venerdì 28 settembre 2018

Una cosa divertente che non farò mai più


In tutta la mia vita non ho mai desiderato, nemmeno per un secondo, di andare in vacanza in crociera. Così come non mi ha mai attirato andare a passare le vacanze in un villaggio turistico. Già non trovo divertenti le notti in traghetto, e pensare di stare rinchiuso su una nave per una settimana, circondato da gente frenetica che non fa altro che invitarti a divertirti, è proprio fuori dalle mie corde. Dovessi andarci per lavoro mi potrebbe anche interessare, ma per mia sfortuna sono laureato in vulcanologia, non in geologia marina.
E David Foster Wallace probabilmente era sullo stesso tipo di corde, anche se mi sembra azzardato ritenere che quella crociera possa essere stato uno dei motivi per cui tredici anni dopo l’esperienza ha detto basta, stop, fatemi scendere definitivamente da questa nave che sono saturo.



Una cosa divertente che non farò mai più è il resoconto appunto di una settimana in crociera ai Caraibi che all’autore hanno pagato perché lui ne scrivesse il reportage (la rivista Harper’s, tanto per completezza).
E lui si è “goduto” la vacanza senza spendere un dollaro e poi lo ha scritto. Questo libro dunque è un saggio, il racconto di una settimana su una nave di lusso dall’imbarco all’approdo definitivo.
Anche se magari dubito che il risultato possa aver soddisfatto del tutto i suoi committenti. Forse secondo loro il resoconto avrebbe dovuto essere accattivante, magari avrebbe dovuto invogliare altri possibili crocieristi, non far passare del tutto la voglia di salire su una nave di lusso.
E sì che lui ne ha parlato anche bene.
Con il suo stile di scrittura chiaro e lucido, Foster Wallace ha analizzato il mondo delle super crociere di lusso: dalla pubblicità che ti invoglia a farne una al lusso più sfrenato; dall’equipaggio che cerca di viziarti in ogni modo possibile agli ultimi ritrovati tecnologici di cui è dotata la nave; dalla scelta tra gli infiniti divertimenti che sono disponibili a bordo della nave ai cibi più squisiti; dall’estremo nitore di cui sei circondato al materiale umano che affolla i porti di approdo, passando per la bellezza dei Caraibi, la “sconfinata distesa di lapislazzuli del cielo”, e tutte le altre amenità che dovrebbero (!) farti stare meglio di come tu ti sia mai sentito prima. 
Ci ha provato, ha descritto tutto e anche in modo molto positivo e divertente, ma la sensazione di fondo che ne è scaturita è quella che se fosse restato a casa sarebbe stato molto meglio. A me piace, quando uno è capace di usare il sarcasmo. Una cosa invece fastidiosa della scrittura di Foster Wallace, peraltro ampiamente soddisfacente per l’azzeccato uso di concatenazioni, subordinate e incisi che rendono i periodi lunghissimi ma comunque chiari, è il massiccio uso di note a fondo pagina, per meglio dire a fondo capitolo, che, se è abbastanza agevole leggerle in un libro di carta, non lo è altrettanto in un e-book.
Vi riporto una frase tratta dall’ultimo capitolo, che mi è sembrata ottima come compendio di ciò che ne ha pensato l’acuto gitante: “Qui viene alla luce un tratto essenziale delle crociere extralusso: si viene intrattenuti da qualcuno a cui state chiaramente antipatici e si ha la sensazione di meritare l’antipatia nel momento stesso in cui ci si sente offesi.
Il Lettore a cui piace Foster Wallace e che non andrà mai a spassarsela in crociera



martedì 25 settembre 2018

A tu per tu con l’autore


Dopo lunghe discussioni (!) e trattative estenuanti (!!), sabato pomeriggio, alla Biblioteca delle Nuvole, siamo riusciti a presentare i romanzi di Massimo Bertarelli, con l’autore stesso che ci ha onorato della sua presenza in carne ed ossa.
Non è stato facile, perché organizzare la trasferta di uno scrittore ormai affermato dalla settentrionale e lontanissima Monza a una decisamente provinciale cittadina del centro (che per tutti i nordici è comunque profondo sud), ha implicato il mettere in campo doti non comuni di savoir faire diplomatico e capacità relazionali proprie di un manager di multinazionale.
Il problema più grande è stato decidere chi avrebbe saldato il conto della cena conviviale.
Per non apparire scortesi abbiamo lasciato che pagasse tutto lui, l’ospite.
Non sia mai detto che qui al sud asfissiamo quelli che ci vengono a trovare rendendoci troppo invadenti.



