rientrare nella categoria ancora più ristretta costituita da quell’uno per mille (ma che dico, anche uno su diecimila) di autori che avranno successo, dalla quale guarderete dall’alto in basso gli altri 999 (9999) sfigati che venderanno solo qualche decina di copie ai propri amici. A questo scopo, essere un amico intimo di Fabio Fazio può aiutare.
17 – Se fate parte del 95%, e non siete troppo affranti, riprovateci con qualche altra casa editrice. Non si sa mai.
18 – Se riceverete ancora picche, e se la tenacia e la protervia fanno parte del vostro carattere, non vi rimane che farvi pubblicare a pagamento: state sicuri che un editore lo troverete subito. Che vi dirà anche che il vostro romanzo non è affatto male. Ma non lo avrà nemmeno letto.
19 – Se tenacia e protervia non sono nel vostro corredo genetico, trovatevi un altro passatempo. È possibile che magari abbiate tutte le qualità che servono per diventare campioni di burraco. E se per qualche strano motivo non riuscite proprio a farne a meno, continuate pure a scrivere, ma vi prego, non inviate i vostri elaborati al mio editore, che poi mi tocca leggerli.
Come avrete notato i consigli sono qualcuno in più di dieci. Fa niente, erano necessari. Qualcuno dirà anche che sono impregnati di cinismo. Ha ragione. Ma se questo qualcuno avesse letto una sia pur minima parte dei cosiddetti romanzi che mi sono passati sotto gli occhi, i cui cosiddetti autori pretendevano fossero pubblicati, mi avrebbe offerto una birra in silenzio.
Questo, secondo me, è il come confrontarsi con un editore. E con se stessi.
Il Valutatore e lo Scrittore

mercoledì 8 gennaio 2014

Iltuolibropuntoschif

Quelli di Il mio libro punto it non mi sono mai piaciuti. Con quel libro aperto sfogliato dal vento che come logo fa tanto colto ma poi alla resa dei conti basta che paghi e ti pubblicano qualsiasi schifezza. E i corsi, le cene, le sagre, le lotterie, gli spettacoli teatrali e i concorsi che ne premiano uno per convincerne cento a pubblicare con loro. Tutto il contrario di un’editoria di qualità. Che è quella che ora si abbassano pure a prendere in giro.
Stamattina stavo sfogliando digitalmente Repubblica.it quando mi è caduto l’occhio su questo articolo:
Dopo le prime volte che ho letto articoli di Il mio libro punto it, per curiosità, non per altro, non ho sentito più la necessità di perdere così il mio tempo, ma dal momento che il come affrontare un editore mi interessa, non ho potuto fare a meno di cliccare sopra il link.  Ho cominciato a leggere e sono inorridito di fronte ad una simile quantità di scempiaggini.
Ora, a parte che non si capisce bene verso chi sia indirizzata tutta l’ironia contenuta in quei dieci punti (le case editrici serie? I loro editor? Gli impiegati che fanno il loro lavoro? Quelli che si rifiutano di pubblicare una cagata?), mi sembra che i concetti esposti da questo De Silva non siano neanche meritevoli di un commento specifico.
Che cosa si può controbattere a una simile messe di scemenze? Forse che nelle case editrici serie, quelle per intenderci che non ti chiedono soldi per pubblicarti, la qualità è ancora tenuta in considerazione? Che è normale che le case editrici serie abbiano delle linee editoriali e dei programmi da rispettare? Oppure si potrebbe anche affermare che una casa editrice piccola ma seria non ha abbastanza fondi per pagarsi una schiera di Valutatori ed è costretta a farti aspettare, ma anche che è molto difficile rispondere sinceramente ad un autore guarda, il tuo testo fa proprio schifo, cambia mestiere (che poi sarebbe la cosa più giusta da fare nel 95% dei casi). Vuoi ironizzare sugli impiegati che per uno stipendio misero sono costretti a leggere boiate dalla mattina alla sera sperando di incappare in quella perla che sollevi loro il morale?
Oggigiorno scrivono (e spediscono agli editori) più porci che cani, e non pensate che io stia esagerando. Se c’è dell’ironia da fare, allora andrebbe indirizzata verso questa mania dilagante della logorrea creativa in forma di scrittura, che viene alimentata proprio da coloro che ne traggono guadagni a scapito di una buona qualità di lettura.
Se vuoi fornire consigli per affrontare un editore, non è questo il modo. Ma se vuoi ingraziarti un presunto scrittore i cui testi siano stati rifiutati da una casa editrice seria per farlo pubblicare con te a pagamento, allora continua così, sei sulla strada giusta.

Il Valutatore

lunedì 6 gennaio 2014

Infermo

Ok, ok, metto le mani avanti… anche i migliori possono prendere le cantonate… non infierite, che già ce l’ho abbastanza con me stesso per essermi lasciato fregare come un novellino. E poi di solito le parodie non le leggo, tant’è vero che non ho letto le Cinquanta sfumature di Gigio ma nemmeno, se è per questo, le Cinquanta sfumature di grigio del quale il primo dovrebbe essere la versione ironica. E non ne sento neanche il bisogno. Ma ogni tanto mi piace anche leggere qualcosa di leggero e divertente.

