venerdì 27 febbraio 2015

Un mattino d’ottobre

Nel corso dei soliti scambi mattutini, il solito Sergio (il nome è fittizio – NdA) l’altro giorno mi ha consegnato questo romanzo. Com’è? gli ho chiesto. Mah, non un gran ché, mi ha risposto. E allora che me lo dai a fare? ho commentato. Vedi tu, mi pareva che ultimamente stroncassi meno del solito, ha ribattuto. Grazie comunque, ma già mi hai fatto penare con Acciaiogli ho fatto notare. A me quello era piaciuto, ha concluso.
E quando fanno così che gli dici? Contenti loro…




Ma perlomeno intanto mi aveva avvertito, e di conseguenza mi sono apprestato alla lettura tenendo alto il grado di scetticismo, incrementato dal fatto che anche in questo caso siamo in presenza dell’ennesimo magistrato che si mette a scrivere romanzi, a consolidare il concetto che se giudicassero di più e scrivessero di meno forse i tempi dei processi ne risulterebbero un pochino più accelerati. E la letteratura non è che ci perderebbe poi molto.
Intendiamoci, si lascia leggere anche, ma Un mattino d’ottobre mi è sembrato un romanzo miserino con una trama abborracciata sulla falsa riga ampiamente scontata degli omicidi plurimi per depistaggio, con personaggi stereotipati e scenette già scritte un’infinità di volte da autori nettamente più interessanti.
Magari lo stile della scrittura può anche passare, tanto è vero che sono riuscito ad arrivare in fondo, ma le due cose che mi hanno dato più fastidio sono che il deus ex machina della situazione compare solo a metà libro e che i poliziotti ci fanno la figura, decisamente poco credibile, dei perfetti imbecilli. D’accordo che Gianni Simoni è un magistrato e deve tenere alto l’onore della categoria, ma a me sembra veramente inverosimile che un’intera squadra investigativa brancoli nel buio per metà libro, “scordandosi” inesplicabilmente di applicare tecniche di indagine che sarebbero state messe in atto anche da un bambino di otto anni, e quando arriva questo giudice in pensione li mette tutti in riga e risolve il caso in una volata. Alé, ghe pensi mì, risolto, tutti a casa! Ma dài, su, ma dove siamo? Nemmeno nei gialli per ragazzi. Senza contare parecchie altre incongruenze di minor rilevanza sparse qua e là, i soliti amori sbocciati per colorare un po’ la faccenda e una poliziotta dall’intelligenza sopra la media (copiata pari pari dalla Petra Delicado della Bartlett) messa lì per rispettare le quote rosa.
La cosa che del libro mi ha colpito di più sono state le quattro righe inneggianti al Vergogna di Coetzee: perlomeno si vede che l’autore sa apprezzare un buon romanzo.
Mah. Dimentichiamo e andiamo oltre.
Il Lettore 

mercoledì 25 febbraio 2015

Vergogna

Potente. È questa la parola che mi è venuta in mente alla fine di questo romanzo.
Siamo in presenza di un’opera dalla potenza straordinaria, e leggendola si capisce come essa abbia contribuito in maniera sostanziale a far assegnare a John Maxwell Coetzee il Premio Nobel 2003 per la Letteratura.
Quando l’ho iniziato, lì per lì sono potuto andato avanti solo per una trentina di pagine, quindi ho ripreso a leggere a letto, la sera verso le 21.30 – sì, vado a letto presto, va bene? Avrete mica qualcosa da dire? Sempre meglio leggere che guardare Sanremo… – e l’autore mi ha tenuto incatenato fino al termine della storia dopo la mezzanotte senza che mi fosse venuta un briciolo di sonnolenza.




Di John Maxwell Coetzee avevo già parlato in quest’altra recensione e, proprio perché mi era rimasta la voglia di leggere un suo romanzo, quando mi è capitato sotto mano questo Vergogna nel solito negozietto me lo sono subito portato a casa.
La trama (imparate come si scrive una sinossi…): in seguito allo scandalo scoppiato per la relazione intessuta con una sua allieva, un professore universitario è costretto ad abbandonare l’insegnamento e a rifugiarsi a casa di sua figlia in una campagna primordiale, dove si scontrerà con la violenza e i problemi razziali del Sudafrica.
In questo panorama Coetzee si confronta con i temi della discesa dell’uomo verso la vecchiaia e tutte le complicazioni, non ultime quelle sessuali, che ne derivano (e la cosa mi ha innervosito non poco, dal momento che il protagonista si reputa vecchio a cinquantadue anni, mentre io che ne ho qualcuno in più mi sento ancora un ragazzino. O quasi. Sarà un problema mio?); con i difficili progressi verso un’integrazione razziale pacifica all’interno di un paese marchiato da secoli di apartheid; con la problematica psicologia dell’accettazione di situazioni tragiche in favore della speranza di un futuro migliore e, last but not least, con la sua sempre viva questione del riconoscimento della dignità e del diritto di vivere degli animali, per i quali riserva sempre parole e pensieri che vanno dal toccante allo sconvolgente.
La prosa è veramente superba, pragmatica, di quelle che fanno vedere l’essenziale e in cui ogni parola ha un proprio scopo preciso. La Vergogna del titolo si può riscontrare su più piani narrativi e la storia ti coinvolge continuamente mostrandoti una realtà cruda, la cui ineluttabilità va in ogni caso combattuta con ogni mezzo purché sia moralmente lecito. E quando la battaglia è persa, e non resta che ricorrere alla pietà, allora bisognerà sempre  fare in modo di mantenere alta la dignità di tutti gli esseri viventi.
Ho trovato questo romanzo davvero meraviglioso, inquietante, saturo di tensione psicologica per le problematiche irrisolvibili, e per molti giorni dopo averlo letto mi è tornato alla mente in parecchi momenti.
Un vero capolavoro, leggetelo anche voi. 
Il Lettore
PS: Dopo aver scritto questo post, mentre ero impegnato nella lettura di Un mattino d’ottobre, un romanzo di Gianni Simoni di cui pubblicherò la recensione nei prossimi giorni, mi sono imbattuto in questo brano, in cui uno dei protagonisti della storia sta scegliendo in libreria dei romanzi da comperare:
“Scelse subito i primi due: Leviatano di Paul Auster, un autore che conosceva, e Il maestro di Pietroburgo di Coetzee, del quale possedeva tutto quanto era stato tradotto, folgorata dal primo, Vergogna, che aveva letto in una domenica di riposo, chiudendo l’ultima pagina alle undici di sera, dimenticandosi di cenare.”
Neanche a farlo apposta, no? Si vede che anche questo autore apprezza Auster e Coetzee…