A parte gli scherzi è stata una piacevole serata in compagnia di un autore dall’aria seria ma in realtà simpatico e alla mano, che ha parlato in modo interessante delle sue esperienze e del suo percorso letterario. Partendo come spunto dal suo romanzo che ci ha dato modo di entrare in contatto (vedere qui), abbiamo parlato dei suoi romanzi: da Mi chiamo Ugo (qui) a Mi chiamo Simone (qui), le cui copertine sono opera del mitico Claudio Ferracci, e di quel Giallo d’Ischia (qui) che ha fatto conoscere Massimo Bertarelli anche molto più a sud del centro Italia.
Esagerando un pochino ho fatto notare come Massimo stia quasi raggiungendo la notorietà di un Maurizio De Giovanni. Schernendosi, lui ha tenuto a precisare come ancora non sia proprio così, ma in ogni caso gli auguro che ciò avvenga presto.
È stato molto coinvolgente quando ci ha raccontato delle sue esperienze di conduttore di lezioni di scrittura con i reclusi del carcere di Monza, con le quali ha portato alla luce situazioni umane del tutto differenti da quelle davanti alle quali mi trovo io con allievi “normali”, del tutto liberi e non rinchiusi in prigione.
Un pomeriggio piacevole e interessante; più che una presentazione di libri una chiacchierata informale sui problemi della scrittura che mi auguro possa ripetersi presto con nuovi autori e diverse esperienze.
Lo Scrittore



venerdì 21 settembre 2018

Deadwood Dick


Un’altra serie a fumetti edita da Sergio Bonelli Editore.
Stavolta i responsabili hanno preso i romanzi e racconti di un grandissimo della narrativa: Joe R. Lansdale (se non sapete chi è cliccate sul suo nome nella colonna qui a destra), e hanno fatto disegnare le sue avventure da un grandissimo Corrado Mastantuono, uno dei disegnatori più bravi e poliedrici del panorama italiano, previa sceneggiatura, anch’essa meritevole, di Michele Masiero.



Nat Love, giovane afroamericano costretto senza alcuna colpa a scappare da casa per sfuggire all’impiccagione, si arruola dapprima nell’esercito nel corpo dei Buffalo soldiers, composto esclusivamente da soldati di colore, e quindi continua le sue avventure da uomo libero in un West che per un nero è leggermente “ostico”.
Stavolta ciò che Joe Lansdale fa emergere, oltre alla ironia che riversa su tutto, è un forte antirazzismo, utilizzando toni molto crudi, dalle immagini esplicite al linguaggio scurrile, ma anche capaci di strappare qualche sorriso, nel suo stile più schietto.
Le avventure sono raccontate dal protagonista stesso e rese nel fumetto sotto forma di didascalie che corredano quasi ogni vignetta. Il tratto è netto e realistico, in un bianco-nero molto particolareggiato e ben documentato, caratteristica che è diventata un aspetto importante di Corrado Mastantuono e per la quale ormai si è costruita un’esperienza più che solida: partito dapprima per la Walt Disney disegnando dei fantastici Topolino e Paperino, Mastantuono ha poi continuato per Bonelli disegnando Tex, Dylan Dog e altre testate, dando sempre prova di un disegnatore al top.
Conoscendo già i lavori di entrambi (Lansdale e Mastantuono), mi ha fatto molto piacere leggere i primi numeri di questa serie: disegni, susseguirsi delle scene e ambientazione, oltre alla tematica, mi hanno fatto ricordare il film Django Unchained di Quentin Tarantino
Il Lettore fumettaro



martedì 18 settembre 2018

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana


Nei giorni scorsi mi sono trovato a combattere con uno dei romanzi più famosi della letteratura italiana. Era molto tempo che avevo intenzione di confrontarmi con Carlo Emilio Gadda e, sapendo già come la sua opera fosse di non facile approccio, avevo sempre tergiversato fino a che mi sono deciso e ho iniziato, con timore, la lettura di quello che, insieme a La cognizione del dolore, è il suo romanzo più conosciuto: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
Ve lo anticipo subito: non è stato facile.