Purtroppo non è stato questo il caso.


Stavolta ho toppato alla grande e vi spiego anche il perché. Quando in libreria ho visto la copertina di cui sopra ho pensato ecco, l’ennesima parodia, quindi ho preso in mano il volumetto e sono andato in quarta di copertina dove spiccava una frase di Paolo Hendel: “È un libro bellissimo. Me l’hanno detto gli autori.” Geniale. Questo è bastato per spingermi a leggere le prime tre pagine, nelle quali ho trovato una scena ricalcata sull’apertura dell’Inferno di Dan Brown con il protagonista (Robert Condom, nelle vesti dell’eponimo Robert Langdon) colpito da amnesia in una stanza d’ospedale (dove scopre con stupore di non avere più il pisellino). Tre pagine scritte decentemente, con una certa dose di umorismo, e questo mi ha indotto ad acquistare il libro.
La prossima volta di pagine ne leggerò almeno dieci.
Sì, perché l’umorismo che c’era all’inizio ben presto scade in una sgradevole trivialità di bassa lega che lascia ben poco spazio ad una comicità intelligente.
Io non sono per nulla un moralista, anzi, e mi piacciono l’umorismo e il sesso e l’erotismo fatto bene (ora che ci penso non ho mai recensito qualcosa di erotico, dovrò rimediare), e l’utilizzo di termini osceni non mi scandalizza affatto, ma l’uso eccessivo e gratuito di una terminologia volgare in situazioni surreali ed eccessive mi ha dato non poco fastidio. Può sembrare che le prime pagine le abbiano stilate apposta per fregare i fessacchiotti come me, perché questo (pseudo) romanzetto prosegue affondando in una rozzezza di contenuti, oltretutto assurdi, ricca di un lessico sguaiato di quelli che ad una professoressa in pensione verrebbe un colpo sul posto (è per evitare questa spiacevole conseguenza che non ne riporto nemmeno un pezzettino ad esempio).
Nelle intenzioni dei due “giornalisti” che l’hanno portato a termine, dei quali mi rifiuto di scrivere i nomi, oltre che una parodia del libro di Brown il romanzetto avrebbe dovuto essere: A) la canzonatura di un’editoria commerciale che abbassa la qualità a livelli inesistenti; B) la presa in giro degli ambienti di alto rango che infestano le grandi città; C) la denuncia del modo di fare falso e ambiguo della classe politica di cui attualmente siamo preda; D) un sistema per fare un po’ di soldi sfruttando linguaggio scurrile ed episodi sconci (come la scena della signora grassa che per masturbarsi si stantuffa un cinese nel culo – oops… ancora tutte vive le professoresse in pensione?).
Ma il tutto si perde in una trama che non sta né in cielo né in terra malamente imbastardita dal lessico osceno.
Una vera schifezza.
Non solo: non l’hanno nemmeno editato bene, perché vi si incontrano articoli mancanti, cognomi che cambiano da un periodo al successivo e altre amenità del genere. Basta, ne ho parlato anche troppo. E se incontro Paolo Hendel gli sputo in un occhio.
Non lasciatevi infinocchiare anche voi, non lo comperate.
Il Lettore

domenica 5 gennaio 2014

Lo Squizzalibro di domenica 5 gennaio

Primo Squizzalibro dell’anno! Purtroppo continuiamo sull’onda dei quiz difficili, perché penso che il libro in questione non sia molto conosciuto.

E va bene così: speriamo che rimanga nel limbo dei libri non letti.


1 – Il libro da indovinare oggi è la parodia di un romanzo di successo.
2 – Parla di sesso. Ovvero, il sesso c’è ma sarebbe stato meglio non ci fosse stato.
3 – La Casa Editrice non è tra le più famose. E se lo merita.
4 – Gli autori sono due. Italiani. Giornalisti (giornalisti… oddìo, dopo aver letto il libro vengono parecchi dubbi…).
5 – È una vera porcata. In tutti i sensi. E ne parlerò malissimo.
Cominciamo bene il 2014, penserete, su tre libri recensiti già due stroncature… ma quando ci vuole ci vuole.
Freereader

venerdì 3 gennaio 2014

Leggermente fuori fuoco

Ecco un altro esempio di titolo splendido, tant’è vero che per una volta è stato lasciato inalterato l’originale inglese, Slightly out of focus, traducendolo letteralmente.