lunedì 23 febbraio 2015

Acciaio

Questo romanzo di esordio di Silvia Avallone ha avuto parecchio successo e ne è stato tratto anche un film. Sono contento per lei, davvero, in effetti è scritto abbastanza bene e capisco che possa essere piaciuto a parecchie persone.
Io non sono tra quelle.




Chiedo perdono all’autrice, della quale comunque riconosco la bravura, per quanto acerba. In questo caso il problema è stato solo mio, tant’è vero che sia mia moglie che il solito amico con cui ci scambiamo letture me lo hanno consigliato entrambi con abbastanza entusiasmo avendolo trovato soddisfacente. Per loro.
Io, che ho veramente fatto fatica a terminarlo, l’ho giudicato solamente banale e noioso. Ma, ripeto, è un problema mio.
A me le pulsioni adolescenziali di due ragazzine non interessano proprio, soprattutto quando si protraggono per pagine e pagine; le solite periferie degradate mi hanno stufato, e pure i personaggi miseri, la povertà e l’emarginazione, i casermoni popolari e lo sfruttamento padronale, i giovani sballati e le crisi economiche e gli spezzati di vita nei ghetti industriali con sogni di gloria futura sempre delusi.
Però se in un romanzo ci metti tutte queste cose, unitamente a una buona dose di culo,  allora potresti avere anche successo perché sembra che alla gente piacciano.
La Avallone ha dimostrato di saper mettere su carta una buona prosa, però in tutto il libro non succede praticamente nulla, in molte occasioni si mostra troppo ripetitiva, e l’insistere pagine e pagine sui sentimenti e le problematiche delle due protagoniste non contribuisce certo al dinamismo.
Va be’, da quanto mi avevano prospettato e dal successo che questo romanzo ha ottenuto mi ero davvero aspettato qualcosa di meglio. Pazienza.
Il Lettore 

sabato 21 febbraio 2015

L’omicidio Carosino

Evvai! Ancora Maurizio De Giovanni! Bello scherzetto che vi ho fatto, non trovate? Due giorni fa Joe R. Lansdale, oggi quelle che sono le primissime avventure del poliziotto più triste d’Italia – come recita il sottotitolo Le prime indagini del commissario Ricciardi – a rimpolpare quelli che sono diventati due tormentoni di questo blog. Ma, come dicevo l’altro ieri, a me piacciono, quindi…
Ma non temete, la farò breve.




Se putacaso tra voi ci fosse ancora qualcuno che non ha mai sentito nominare questo scrittore e i suoi personaggi, allora questo è il libretto adatto per cominciare a leggere Maurizio De Giovanni e conoscere l’esordio del suo protagonista più famoso, il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, che compare per la prima volta all’interno di un racconto presentato alle selezioni regionali di un concorso letterario in Campania, e che da lì decollerà per essere letto in tutto il mondo.
Questo volumetto raccoglie il primo e altri due racconti con protagonista un Ricciardi primevo e del quale sono già delineate tutte le principali caratteristiche, tutte condizionate dal Fatto, la soprannaturale capacità (e maledizione) di Ricciardi di vedere i morti di morte violenta nel momento del loro trapasso. Il Fatto compare da subito nel racconto, fin dall’incipit, e ne vengono spiegate, se non le cause e l’origine, le modalità e le conseguenze, che sono del tutto spiacevoli per lui che lo prova, ma gli sono anche utili perché permettono a Ricciardi di risolvere molti crimini. Oltretutto trascinandosi addosso, per questo, molte inimicizie nel suo ambiente di lavoro.
Insieme al commissario  nel racconto cominciano a prendere vita i personaggi che gli fanno da contorno e le cui personalità verranno approfondite nei romanzi successivi: Enrica, Maione, il dottor Modo, e si individua la forma della Napoli di ottant’anni fa sotto una tirannide oppressiva.
Lo stile squisito è quello solito di De Giovanni, e la lettura piacevolissima. Punto. Basta così, ne ho già parlato in passato e la faccio breve altrimenti vi stufate davvero. Se non avete mai letto De Giovanni cominciate da questo, oltretutto la spesa è minima, e poi vedrete che passerete anche a Il senso del dolore e agli altri romanzi che hanno fatto seguito al racconto primigenio.
Vi prometto che il prossimo autore sarà nuovo, perlomeno su queste pagine…
Il Lettore 

giovedì 19 febbraio 2015

La foresta

Un nuovo Joe R. Lansdale!
Va bene, magari voi non ne sarete così entusiasti e penserete che le recensioni di questo autore stanno diventando un tormentone come nel caso di Maurizio De Giovanni. Ma che ci posso fare se a me piace? Del resto il blog è mio, lo gestisco io e ci inserisco ciò che mi piace nel modo che più mi piace. E a me Lansdale piace, e se voleste vedere ciò che ne ho scritto fino ad ora non dovete fare altro che cliccare il suo nome qui alla vostra destra sulla colonna delle etichette.