Come saprete, uno degli aspetti che prediligo nella lettura è appunto la leggibilità, e alla fine ho concordato con coloro che hanno dichiarato di aver trovato Carlo Emilio Gadda pressoché illeggibile.
Perlomeno ad un avvicinamento superficiale.
La vicenda in sé non sarebbe complicata: Liliana Balducci, una signora della Roma abbiente, viene barbaramente assassinata nel suo appartamento, e il commissario Francesco "Don Ciccio" Ingravallo è incaricato delle indagini. La contestualizzazione è nella Capitale nei primi anni dell’avvento del fascismo, con un “Mentone” che sbraita da Palazzo Venezia vantandosi di essere riuscito a sconfiggere qualsiasi tipo di delinquenza, e passa in modo quasi agevole dal descrivere una certa sua popolazione benestante al sottoproletariato dei sobborghi.
La prima cosa che colpisce leggendo è il marcato multilinguismo: in poche righe si passa dall’italiano ai dialetti più stretti, principalmente romanesco, molisano e napoletano, ma anche a qualche lingua straniera, utilizzando pure parecchi termini arcaici o neologismi che sembrano inventati sul momento. Questa estrema varietà si ripercuote anche sulla sintassi con una costruzione delle frasi estremamente libera fino a raggiungere il caotico.
In teoria, a voler dare delle definizioni, il romanzo sarebbe scritto in stile libero indiretto, e “libero” lo è senz’altro, con un narratore onnisciente che in ogni nuovo paragrafo devi riuscire a capire con chi di volta in volta si identifichi nei personaggi presenti.
Un assaggino poco complicato: “Sor dottò, l’ha trovata suo cugino, il dottor Vallarena… Valdassena, Hanno telefonato subbito in questura. Mò è là puro lui, a via Merulana. Ho dato disposizzioni. Mi ha detto che lo conosce. Dice, alzò le spalle, Dice ch’era annato a trovalla. Pe salutalla, perché  ha d’annà a Genova. Salutalla a quell’ora? dico io. Dice che l’ha trovata stesa a terra, in un lago de sangue, Madonna! Dove l’avemo trovata puro noi, su’ parquet, in camera da pranzo: stesa de traverso co le sottane tirate su, come chi dicesse in mutanne. Il capo rigirato un tantino… Co la gola tutta segata, tutta tajata da una parte. Ma vedesse che tajo dottò. (…) Un tajo! che manco er macellaro.”
Da notare il dialetto, l’insolito uso dei segni d’interpunzione (tajo!) e il passaggio dall’uno all’altro dei due dialoganti nella stessa frase senza nulla a rimarcarlo; peraltro in questo periodo non ci sono particolari invenzioni lessicali da sottoporvi e un po’ me ne dispiace. 
Inoltre manca un vero e proprio protagonista con il quale identificarsi e anche per questo il romanzo non “prende” il lettore.
Da qui, e superficialmente, la sua leggibilità è prossima allo zero. Troppo complesso, troppo arzigogolato per una semplice lettura alla ricerca di “piacere”. È un romanzo di cui andrebbero studiati, e non solamente letti, ogni passaggio e ogni singola parola, tutti i veri e propri virtuosismi linguistici, per cercare di capire lo scopo recondito dell’autore e per apprezzarne tutti i risvolti lessicali e sintattici, ma non sempre se ne riesce a trovare la voglia, soprattutto a letto prima di dormire.
Da notare inoltre che il finale del romanzo ha subìto diverse variazioni, forse sull’onda dell’entusiasmo dovuto al termine della guerra, e a seconda delle edizioni in cui è uscito si possono trovare delle conclusioni del tutto differenti.
Viene da stupirsi per il successo, di critica e soprattutto quello di pubblico, che ha riscosso negli anni ‘50, perché non è un romanzetto per tutti da sotto l’ombrellone, non è facile, non prende, e uno è costretto, leggendo, a tenere l’attenzione salda al massimo per riuscire a comprendere oltre ai singoli periodi addirittura le frasi e le parole stesse. Oggi come oggi, in un’epoca in cui la superficialità la fa da padrone, penso che non avrebbe avuto lo stesso successo. Riconosco sì l’abilità dell’autore nell’essersi saputo districare nei meandri delle invenzioni (a me ha ricordato James Joyce), ma se devo cercare piacere nella lettura io stesso mi rivolgerei a qualcun altro.
Per concludere quindi ne riconosco indubbiamente il valore, ma se dicessi che mi ha fatto piacere leggerlo sarebbe una grossa bugia, non fosse altro che per l’accrescimento della mia cultura personale.
Il Lettore



