domenica 30 novembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 30 novembre

Il libro oggetto dello Squizzalibro di oggi non l’ho ancora finito di leggere e quindi non so se ne parlerò bene o male. Oddio, un’idea me la sono fatta, visto che ne ho letto già più o meno cinquecentocinquanta pagine e sono in vista del finale, ma è proprio da quest’ultimo che dipenderà in buona parte la valutazione.


1 – È un romanzo, per la precisione un thriller leggero, che mi è stato consigliato tempo fa da un amico.
2 – La vicenda è complessa, ed è imperniata sulla sparizione di una ragazza avvenuta molti anni prima il tempo “attuale” del romanzo.
3 – L’autore è svizzero e non ha nemmeno trent’anni (e si sente…).
4 – Il romanzo ha ottenuto diversi riconoscimenti e può fregiarsi del titolo di bestseller. È stato tradotto in 33 lingue e in Italia ha capeggiato la classifica delle vendite per diverse settimane.
5 – Una delle tematiche del romanzo è la scrittura stessa (e anche qui… un under trenta che si mette ad insegnare come si scrive… mah…).
Sono ancora perplesso… che cosa ne scriverò?
Freereader

venerdì 28 novembre 2014

Notizie buone e cattive

Ho da comunicarvi un paio di notizie da questa scrivania: una buona e una cattiva.
La notizia buona è che ho ricominciato a leggere gli inediti che arrivano in Casa Editrice: avevo rallentato di molto l’attività di valutazione fino a sentirmi un po’ in colpa e mi sono costretto a riprendere. Il rallentamento è stato dovuto soprattutto a due ragioni: la principale è che passo troppo tempo davanti allo schermo; tra il lavorare (purtroppo poco…), il leggere, il blog, lo scrivere e, non ultima, l’attività di moderazione nel forum, alle volte mi arriva la nausea da monitor e provo una certa repulsione solo a pensare di leggere a schermo. E poi voglio stare un po’ fuori, all’aria aperta, tempo permettendo. La seconda ragione è che mi sono stufato di leggere porcate, il ché è direttamente collegato alla…

…notizia cattiva: la percentuale di bocciature continua a sfiorare il cento per cento.


Degli inediti che ho visionato in questi giorni ne ho salvato (in parte…) solo uno. Quando a scrivere è un professionista si vede subito: sinossi esauriente, presentazione impeccabile, impaginazione perfetta, testo revisionato criticamente, assoluta mancanza di errori. Un autore (una, in questo caso) che ha già pubblicato e sa come vanno le cose si riconosce fin dalle prime righe. Il problema di questo testo era che l’argomento del romanzo a me non interessava proprio, nonostante lo stile leggibile e ben articolato, e il genere era del tutto avulso da quelli trattati dalla Casa Editrice in questione. Ho consigliato l’Editore di dargli un’occhiata lui stesso e decidere autonomamente se possa fare per loro.
Per il resto…
Diciannovenni convinti a torto che l’uso di termini roboanti e concetti astrusi possa salvare il mondo dall’abbruttimento.
Ipo-maggiorenni che dopo aver letto in vita loro solo Geronimo Stilton pretendono di convincerti  che ciò che ti appresti a leggere sarà il prossimo Premio Strega.
Maestre elementari che non conoscono l’uso degli spazi: un intero testo (peraltro insulso…) senza spazi né prima né dopo tutti i segni d’interpunzione (adoperati comunque da fare schifo…).
Poesia, poesia, ancora poesia… non se ne può più! Soliti concetti e solita ricerca esasperata del termine che potrebbe colpire di più. Basta! Caro il mio Editore, a parte il fatto che non la pubblichi, tanto sai già che la poesia la boccio, ti prego, risparmiamela!
Ma quello che mi colpisce di più ogni volta è l’assoluta, persistente, inesplicabile assenza di un sia pur minimo briciolo di autocritica: quasi nessuno che si ponga il dubbio di aver scritto o meno una cosa decente, quasi nessuno che rilegga ciò che ha scritto, quasi nessuno che operi una revisione costruttiva; tutti convinti, a giudicare dalle recensioni autoincensanti che accompagnano gli elaborati, di aver scritto un capolavoro al primo tentativo.
Beati loro.
Mentre sto scrivendo questo post mi arriva una mail: un’amica di cui non farò il nome mi chiede di dare un’occhiata alle primissime pagine dell’ultimo lavoro che si sta accingendo a scrivere. L’incipit e poco altro. Le mie labbra si increspano in un sorriso – ma tu guarda la coincidenza! – apro il file e mi metto a leggere: alcune imprecisioni, ma molto promettente. Non sarà facile, ma spero che riesca a mantenere il filo fino al termine. 
L’amica ha già pubblicato, e si vede.
Il Valutatore