La foresta fa parte della corrente di romanzi di formazione scritti dal nostro ed è stato pubblicato nel 2013. In questo caso l’ambientazione è una parte selvaggia nel nord del Texas degli Stati Uniti di inizio Novecento, nel momento di transizione tra ciò che siamo abituati a vedere nei film western e l’America successiva alle guerre mondiali, quando per intenderci compaiono le automobili nella stessa scena dei cowboys. I protagonisti sono: un ingenuo ragazzo di sedici anni al quale già nelle primissime pagine vengono a mancare i genitori colpiti dal vaiolo, gli rapiscono la sorella, gli uccidono il nonno e lui si trova sbalzato di colpo in situazioni nettamente più grandi di lui, di quelle che ti fanno crescere alla svelta; un nano colto, incazzereccio e dalla pistola facile; un erculeo becchino negro con ascendenti pellerossa; una puttana carina e desiderosa di cambiare vita; uno sceriffo sfregiato, a metà strada tra il delinquente e l’uomo di legge; non ultimo un intelligentissimo maiale che si comporta più come un cane che da suino.
Tutto il romanzo è imperniato su Jack Parker che parte alla ricerca della sorella rapita dai cattivi di turno, che sono proprio cattivi, ma veramente cattivissimi, sconvolgente quanto siano cattivi, aiutato dai comprimari citati sopra e che narra la sue avventure in prima persona. Le peripezie alle quali va incontro l’eterogeneo e strampalato gruppetto assumono connotati grotteschi, a volte esilaranti, crudi all’estremo quando Lansdale descrive le vette a cui può arrivare la crudeltà dell’uomo e spesso ripugnanti, senza tralasciare episodi pieni di tenerezza. Il tutto raccontato nel suo solito stile che è velocissimo, colloquiale, di quelli che quando cominci a leggere non riesci più a staccarti.
Come per gli altri suoi romanzi sono rimasto colpito dall’uso incisivo che Lansdale fa delle similitudini e delle metafore: “Un’acqua fredda come il culo di un escavatore di pozzi.” Oppure: “Papà diceva sempre che nonno era così tirato che quando batteva le palpebre gli si scappellava l’uccello.” E ancora: “…sembrava fosse stato avvolto dalle fiamme e che qualcuno avesse cercato di spegnerle con un’accetta dalla lama non troppo affilata.” Immagini che strappano spesso un sorriso, che magari si spegne subito dopo nel momento in cui Hog (il maiale) comincia allegramente a pasteggiare con la faccia di un uomo non ancora morto per le pallottole che gli hanno sparato contro. Ma l’autore è anche capace di inserire al momento giusto riflessioni  più serie: “- Il problema, figliolo, - disse Shorty, - è che non esiste nessuno sui due lati della barricata che misura le tue azioni. Dio è un'idea, e il diavolo siamo noi.”
Il romanzo si dipana con una fluidità da provare veramente un senso di invidia nei confronti di un autore che possiede una capacità sublime di raccontare storie, inserendovi come suo solito le tematiche a lui care: gli Stati Uniti rurali, l’emarginazione, l’integrazione sociale, la povertà, e riesce pure a rendere divertente il tutto. Un vero e proprio maestro, dotato di una capacità fabulatoria da narratore di altri tempi.
Il Lettore 

martedì 17 febbraio 2015

Flush

Ho terminato di leggere Flush proprio pochi istanti fa; ho sfilato la penna dal taschino e mi accingo a scrivere a caldo questa recensione. Sono solo, seduto al tavolo degli organizzatori nelle grandi e gelide sale che ospitano la mostra retrospettiva delle opere di un artista e amico che ci ha lasciati troppo presto. Oggi è il mio turno di tenerla aperta e al momento non c’è nessun ospite da guidare nella visita; posso leggere e scrivere in tutta tranquillità. L’inchiostro verde della Montblanc scorre fluido in barba al freddo. Ho scelto questa occasione per terminare la lettura dell’opera di Virginia Woolf  perché mi è sembrato il libro giusto da portarmi dietro per trascorrere i momenti vuoti tra un gruppo di visitatori e l’altro. E perché mi piace leggere le biografie, comprese quelle di cani.
Peccato la razza: i cocker spaniel non mi sono mai stati simpatici.




La biografia di un cane redatta da una grande scrittrice è sempre qualcosa di più della semplice biografia di un cane.
Virginia Woolf ne approfitta infatti per tracciare anche la biografia dell’essere umano al quale Flush era appartenuto, la poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning, e per far trasparire un intero mondo passato ormai da quasi cent’anni rispetto al tempo in cui l’autrice ha scritto.
Attraverso le sensazioni di Flush la Woolf racconta degli anni trascorsi a letto dalla Barrett – per una non ben identificata malattia – e nei quali ha scritto le prime opere che l’hanno resa famosa; dell’innamoramento epistolare per un poeta dapprima sconosciuto e poi dell’incontro con lo stesso Robert Browning, del matrimonio segreto fino alla fuga in Italia e del ruolo che il nostro paese ha svolto nella trasformazione di una donna: dalla malinconia all’apertura, dal ditale di Porto “appena sorseggiato” al trangugiare un bicchiere di Chianti, dalla tristezza di Londra al sole di Firenze, dai cani londinesi tutti esclusivamente di razza purissima e altezzosi ai cani pisani tutti esclusivamente bastardi, ma molto più felici. Il sole italiano fa emergere una nuova personalità nella poetessa, da malaticcia e cinerea a donna dinamica e (moderatamente) allegra, e permette a Flush una libertà di vagabondare che lo renderà finalmente spensierato fino al momento di riposare per sempre nell’argillosa terra fiorentina sotto le cantine di Casa Guidi.
Il tutto nel tentativo di far sorgere immagini nel lettore attraverso gli occhi del cane. In effetti ciò riesce alla Woolf abbastanza bene, peccando di ingenuità solo nei momenti in cui ipotizza che il cane provi dei sentimenti troppo umani per un cane, antropomorfizzandolo un poco oltre il plausibile, e il rapporto tra il cane e la poetessa è reso bene sottolineando la costanza della  psicologia canina, sia pure intaccata da alcuni episodi significativi, rispetto alla volubilità dei sentimenti umani.
Il fatto è che essi non potevano comunicare per mezzo della parola, ed era questo un fatto che indubbiamente dava luogo ad alquanti malintesi”. Vero, ancor di più oggi e non solo nel caso di un rapporto tra uomo e animale, ma anche quando alla parola parlata si sostituisce la parola scritta, come nelle discussioni in chat o nei forum.
La leggibilità del testo è condizionata dagli ottant’anni che sono passati da quando Virginia Woolf lo ha scritto: il ritmo è lento e lo stile antico, ricco di termini arcaici e verbi obsoleti come “redolere” (olezzare, emettere odori di nuovo), “ammansare” (rendere mansueto), “scandolezzare” (forma arcaica di scandalizzare), e con molti congiuntivi messi al tempo presente quando invece sarebbero stati meglio al passato. Non sapendo a che epoca risalga la traduzione di Alessandra Scalero della versione in mio possesso non posso valutare quanto questo dipenda dal testo originale e quanto dalla traduttrice, ma posso dire che poco prima della metà del libro il tutto si velocizza, quando a Flush capita di essere rapito da malviventi (e la Woolf ne approfitta per dipingere la Londra più povera, squallida e delinquenziale) e subito dopo i due piccioncini decidono di fuggire in Italia insieme al cane recuperato.
Devo dire che procedendo nella lettura, forse abituandomi allo stile della Woolf e man mano che succedono avvenimenti interessanti, il libro migliora di parecchio, e arrivato in fondo posso affermare che mi è piaciuto molto, iniettandomi la voglia di leggere qualcuna delle opere “maggiori” di Virginia Woolf, quali ad esempio Gita al faro o La signora Dalloway.
Un grazie affettuoso a lei sa di chi parlo per il graditissimo dono.
Acc… domani mi toccherà di ribattere il tutto sulla tastiera…
Il Lettore cinofilo