domenica 16 settembre 2018

Lo Squizzalibro di domenica 16 settembre 2018


Oggi è il sedici settembre. Tra qualche giorno saremo in autunno. Era ora.
E state sicuri che io non sono uno di quelli che tra un mese cominceranno a lagnarsi del freddo dopo essersi lamentati del caldo. A parte il fatto che il “vero” freddo non c’è più, preferisco mettermi una maglietta in più che non aver più null'altro da togliermi quando sto sudando da fermo.
Lo odio, il sudare non facendo nulla.
Ho sudato parecchio anche per leggere il libro che vi propongo di indovinare oggi. Ma non vi anticipo nulla, per questo ci sono i canonici cinque indizi:



1 – Il libro di oggi è un romanzo. Famosissimo. Uno dei romanzi più conosciuti del nostro Novecento, perché…
2 – …l’autore è italiano e molto rinomato.
3 – Come romanzo può essere considerato un giallo, perché c’è un assassinio, un assassinato e un omicida e i poliziotti che devono investigare fino a scoprire chi è stato ad uccidere.
4 – Una gran parte del romanzo è scritta in dialetto. Dialetti, dico meglio, più d’uno, e utilizzati soprattutto nei dialoghi tra i vari personaggi. Oltre alle numerose parole in dialetto stretto, delle quali a volte si ignora il significato né questo si riesce a estrapolare dal contesto, è pieno di termini ormai passati in disuso e, per par condicio, di termini creati ex-novo dall’autore.
5 – È una delle opere più conosciute di questo autore e rappresenta un’allegoria della società italiana in cui, purtroppo, la stupidità è una delle caratteristiche più salienti. È stato pubblicato per la prima volta in rivista in alcune puntate e solo 11 anni dopo in volume e poi ne hanno tirato parecchie edizioni, e ne hanno tratto persino un film e una serie televisiva.
Vi basta? Spero di sì. Dài, che oggi l’ho fatta facile.
Un Freereader mosso a compassione



giovedì 13 settembre 2018

Il lato oscuro dell’addio


A volte capita di dover modificare le proprie convinzioni.
Nel dicembre 2013 stroncavo Michael Connelly, (qui), ripromettendomi di non leggere mai più nulla di suo, poi invece ne ho letto un altro che era leggermente migliore del primo che mi era passato per le mani (qui), e ora mi hanno prestato questo Il lato oscuro dell’addio che ho trovato decisamente buono.
L’importante è essere aperti ai cambiamenti, ne potrebbe sempre derivare qualcosa di positivo.


Il protagonista è sempre quel simpaticone di Harry Bosch, finalmente in pensione ma ri-assunto a tempo determinato in uno dei sobborghi di L.A., perché di uno come lui non se ne può fare a meno nonostante i casini in cui si invischia. Il part time gli consente di fare un po’ di libera professione, e come detective privato viene interpellato da un anziano e ricchissimo industriale che lo incarica di provare a rintracciare un ipotetico figlio, che forse ha avuto da un’antica amante, al quale poter lasciare la sua cospicua eredità.