mercoledì 26 novembre 2014

Airborne 44

Ho preso in prestito questo volume della collana Historica di Mondadori dalla Biblioteca delle Nuvole e mi sono ripromesso di riportarlo entro i tempi prestabiliti per non incorrere nelle ire del Ferro. Ire in senso buono, naturalmente, ma devo anche farmi perdonare per non essere andato a vedere l’ultima mostra che ha allestito: il fatto che Gipi non mi piaccia proprio non credo sia una scusante valida…


Veramente pregevole quest’albo di una collana che come dice il nome indaga i più svariati aspetti della storia, da Gengis Khan all’11 settembre, e in cui è raccolto il capolavoro del fumettista belga Philippe Jarbinet originariamente pubblicato in quattro volumi e per il quale l’autore ha vinto il premio quale miglior volume al Festival di Tolosa.
Come recita il sottotitolo – La battaglia delle Ardenne – le storie sono ambientate alla fine della seconda guerra mondiale nel teatro belga dove i nazisti tentarono l’ultima sortita prima di soccombere definitivamente. Philippe Jarbinet ha disegnato delle storie avvincenti dalle quali è difficile staccarsi e che sono rese con rigore storico e nitido realismo dai quali emergono la condanna della guerra con tutte le sue crudeltà e una visione finale di un ottimismo appena velato dall’amarezza della realtà. Miscelando abilmente scene di una violenza spaventosa, come lo sbarco ad Omaha Beach,  con parentesi romantiche, il belga tiene viva l’attenzione del lettore e riesce ad approfondire l’aspetto umano di molti dei protagonisti costretti a passare attraverso vicende tragiche.

Una lettura davvero interessante, tra i volumi che ho letto della collana Historica ritengo che questo sia uno dei migliori.
Il Lettore di Fumetti 

lunedì 24 novembre 2014

Profezia

È un vero peccato che Marco Buticchi in questo romanzo non abbia inserito anche le ipotesi  che vedono lo sbarco sulla Luna come un’invenzione della Nasa e i glifi nel deserto di Atacama come testimonianze certe dell’invasione di extraterrestri: una mancanza imperdonabile, perché per il resto ci ha messo proprio tutto. Ah, no, mancano anche il complotto dell’11 settembre – forse perché il romanzo è stato scritto prima del 2001? – e la caduta del meteorite che ha provocato la scomparsa dei dinosauri… sì, lacunoso, davvero lacunoso.