domenica 15 febbraio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 15 febbraio

Visto l’afflusso di visitatori ho lasciato l’ultimo post in primo piano sulla home page per un giorno in più. Forse devo parlare più spesso di erotismo… mi toccherà leggere al più presto qualche altro romanzetto piccante.
E di conseguenza si è di nuovo fatta domenica e ho preparato un altro Squizzalibro per far lavorare le vostre cellule grigie.




1 – Anche oggi dovrete indovinare titolo e autore di una biografia. Stavolta di un animale. Strano, vero? Ma di biografie di animali non è che ne abbiano scritte molte, quindi non vi dico di che tipo di animale si tratta, altrimenti…
2 – Insieme alla biografia dell’animale l’autore traccia anche la biografia della persona alla quale l’animale è appartenuto. Ovviamente non vi dico nemmeno chi è questa persona, altrimenti…
3 – Vi basti sapere che anche questo personaggio ha gravitato nel mondo della letteratura e che, pur non essendo italiano, ha finito i suoi giorni in Italia.
4 – Per l’esattezza l’autore della duplice biografia non è un autore ma un’autrice di lingua inglese. Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Letteratura ma i suoi lavori sono stati tradotti in più di cinquanta lingue.
5 – Il titolo della biografia consiste nel solo nome proprio dell’animale tratteggiato.
Vi domanderete: ma quante cavolo di biografie legge, questo qui? Be’, quando mi capitano non ne disdegno la lettura: quando sono scritte in modo interessante – non come quella della settimana scorsa, per intenderci – riescono ad essere più avvincenti di un romanzo.
 Ovviamente non sarà ritenuta valida la risposta proveniente dalla persona che mi ha regalato questo libro…
Freereader

giovedì 12 febbraio 2015

Histoire d’O

Qualche giorno fa mi hanno fatto notare che fino a questo momento non ho mai recensito un romanzo erotico, e me ne hanno chiesto il perché. A pormi il quesito è stato un altro blogger del quale non faccio il nome, discretamente seguito e molto attivo sui social network, sui quali è solito intrattenersi con un variegato universo femminile.
In fondo, la risposta è scontata: finora non ho mai recensito un romanzo erotico semplicemente perché di solito non ne leggo. E perché non ne leggi? Sarebbe la domanda a seguire. Anche questo è semplice: non ne leggo perché il sesso e l’erotismo preferisco viverli, piuttosto che leggerne.
Ma visto che mi chiedono una recensione non posso esimermi, e di conseguenza vi fornirò il mio pensiero su quello che ritengo sia uno dei migliori, se non il migliore, romanzo erotico che io abbia mai letto: Histoire d’O, pubblicato nel 1954 da una fino ad allora sconosciuta Pauline Réage. Solo quarant’anni dopo la pubblicazione hanno rivelato che quest’ultimo non è altro che uno pseudonimo sotto cui si è celata la scrittrice francese Dominique Aury.




