Nei giorni scorsi mi sono
trovato a combattere con uno dei romanzi più famosi della letteratura italiana.
Era molto tempo che avevo intenzione di confrontarmi con Carlo Emilio Gadda e, sapendo già come la sua opera fosse di non facile
approccio, avevo sempre tergiversato fino a che mi sono deciso e ho iniziato,
con timore, la lettura di quello che, insieme a La cognizione del dolore, è il suo romanzo più conosciuto: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
Ve lo anticipo subito: non è
stato facile.
Come saprete, uno degli
aspetti che prediligo nella lettura è appunto la leggibilità, e alla fine ho concordato con coloro che hanno
dichiarato di aver trovato Carlo Emilio Gadda
pressoché illeggibile.
Perlomeno ad un avvicinamento
superficiale.
La vicenda in sé non sarebbe
complicata: Liliana Balducci, una
signora della Roma abbiente, viene barbaramente assassinata nel suo
appartamento, e il commissario Francesco
"Don Ciccio" Ingravallo è incaricato delle indagini. La
contestualizzazione è nella Capitale nei primi anni dell’avvento del fascismo,
con un “Mentone” che sbraita da
Palazzo Venezia vantandosi di essere riuscito a sconfiggere qualsiasi tipo di
delinquenza, e passa in modo quasi agevole dal descrivere una certa sua
popolazione benestante al sottoproletariato dei sobborghi.
La prima cosa che colpisce
leggendo è il marcato multilinguismo:
in poche righe si passa dall’italiano ai dialetti più stretti, principalmente romanesco,
molisano e napoletano, ma anche a qualche lingua straniera, utilizzando pure parecchi
termini arcaici o neologismi che sembrano inventati sul
momento. Questa estrema varietà si ripercuote anche sulla sintassi con una
costruzione delle frasi estremamente libera fino a raggiungere il caotico.
In teoria, a voler dare delle
definizioni, il romanzo sarebbe scritto in stile
libero indiretto, e “libero” lo è senz’altro, con un narratore onnisciente
che in ogni nuovo paragrafo devi riuscire a capire con chi di volta in volta si
identifichi nei personaggi presenti.
Un assaggino poco complicato:
“Sor dottò, l’ha trovata suo cugino, il
dottor Vallarena… Valdassena, Hanno telefonato subbito in questura. Mò è là
puro lui, a via Merulana. Ho dato disposizzioni. Mi ha detto che lo conosce.
Dice, alzò le spalle, Dice ch’era annato a trovalla. Pe salutalla, perché ha d’annà a Genova. Salutalla a quell’ora?
dico io. Dice che l’ha trovata stesa a terra, in un lago de sangue, Madonna!
Dove l’avemo trovata puro noi, su’ parquet, in camera da pranzo: stesa de
traverso co le sottane tirate su, come chi dicesse in mutanne. Il capo rigirato
un tantino… Co la gola tutta segata, tutta tajata da una parte. Ma vedesse che
tajo dottò. (…) Un tajo! che manco er macellaro.”
Da notare il dialetto, l’insolito
uso dei segni d’interpunzione (tajo!)
e il passaggio dall’uno all’altro dei due dialoganti nella stessa frase senza
nulla a rimarcarlo; peraltro in questo periodo non ci sono particolari invenzioni
lessicali da sottoporvi e un po’ me ne dispiace.
Inoltre manca un vero e
proprio protagonista con il quale identificarsi e anche per questo il romanzo
non “prende” il lettore.
Da qui, e superficialmente,
la sua leggibilità è prossima allo
zero. Troppo complesso, troppo arzigogolato per una semplice lettura alla
ricerca di “piacere”. È un romanzo di cui andrebbero studiati, e non solamente letti,
ogni passaggio e ogni singola parola, tutti i veri e propri virtuosismi linguistici, per cercare di
capire lo scopo recondito dell’autore e per apprezzarne tutti i risvolti lessicali
e sintattici, ma non sempre se ne riesce a trovare la voglia, soprattutto a
letto prima di dormire.
Da notare inoltre che il
finale del romanzo ha subìto diverse variazioni, forse sull’onda
dell’entusiasmo dovuto al termine della guerra, e a seconda delle edizioni in
cui è uscito si possono trovare delle conclusioni del tutto differenti.
Viene da stupirsi per il successo, di critica e soprattutto quello
di pubblico, che ha riscosso negli anni ‘50, perché non è un romanzetto per
tutti da sotto l’ombrellone, non è facile, non prende, e uno è costretto,
leggendo, a tenere l’attenzione salda al massimo per riuscire a comprendere
oltre ai singoli periodi addirittura le frasi e le parole stesse. Oggi come
oggi, in un’epoca in cui la superficialità la fa da padrone, penso che non avrebbe
avuto lo stesso successo. Riconosco sì l’abilità dell’autore nell’essersi
saputo districare nei meandri delle invenzioni (a me ha ricordato James Joyce), ma se devo cercare
piacere nella lettura io stesso mi rivolgerei a qualcun altro.
Per concludere quindi ne
riconosco indubbiamente il valore, ma se dicessi che mi ha fatto piacere
leggerlo sarebbe una grossa bugia, non fosse altro che per l’accrescimento
della mia cultura personale.
Il Lettore
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