La bellezza del titolo deriva dal fatto che esso richiama molti aspetti del libro stesso, non ultime le celeberrime fotografie scattate da Robert Capa durante lo sbarco in Normandia (una delle quali è stata scelta per la copertina), e fa presagire al lettore gli orizzonti enigmatici che potrà trovare nel testo.
Ho ripreso in mano questo libro del 2002 mentre riguardavo il testo di Don McCullinn che ho recensito qualche giorno fa, ed è sorto spontaneo un paragone sia tra le due biografie che tra i diversi modi di fotografare. La vita dei due fotoreporter può dirsi simile: entrambi fotografi di guerra, entrambi globetrotters, due vite al margine, una delle quali spinta fino al rifiuto dei troppi orrori visti, l’altra terminata tragicamente in Indocina nel 1954 per aver poggiato il piede su una mina.
Anche questo libro, come quello di McCullinn del quale si è già parlato, è un documento storico multimediale, che con la scrittura e la fotografia racconta un ventennio critico della storia del Novecento.  Certo che quando uno partecipa alla guerra di Spagna, alla guerra sino-giapponese, allo sbarco in Normandia, allo sbarco in Sicilia, alla guerra arabo-israeliana, fonda assieme a Henry Cartier Bresson l’agenzia fotografica più famosa del mondo, la Magnum, è amico di Ernest Hemingway, compagno di Gerda Taro e scatta una delle fotografie più famose al mondo (Il miliziano colpito a morte), si capisce come di cose da dire e da fotografare ne abbia avute ben più del dovuto.


Rispetto alla biografia di McCullinn in questo caso si incontra uno stile di scrittura più ingenuo, allo stato grezzo: ironico, spontaneo, nel quale manca la ricercatezza e che assomiglia di più ad un racconto da bar. Capa assume le sembianze di un guitto, anche un po’ smargiasso, nel raccontarsi, calcando la mano sugli aspetti della sua vita che sarebbero piaciuti all’amico Ernest.
Per non parlare della semplicità e dell’immediatezza delle sue foto (come questa splendida qui sotto, scattata dopo lo sbarco in Sicilia nei pressi della Vigata di Camilleri), che trasmettono l’essenza del momento stesso.


È veramente un peccato che la maggior parte di quelle che ha scattato ad Omaha siano andate perdute per un errore del tecnico in camera oscura.
Il Lettore

mercoledì 1 gennaio 2014

Regalo di Natale

Buon Anno a tutti! Che sia proficuo di letture, ma prestate attenzione a cìò che leggete.

Tra i regali di Natale di quest’anno ho trovato ben due libri di racconti. Al momento di scegliere quale cominciare per primo ho deciso di partire da quello che ho ritenuto fosse una lettura più leggera: in questi giorni di vacanza, con moglie e figlio tra le pal… a casa per tutto il giorno, mi è praticamente impossibile trovare la concentrazione necessaria per leggere (non parliamo poi dello scrivere).  Non vedo l’ora che arrivi il sette gennaio.


Ho rimandato quindi a periodi più tranquilli la lettura di Murakami e mi sono accinto a gustarmi quest’ultima fatica di Sellerio la cui pubblicità prometteva un divertimento di qualità ad opera di alcuni degli scrittori più in voga del momento (avete còlto la leggera ironia che ho cercato di infondere in questa frase?).
Sei autori famosi, sei racconti di Natale: non se ne salva uno.
Checché ne dica la pubblicità.
D’accordo che è periodo di vacanza, d’accordo che sono stati voluti intenzionalmente leggeri, ma dal leggero intelligente al marcatamente insipido il passo è breve e nessuno degli autori interpellati è riuscito a fornire un prodotto che riuscisse ad uscire dalla seconda categoria. Sarà un’impressione personale, ma a me è sembrato che in tutti i racconti si senta troppo la costrizione indotta dalla commissione: “Ehilà, Alicia, còmo estàs? Scrivimi un raccontino giallo con la tua Pedra imperniato sul Natale, che ne facciamo un business! Tempo? Quanto ne vuoi, mi basta che sia nella mia posta elettronica per domattina, grazie! Felìz Navidad!”.
E quando fai così non è che la qualità ne esca avvantaggiata. Elvira Sellerio ne sarebbe inorridita.
In questo caso non serve a nulla decidere quale tra i sei sia il migliore, quanto cercare di salvare il meno peggio.
Nella mia classifica personale ho situato all’ultimo posto Bill James, con una storiella inutilmente logorroica nella quale si perde spesso il filo, seguito da una bartlettiana Pedra Delicado ancora più stucchevole del solito, ricca di modi di fare triti e ritriti in una storiella banale la cui conclusione è facilmente intuibile. A seguire Francesco Recami e Antonio Manzini, delle cui opere già il giorno dopo non ricordavo nulla, ad indicazione di quanto ne sia rimasto colpito, e al secondo posto ho messo Maurizio de Giovanni, che in una storia di poco meno banale ha perlomeno inserito dei personaggi interessanti con la sua consueta ammirevole prosa. Il racconto meno peggio, sempre a parer mio, è quello di Marco Malvaldi, ma solo per la simpatia dei suoi vecchietti e per l’humour da toscanaccio.
Certe operazioni la Sellerio se le potrebbe risparmiare: servono solamente a far calare nei lettori la stima che la casa editrice si è conquistata nel corso degli anni.
Oggi non esagerate con i cappelletti, mi raccomando!
Il Lettore