Il romanzo è stato subito applaudito dalla critica dell’epoca, ha vinto dei premi e ha suscitato non poco scalpore anche nella fazione meno bigotta dei benpensanti, e qualche anno dopo ne è stato tratto l’omonimo film con protagonista la splendida Corinne Clery.
Prima però di entrare nel tema di un argomento delicato da trattare è necessaria una puntualizzazione. Sarà anche scontato, ma mi sembra opportuno ribadire il modo estremamente diverso di percepire il sesso e l’erotismo, nella dimensione scritta e filmata, da parte dell’universo maschile rispetto all’universo femminile.
Un uomo preferisce, in genere, situazioni più crude spostate verso la pornografia, mentre una donna predilige, in genere, soffermarsi su momenti più cerebrali, romantici, intriganti e di un erotismo più soft. Questo non esclude che molte donne non disdegnino talvolta la visione di un film porno, e che esista anche qualche uomo tra i milioni di lettori di Cinquanta sfumature di grigio.
Penso sia necessaria un’ulteriore parentesi anche nei riguardi di questa serie, non fosse altro perché sono i libri più venduti degli ultimi anni. Non ho letto per intero il sunnominato pessimo romanzo. Mi sono bastate le prime trenta pagine per mandarlo a cag riporlo sullo scaffale del supermercato dal quale l’avevo prelevato appunto e solo per leggerne le prime pagine. All’epoca, ovunque ti girassi ne sentivi parlare, e se qualcuno mi avesse chiesto un’opinione non avrei potuto dire la mia se non l’avessi letto, cosa della quale non sentivo assolutamente il bisogno. Ho raggiunto il compromesso di leggerne la parte iniziale al supermercato, comodamente appoggiato allo scaffale dei pelati, e questo mi è bastato per rimetterlo a posto dopo poco senza alcun rimpianto. I pelati invece li ho caricati nel carrello. Ma milioni di lettrici lo hanno comperato, e, senza considerare l’importanza che in ciò ha rivestito il fenomeno virale amplificato dai media (ma più che altro il battage pubblicitario, che ha consentito a milioni di pudiche signore di liberarsi dall’imbarazzo di essere colte nel bel mezzo della lettura di un romanzo erotico, perché: ehmoh, no, sai, lo sto leggendo solo perché ne parlano tutti…), questo significa che in ogni caso molte donne, leggendo questo romanzo, hanno ottenuto la loro soddisfazione, si sono sentite toccate, avranno avuto delle corde segrete che sono state fatte vibrare dalla stucchevole prosa dell’autrice. Perlomeno me lo auguro. Chiusa parentesi.
Tornando a bomba: spero che anche voi ammettiate la fondatezza della sopradetta precisazione, perché non vorrei attirarmi addosso le ire del femminismo estremo quando dico che personalmente preferisco la visione di un film porno alla lettura di un romanzetto erotico, né quando affermo la validità di un romanzo come Histoire d’O, la cui tematica principale verte sul realizzarsi dell’appagamento spirituale di una donna attraverso il progressivo annullamento della sua volontà individuale. Che del resto è la stessa tematica delle sfumature, solo che uno è un capolavoro, l’altro una porcata che ha venduto milioni di copie. E sono stati scritti entrambi da donne, di conseguenza non si può tirare in ballo lo schifoso maschilismo dell’autore.
Una tematica scottante, con profonde implicazioni nel sociale, resa anche molto scabrosa dall’esplicitazione di situazioni nelle quali il sadomasochismo assume un ruolo da protagonista. Il personaggio principale dell’histoire si presta di sua spontanea volontà a pratiche estreme per amore del proprio uomo: viene abusata, frustata, sodomizzata, torturata, ceduta ad altri uomini fino a rendersi del tutto schiava, marchiata a fuoco, finendo col rinunciare del tutto alla propria libertà e trovando in questo l’appagamento spirituale se non una vera e propria felicità. Il tutto è svolto senza alcun tipo di violenza coercitiva e viene sempre sottolineata la volontà personale di sottoporsi ai trattamenti più dolorosi e degradanti, e alla fine del libro (ora non ricordo esattamente se al termine di questo romanzo o del successivo Ritorno a Roissy) il lettore attento saprà riconoscere il velato accenno al ribaltamento di ruoli che porta gli amanti di O ad essere dominati psicologicamente da lei stessa.
Il romanzo è forte, saturo di situazioni esplicitamente sessuali senza mai però cadere nel cattivo gusto, senza indulgere in un linguaggio volgare e mantenendo la contestualizzazione all’interno di un ambiente di classe. Le scene sono mostrate senza falsi pudori, senza interventi autoriali e soprattutto senza che l’autrice ne fornisca un giudizio proprio, ma lasciando che il lettore ne tragga ciò che vuole: eccitazione, morbosità, per gli animi più pudibondi immagino anche disgusto. Una delle rare volte in cui l’autrice si fa sentire è quando comincia a descrivere una scena in cui O sta per essere frustata e posseduta in ogni modo, ma di colpo interrompe la narrazione e dichiara: c’è bisogno di far vedere altro? scatenando così la fantasia del lettore. Immaginatevi ciò che volete, del resto è questo uno degli scopi della letteratura.
Un assaggio?
“Lo sconosciuto si era seduto sul bordo del letto, aveva preso e lentamente aperto, tirando il vello, le labbra che proteggevano l’incavo del grembo. (…) (O) gemette quando le labbra estranee, che premevano sulla protuberanza di carne da cui si diparte la corolla interna, l’infiammarono repentinamente, l’abbandonarono per lasciare che la calda punta della lingua l’infiammasse ancora di più; gemette più forte quando le labbra la ripresero; sentì indurirsi e rizzarsi la linguetta nascosta, che fu aspirata tra i denti e le labbra in un lungo morso, un lungo e dolce morso, sotto il quale ansimò; il piede le mancò, si trovò riversa sul dorso, la bocca di René sulla sua bocca; le sue mani le fecero aderire le spalle al letto, mentre altre due mani sotto le sue ginocchia le aprivano e le sollevavano le gambe.”
Basta così, altrimenti travalichiamo la decenza. E nello scegliere il brano ci sono andato molto, ma mooolto leggero.
Ho trovato Histoire d’O eccitante e ben scritto, coinvolgente e intrigante, mentre altri romanzetti pseudoerotici che mi sono capitati tra le mani non mi hanno suscitato dentro nessuna sensazione e, anzi, mi hanno annoiato tanto da non averli nemmeno terminati e da non ricordarne i titoli. Romanzetti in genere scritti da donne e destinati ad altre donne. Per provocare eccitazione basta poco: intravedere di sfuggita un reggicalze in un momento in cui non te lo aspetti; per una donna la forma delle mani nell’uomo che le piace; ma anche, tornando a noi maschietti, immaginare una O brutalmente posseduta. Ma anche per farla sfumare basta poco, è sufficiente una parola di troppo nel punto sbagliato, e molte autrici sono delle maestre, nel parlare troppo. Forse è per questo che esistono pochi romanzi erotici di buona qualità.
Dopo aver letto questo romanzo molte lettrici hanno confessato di essersi sentite “sconvolte” per la scabrosità delle situazioni e per lo stato di sottomissione accettato dalla protagonista, sensazione mitigata dalla constatazione di un’autrice donna anch’essa. Mi piacerebbe sapere se anche le lettrici delle sfumature si saranno sentite sconvolte per lo stesso concetto raccontato in modo più “leggero”, o se invece avranno mimetizzato dietro sorrisetti imbarazzati il sottile senso di eccitazione, il nascosto desiderio di trasgressione provocato dal romanzo nelle loro menti.
Nel caso, buon per loro.
Oops! Prima di spegnere tutto devo ricordarmi di chiudere youporn nell’altra finestra…
Il Lettore pornomane