La ricerca si aggiunge a quella di un violentatore seriale che terrorizza la zona in cui opera il distretto per cui lavora, e quindi Bosch si trova impelagato in due casi che non gli daranno pace fino a quando non li avrà risolti e che scomoderanno perfino il suo passato di combattente in Vietnam.
Le cose si complicano quando il riccastro muore, e Bosch si ritroverà coinvolto anche nell’indagine per il suo omicidio. E alla fine sarà lui a risolvere anche questa, come dire: i protagonisti altrimenti cosa ci stanno a fare?
Buon romanzo, ben architettato, dallo svolgimento agile e sicuramente non inverosimile come il primo che avevo recensito di questo autore. Anche in questo si trovano frequenti riferimenti al passato del protagonista e alla storia recente degli Stati Uniti, e il tutto è ben costruito. Come al solito sono tirati in ballo anche i cazzi casi personali di Bosch (figlia, parenti vari), ma in maniera non invadente.
Che dire di più? È anche possibile che io rilegga ancora qualcosa di Michael Connelly.
Il Lettore



lunedì 10 settembre 2018

Il senso del dolore - La condanna del sangue


Venghino venghino, venghino siuri, oggi ben due recensioni al prezzo di una!
Due romanzi, già letti da molto tempo perché sono le prime avventure di Luigi Alfredo Ricciardi, il commissario con le visioni ideato da Maurizio De Giovanni, e letti di nuovo stavolta sotto forma di fumetto. In attesa dell’uscita della serie televisiva, Sergio Bonelli Editore ha bruciato tutti sul tempo e ha pubblicato questi primi bestsellers nella sua collana Romanzi a Fumetti, sottotitolo della sottoserie: Le Stagioni del Commissario Ricciardi.
Per vendere basta e avanza come garanzia.



È andata così: l’altro giorno ero col Ferro alla Biblioteca delle Nuvole, piangendo l’uno sulla spalla dell’altro per i nostri acciacchi di persone anziane, quando a un certo punto lui ha tirato fuori questi due albi chiedendomi se li avessi mai visti prima. Alla mia risposta negativa non ha fatto altro che terminare di completare la stesura della scheda di prestito col mio nome sopra e me li sono ritrovati nel bustone insieme a tutti gli altri fumetti da gustare a casa in santa pace.
Pubblicazioni non recentissime comunque, visto che il primo uscito dei due risale al novembre 2017 (mentre la prima uscita come romanzo è del 2007, NdF). Alcune voci in biblioteca sostenevano di averli trovati leggermente noiosi, e quindi mi sono apprestato alla lettura aguzzando il mio spirito critico. Devo dire invece di averli trovati piacevoli come gli originali e molto coerenti con lo spirito che ha voluto infondervi lo stesso De Giovanni.
Naturalmente non parlerò delle trame e delle ambientazioni perché tutti già le conoscono (e del resto nei romanzi di De Giovanni rimangono sempre in secondo piano), e mi limiterò alla leggibilità del prodotto.
 È ovvio che ho riscontrato una discordanza tra come il disegnatore ha reso le fattezze di Ricciardi (e di tutti gli altri personaggi) e come me li ero figurati nella mia mente, ma anche qui sta il bello, no? Il tratto è ovviamente realistico il più possibile e nei due albi si assomiglia molto nonostante i disegnatori siano diversi (Daniele Bigliardo per il primo e Lucilla Stellato per il secondo) ma si vede che il coordinatore editoriale ha imposto alla Stellato di copiare, per uniformità, chi l’aveva preceduta. L’impaginazione è in una tipica gabbia bonelliana di 9 x 9 vignette ma molto libera, con frequenti sconfinamenti sul numero e sulla forma dei riquadri, tondo, verticale od orizzontale.