martedì 10 febbraio 2015

La figlia del papa

Se questo La figlia del papa fosse stato scritto prima del 1997, e i componenti la commissione incaricata di assegnare il Premio Nobel per la Letteratura lo avessero letto prima di operare la scelta, col cavolo che Dario Fo ne sarebbe uscito vincitore!
Una delle peggiori biografie lette in vita mia.




In questo libretto di 190 pagine, con molte illustrazioni delle quali però non sono riportati né autori né crediti, Dario Fo ripercorre la vita di Lucrezia Borgia, personaggio enigmatico e affascinante, fornendo uno spaccato della vita sociale e politica del 1400 e delle lotte intestine alla Chiesa Cattolica soprattutto per ciò che riguarda l’elezione dei Papi.
Lucrezia Borgia, figlia di un cardinale futuro papa di cui forse è stata anche amante (così come dicono del suo stesso fratello), è una di quelle donne che hanno scatenato l’immaginazione popolare per cinque secoli, dando origine a leggende e credenze nelle quali l’aspetto negativo supera quello positivo e fornendo materiale per una serie impressionante di biografie e romanzi imperniati su di lei.
Questa sembra sia l’ultima della serie, e a parer mio, senza stare a sindacare sulla veridicità storica e sulla pur sempre presente possibilità di una semplice operazione commerciale, un Premio Nobel se la sarebbe potuta anche risparmiare.
Esagerato! Penserete. Stiamo parlando di Dario Fo! Penserete ancora. Be’, stavolta non crediate di trovarvi davanti un capolavoro come il Mistero buffo, vi rispondo io: quella era una cosa, questa è del tutto diversa, anche se Fo ha cercato di infiorettare una biografia con guizzi da attore consumato che magari in teatro lo avrebbero fatto applaudire ma in un testo scritto ci stanno come i finocchi a merenda. Lo so che sarebbero i cavoli, ma a me piacciono meno i finocchi.
Quando ho detto a un altro superlettore che ero impegnato in questo libro mi ha risposto con uno sbuffo (che stava a significare: perlamordidio!), al ché anch’io (come voi) ho ribattuto: ma come, Dario Fo! Vedrai… è stata la risposta conclusiva.
E in effetti la qualità di questa biografia è nettamente sotto la media, e questo da un autore del calibro di Dario Fo non me lo sarei aspettato. Mi sono trovato di fronte un testo sconnesso, pieno di divagazioni e richiami caotici nel tentativo di riallacciare i fili della Storia, farcito di commenti dell’autore che vorrebbero essere per lo più ironici e inseriti allo scopo di strappare un sorriso a un lettore annoiato, melense domande retoriche del tipo: Tizio è morto. Chi l’avrà ucciso? , e i dialoghi diretti aggiunti per rendere più dinamica la narrazione mi sono sinceramente sembrati obbrobriosi.
Per darvi un assaggio, tratto da pag. 26: “A ciò pensa appunto la ruffiana che propone come sposo per l’amante del prossimo pontefice addirittura suo figlio, Orsino Orsini. Una soluzione proprio casa e chiesa! Il figlio oltretutto è orbo di un occhio, quindi lasciamo correre e chiudiamo anche l’altro! Bisogna subito affrettarsi, Giulia è incinta, naturalmente di Rodrigo… Non a caso il termine vescovo nell’espressione degli antichi cristiani si traduceva in «attivo e infallibile». Perfetto! Ad ogni modo è meglio che il figlio nasca con un padre legittimo.”
In questo brano c’è di tutto: divagazioni, avverbi superflui, salti di palo in frasca, addirittura tre punti esclamativi, più i puntini di sospensione, senza parlare di ben tre interventi autoriali, in sole sette righe. Più che una prosa da Premio Nobel mi sembra un testo scritto dai principianti che sono chiamato a valutare. E proprio perché è di Fo che stiamo parlando sono riuscito a reggere fino a metà libro, altrimenti l’avrei piantato prima.
Le divagazioni e le puntualizzazioni specifiche fanno perdere il filo del discorso, i continui riferimenti storici, sia pur necessari alla contestualizzazione, annoiano, i frequentissimi interventi dello scrittore stuccano non poco, e non parliamo più dei dialoghi; il tutto conducendoti ben presto a pensare che se ti resta davvero la voglia di sapere qualcosa della vita di Lucrezia Borgia, allora sarebbe senz’altro molto meglio rivolgersi a qualche altra biografia.
Seria.
Il Lettore 

domenica 8 febbraio 2015

Lo Squizzalibro di domenica 8 febbraio

Buona domenica a tutti. Oggi sembra essere una bella giornata, perlomeno è uscito un po’ di sole, ma non potrò godermela all’aperto. Va be’, pazienza. Sarà sicuramente meglio di ieri, quando ho forato una gomma per ben due volte, mi hanno dato buca a un appuntamento e ho litigato con un paio di persone, e il tutto non ha contribuito a rendere propriamente positivo il mio stato d’animo. Bah, dimentichiamo.
Per lo Squizzalibro di oggi ho scelto ancora una volta un testo che sarebbe molto facile da indovinare, se io non mi fossi ingegnato per renderla difficile…




1 – Il libro da indovinare oggi è una biografia. Se vi dicessi di chi sarebbe troppo facile.
2 – Vi basti sapere che è un personaggio storico molto ambiguo e molto famoso.
3 – L’autore è un Premio Nobel per la Letteratura. Se vi dicessi di che nazionalità sarebbe troppo facile.
4 – Il genere trattato non è quello solito dell’autore in questione. Se vi dicessi qual è quest’ultimo genere sarebbe veramente troppo facile.
5 – Va be’, basta. Penso che sia facile da indovinare anche con queste poche indicazioni. Tutt’al più posso aggiungere che il libro è stato pubblicato da poco tempo e la maggior parte, diciamo un 70%, delle recensioni trovate in rete ne parlano più che bene (!).
Io mi schiererò con il restante 30%. Non ci provo molta soddisfazione a stroncare i Premi Nobel, ma quando ci vuole ci vuole!
Freereader

venerdì 6 febbraio 2015

Il maestro del tè

Nel mio passato ci sono anni di arti marziali e litri di sudore spremuti sul tatami, ed è per questo motivo che la mia libreria è ben fornita su vari aspetti inerenti questi argomenti: dalle discipline marziali alle tecniche di combattimento, dalle filosofie orientali ai samurai allo zen, nell’ambito del quale la cerimonia del tè assume delle connotazioni spirituali, mistiche e religiose che vanno ben oltre un semplice prendere il tè con gli amici, e Il maestro del tè, cioè colui che conduce il rito, assume anche un ruolo da cerimoniere, da mentore, da consigliere spirituale.




Ok, detto questo, prima di recensire questo libro vorrei puntualizzare una cosa. Una volta terminato di leggerlo non riuscivo a capire perché il romanzo fosse intitolato Il maestro del tè, dal momento che il personaggio che nel romanzo ricopre questo ruolo non risulta così importante nella storia né talmente simbolico da ergerlo a titolo. Ho pensato al solito ghiribizzo di traduzione, sono andato a fare una scandagliata in rete per cercare il titolo originale e… ho scoperto che non esiste alcuna traduzione né tantomeno alcun Carlos Leòn Monteverde,  che non è altro che uno degli pseudonimi con cui tali Luca Crippa e Maurizio Onnis firmano i loro romanzi.
Quindi l’infondatezza del titolo sembra proprio voluta e resta il dubbio del perché di ciò, ma d’altra parte, da un certo punto di vista questo può essere coerente con l’infondatezza di tutto il resto del romanzo.
La trama è imperniata sulle difficoltà di un gesuita veneziano incaricato di portare il messaggio apostolico nelle lontane terre del Giappone della fine del 1500, epoca in cui in queste isole si succedono al potere una serie di tiranni che in comune hanno un sanguinario despotismo e la chiusura totale verso tutto ciò che al Giappone risulta straniero.
Dal punto di vista stilistico e formale il romanzo è scritto anche abbastanza bene, così come è plausibile la ricostruzione storica, ma una volta arrivati in fondo ci si rende conto che le motivazioni sulle quali si muovono i personaggi sono fumose e inconsistenti e non si capisce dove l’autore (gli autori) abbia voluto andare a parare. Di capitolo in capitolo assumono rilevanza personaggi sempre diversi che poi vengono abbandonati a loro stessi senza motivo, o perlomeno non spiegando a sufficienza le ragioni delle loro mosse. Il peregrinare coatto di quello che avrebbe dovuto essere il protagonista, il gesuita Mocenigo, appare privo di un reale scopo se non quello di permettere all’autore di continuare a raccontare qualcosa, così come il suicidio finale del maestro del tè sa tanto di forzato, ripreso pari pari dalla tradizione nipponica sia reale che cinematografica, senza che ne sia data una spiegazione soddisfacente.
Ai samurai viene fatta fare la figura dei pellegrini; l’entrata in scena del classico personaggio femminile ammantato di mistero fa solo capire come l’autore abbia sentito a un certo punto la necessità di inserire un personaggio femminile ammantato di mistero perché in un romanzo ci sta sempre bene; e quello che avrebbe potuto essere un aspetto interessante, cioè la diatriba tra gesuiti e francescani all’interno della chiesa per quanto riguardava gli interessi partitici nelle politiche missionarie, viene trattato in maniera superficiale e non risolutiva.
Troppi buchi per essere un buon romanzo, troppe cose non spiegate e poco spessore dei personaggi principali, e la sola cosa che l’ha salvato dall’essere abbandonato a metà è stata la buona prosa e la curiosità (purtroppo poi delusa) di sapere dove volesse andare a parare.
Restando sempre nella stessa tematica, cioè quella dell’uomo occidentale che si scontra con il modo di pensare giapponese, e tanto per restare sul leggero, allora devo dire che mi hanno soddisfatto enormemente di più libri come Sol levante di Michael Crichton e film come L’ultimo samurai con Tom Cruise.
Il Lettore 

mercoledì 4 febbraio 2015

L’assassino più colto del mondo

L’Oxford English Dictionary è una pietra miliare della cultura anglosassone e internazionale, uno dei prodotti di quell’Inghilterra vittoriana che ha visto scontrarsi una miriade di contraddizioni. Il suo creatore è stato il Professor James Murray, che dal quartier generale del dizionario, il famoso Scriptorium in quel di Oxford, ha chiesto aiuto a una miriade di collaboratori per redigere le spiegazioni di tutti i lemmi conosciuti dando origine al più completo dizionario di lingua inglese esistente, per la cui compilazione non bastarono settant’anni e centinaia di collaboratori.