I colori sono solamente due, un nero e un bianco virato all’azzurro, con l’unica particolarità che i morti visti da Ricciardi non sono colorati in blù come il resto ma rimangono di un bianco dai contorni sfumati.
Anche gli sceneggiatori sono diversi, Claudio Falco nel primo caso e Sergio Brancato nel secondo, e anche in questo caso non posso che sottolineare come abbiano fatto un buon lavoro. Entrambe le sceneggiature ricalcano esattamente le trame dei romanzi come le aveva impostate l’autore, badando ai fatti salienti e illustrando anche i personaggi secondari: Enrica, Livia, Rosa, Bambinella, Modo, quando necessario e dando molto risalto al sentimentalismo voluto da De Giovanni. Sceneggiature molto lineari e strettamente cronologiche con qualche piccola libertà, come quella di anticipare la morte del figlio di Maione ne Il senso del dolore per consentire una caratterizzazione più completa del rapporto tra lo stesso Maione e il Commissario.


In definitiva io non li ho trovati noiosi come mi avevano anticipato, anzi, mi ha fatto piacere leggerli e vi ho trovato una notevole rispondenza ai romanzi originari. Anche se una spiccata uniformità (oddio, è un ossimoro?) riconosco che potrebbe dar adito, in qualcuno, all’insorgenza della noia.
Ma si sa, alcuni disegnatori sono molto più critici del sottoscritto.
Il Lettore


mercoledì 5 settembre 2018

Eleanor Oliphant sta benissimo


Romanzo consigliatomi dal mio editor che lo ha trovato interessante. Autrice sconosciuta. Proviamo a dar loro credito. Sia all’autrice che all’editor.
La protagonista che narra in prima persona sembra una via di mezzo tra una completa asociale e una affetta da autismo all’ultimo stadio. Dopo poche pagine nelle quali al massimo imparo come si fa una ceretta, la lettura mi ha già saturato ed esterno al mio editor l’intenzione di non proseguire e passare ad altro.
Non sia mai! Il romanzo merita, non lo puoi lasciare così!
Per non litigare sto zitto e proseguo nella lettura. Ma ho già visto che la cosa non mi divertirà.




E la cosa non mi ha divertito affatto. Anche se per essere sinceri alcune affermazioni le ho trovate perfettamente condivisibili, come questa: “A volte le persone popolari devono ridere di cose che non trovano molto divertenti, devono fare cose cui non tengono particolarmente, con gente di cui non apprezzano particolarmente la compagnia. Io no.”
Praticamente non ci ho trovato altro di interessante. Il plot del romanzo si capisce subito qual è: la protagonista è così misantropa perché le è successo qualcosa di tremendo da piccola, e l’interesse del lettore dovrebbe essere suscitato dal venire a sapere che cosa le è accaduto. Ma in realtà l’autrice non è stata così brava da nasconderlo fino all’ultima pagina e si capisce pressoché subito. Proseguendo nella lettura forzata, mi sono chiesto allora cosa le fosse successo di altro, auspicandomi dei colpi di scena eclatanti a corollario del fatto tragico accadutole ma in definitiva non così tanto eccezionale.
Ma nulla, è rientrato tutto nel già immaginato. In definitiva la delusione che mi ero prefigurato.
Come romanzo di esordio è un tentativo apprezzabile ma non mi sento di dire lodevole. Accurate la ricerca di interazione con il prossimo (pressoché assente), e l’introspezione psicologica di una trentenne sociopatica, e potrei anche dire che in questo sta il tentativo dell’autrice di creare quell’interesse che spinge a proseguire nella lettura, ma in fondo non le è riuscito poi così bene.  Pazienza. Sarà per il secondo libro (dubito che lo leggerò).
Avrei anche imparato come si compra un vestito per una festa e come se ne sceglie un altro per un funerale, cosa si deve mangiare nei giorni intercorrenti tra le due date, cosa si beve e soprattutto cosa non si deve bere, e come ci si dovrebbe comportare nei primi appuntamenti con un amico.

E mi sarebbe anche tornato utile, se io fossi stata una trentenne con gravi problemi nella sfera delle relazioni sociali. Ma in realtà non è che abbia mai sentito il bisogno di avere quelle informazioni, e anche ora avrei potuto benissimo continuare a farne a meno.
Il Lettore