Uno dei collaboratori più attivi, forse proprio il più attivo, risultò essere tale William Chester Minor, che fornì materiale per centinaia di parole e migliaia di citazioni. Dopo che da vent’anni a Murray continuava a pervenire per lettera materiale di Minor senza che questi avesse mai fatto un passo per farsi vedere in carne e ossa al quartier generale del dizionario, il professore volle conoscerlo di pirsona pirsonalmente, e grande fu il suo stupore quando scoprì che William Chester Minor altri non era che un pazzo assassino rinchiuso nel manicomio criminale di Broadmoor.
Questa è la storia romanzata dal giornalista di inizio Novecento dall’articolo del quale Simon Winchester ha preso lo spunto per scrivere questo libro. Nella realtà, James Murray sapeva da tempo come W.C. Minor fosse un assassino e fosse rinchiuso da decenni in manicomio, e questo non gli aveva mai impedito di collaborarci e di intrattenerci dotti scambi epistolari sul tema della lessicologia e su quella che era la sua fissazione maniacale: un dizionario completo della lingua inglese.
William Chester Minor era un medico americano uscito sconvolto dalla guerra civile e trasferitosi a Londra dove, affetto da schizofrenia e mania di persecuzione, aveva ucciso un uomo ed era stato quindi condannato al manicomio criminale. Ma in carcere aveva continuato ad alimentare la sua sete di cultura non smettendo mai di leggere, e questo lo aveva portato alla corposa collaborazione con il prestigioso progetto di Murray.
Simon Winchester ricostruisce la sua storia insieme a quella dello stesso dizionario in questo L’assassino più colto del mondo, un saggio romanzato scorrevole e di una piacevolezza che soddisfa appieno. Come al solito non si capisce bene perché nella versione italiana abbiano reinventato il titolo che in inglese recitava The Professor and the Madman, forse perché la versione nostrana è più eclatante e quindi avrebbe dovuto far vendere più copie? A parte che l’esplicitazione del titolo non è per nulla detto che sia una verità assoluta, ma tant’è, ormai dovremmo esserci abituati. Fatto sta che il libro merita davvero, non ce ne sarebbe neanche stato bisogno.
Simon Winchester è uno scrittore e giornalista britannico che risiede negli Stati Uniti. Predilige una saggistica che spazia su diversi argomenti, tanto è vero che di suo ho già letto: La mappa che cambiò il mondo – la storia del disegno della prima carta geologica al mondo, ad opera di un piccolo proprietario terriero inglese che realizzando la cartografia geologica del Galles si scontrò con le filosofie creazioniste dell’epoca; Krakatoa – in cui attraverso l’analisi dell’eruzione storica del 1883 del famoso vulcano indonesiano dispiega al lettore profano una panoramica sullo stato della vulcanologia attuale; Il fiume al centro del mondo – un viaggio in barca risalendo lo Yangtze, il “lungo fiume”, attraverso tutta la Cina fin quasi alle sorgenti nel Tibet, e nello stesso tempo un viaggio nella storia e nella sociologia del grande paese che ne è solcato.
Li ho trovati tutti estremamente interessanti, scritti benissimo con un tono discorsivo e accattivante, chiari e coinvolgenti, cosa che per dei saggi è un pregio non indifferente.
Il Lettore 

lunedì 2 febbraio 2015

Se Steve Jobs fosse nato a Napoli

Questo librettino di Antonio Menna – poco più di centosettanta pagine in formato ridotto – al termine della lettura mi ha lasciato veramente depresso.
Ma attenzione! Non perché faccia schifo, anzi, l’ho terminato in un lampo e si legge davvero bene, quanto perché Menna adopera la forma del romanzo per spiattellarti una serie di verità sulle magagne del nostro paese da farti venire seriamente la voglia di espatriare.




Il plot l’abbiamo già visto: un giovane ricercatore geniale inventa un nuovo tipo di computer rivoluzionario aiutato da un amico, poi tenta di commercializzarlo eccetera eccetera. Esattamente ciò che ha fatto Steve Jobs a Cupertino, e il seguito, la Apple, sappiamo tutti ciò che significa (se vi interessasse la biografia di Jobs, l’ho recensita qui).
Solo che stavolta i protagonisti del romanzo, Stefano Lavori (Steve Jobs) e Stefano Vozzini (Steve Voznjak), creano il loro elaboratore in un garage di Napoli, e quella che sarebbe potuta essere la Mela cambia strada, si modifica, precipita in un baratro dal quale non riuscirà a risalire e neanche alla fine, quando un’ulteriore geniale invenzione infonderà una flebile speranza nei protagonisti, si riesce a vedere un pizzico di positività nel mare di amarezza e delusione in cui stiamo affogando.
Dite che l’ho fatta un po’ troppo pessimistica?
D’altra parte è così. Non basta essere un genio per poter ricevere gli onori che si meritano, ma servono anche una serie di circostanze fortuite quanto si vuole, non ultima quella di nascere nel posto giusto. Qui siamo in Italia – a volte, purtroppo, mi viene da dire: “purtroppo” – e a Napoli, e i due Stefani si trovano a dover fare i conti con la povertà, la camorra, i carabinieri, i commercialisti, le tasse, le leggi italiane, la corruzione, le tasse (l’ho già detto?), la camera di commercio, l’ispettorato del lavoro, le tangenti, l’inail, e ancora le tasse, la polizia municipale, l’enel, gli assicuratori, i nas, la guardia di finanza, l’inps, i bolli, la telecom, i ragionieri, gli avvocati, equitalia, i delinquenti, l’iva, gli squali e, non ultime, le tasse. Non a caso ho messo tutto minuscolo.
E ciò che avrebbe potuto essere un’idea formidabile non solo si risolve in un nulla di fatto, ma fa anche rischiare i protagonisti di perdere ben più delle proprie idee.
Un’invenzione ironica e geniale, questa di Antonio Menna, un romanzetto amarissimo che spesso lascia filtrare un sorriso storto per le situazioni paradossali in cui incappano i protagonisti, che sono mostrate con quel disincanto e quell’autocritica di cui, a parte tutto, qualche italiano è ancora capace.
Mi verrebbe da continuare, ma dal momento che così facendo questo post si trasformerebbe in uno sfogo contro l’infinità di cose sbagliate che caratterizzano quello che sarebbe potuto essere il più bel paese del mondo, la pianto qui. Riflettete, gente, riflettete.
Think different!
Il Lettore amareggiato