Ho proseguito per circa centocinquanta pagine prima di piantarlo a metà, e ciò a causa dell’unico intento di sperimentare diverse apps tra cui scegliere quella che mi permetta di leggere i testi sul telefono nel modo più agevole possibile. Ancora non ho trovato quella ideale, ad ognuna manca qualcosa, ma per i prossimi esperimenti cambierò libro.
Prima che cominciassi a scrivere questo blog, di Marco Buticchi avevo già letto Le pietre della luna e Menorah, dei quali sinceramente non è che mi sia restato molto, ad eccezione del sentito dire sulla diatriba ricorrente se Ridley Scott gli abbia pagato o no i diritti d’autore per Il gladiatore, e di questo francamente non è che me ne importi poi molto. Ma se li avessi trovati davvero pessimi, come questo Profezia, di sicuro me ne sarei ricordato, e da ciò deriva il sospetto che il successo abbia nuociuto non poco allo scrittore ligure peggiorando di molto le sue capacità narrative.
Evidentemente trascinato dall’entusiasmo dello scrittore da poco consacrato, in questo pseudo-romanzo Buticchi ha voluto inserirci di tutto: dalla saga dei Cavalieri Templari alla leggenda di Atlantide, dalle oscure sette che governano il mondo alla caduta degli Zar, dalla politica interna israeliana alle ipotesi sulla scoperta dell’America alle tre profezie di Fatima eccetera, il tutto trattato in maniera così superficiale e grossolana che al confronto Peter Kolosimo è stato la persona più degna di fiducia di questo mondo e al comitato scientifico di trasmissioni come Mistero potreste affidare la verginità di vostra figlia.
Un coacervo di luoghi comuni e sentito dire, senza un’organizzazione logica e con personaggi definiti con una superficialità del tutto deludente che si muovono seguendo copioni talmente scontati che neanche in un film di serie zeta. Non parliamo poi dello stile: inesistente, sembra che una volta steso il canovaccio l’autore si sia stufato e abbia deciso di lasciar perdere il tutto senza passare alla fase di scrittura vera e propria. Davvero comodo, a patto di trovare poi qualcuno che ti pubblichi. Nessuna contestualizzazione, ambientazioni generiche, approfondimenti neanche a parlarne, protagonisti seriali che aspettano più di cento pagine prima di entrare in scena, descrizioni stitiche, miriadi di vicende che si intrecciano e delle quali ti passa ben presto la voglia di sapere come andranno a finire.
Tra i libri che ho iniziato ultimamente, questo entra a far parte a buon diritto della top-ten dei peggiori. E pensare che esiste qualche lettore che vi ha trovato “personaggi ben rappresentati in un libro pieno di interesse dall’altissima tensione narrativa, fantastico, un’opera di gran coinvolgimento…” e che pone Buticchi alla pari di un Wilbur Smith!
Eh sì, a quali abissi può portare l’alcolismo…
Il Lettore 

sabato 22 novembre 2014

Viaggi e mete per streghe liete

Fantastico! Finalmente un libro entusiasmante, scorrevole, interessante, dinamico, colto e divertente, didattico e affascinante.
Da leggere assolutamente!



Per darvi un’idea di che cos’è questo Viaggi e mete per Streghe liete, di Maria Laura Rosati e Maura Bussotti – un’anteprima assoluta, visto che la prima presentazione ufficiale non verrà fatta che oggi pomeriggio – non trovo nulla di meglio che riportarvi integralmente la notevolissima prefazione:

Vivo in una villa arredata con migliaia di libri, immersa in una lecceta ombrosa, dalle cui finestre ogni mattina posso vedere il sole sorgere sopra la skyline dell’affascinante capoluogo della regione più bella d’Italia. In casa ho le persone che mi sono più care e due cani e due gatti, e la quiete, il verde, le stilografiche, il forno a legna, la mia collezione di coltelli e le mie motoseghe.
Per quale diavolo di ragione dovrebbe assalirmi la voglia di viaggiare?
Tanto più se penso alla scomodità dello spostarsi, alle code in autostrada, le file agli aeroporti, gli estenuanti imbarchi sui traghetti, le località di villeggiatura stracolme di turisti invadenti il cui unico scopo è quello di carpire il massimo da una vacanza che sa di artificiale come un panino al McDonalds prima di risvegliarsi di nuovo in un condominio soffocante.
I viaggi non mi attirano.
Senza considerare che in uno degli ultimi in cui ho avuto la sventura di imbarcarmi sono stato male come un cane.
Una volta arrivato nell’entusiasmante cornice dell’isola greca, macchina traghetto macchina spalmati su ventiquattr’ore, ho scoperto con dolore e disappunto che non potevo più muovermi: fitte lancinanti percorrevano la parte posteriore della mia coscia destra, dalla punta della chiappa al cavo popliteo e ai muscoli gemelli, senza la minima possibilità di un atteggiamento posturale che possedesse una parvenza lenitiva, e questo immagino a causa dell’atmosfera polare della notte in nave provocata da un condizionamento dell’aria come nemmeno in un albergo di Las Vegas. Trascorro il primo giorno di vacanza sdraiato sul sedile posteriore a fissare il tettuccio dell’auto invece che il panorama della peraltro amena isoletta, alla ricerca di un ospedale dove al posto di invitanti cibi esotici mi nutrono con una porzione intrachiappa di Voltaren e Muscoril. La mattina dopo il dolore è attenuato, tanto da permettermi di infilare le pinne e arrancare dietro mio figlio in una nuotata in acque cristalline tra scogli, murene e pescetti di ogni tipo.
Non l’avessi mai fatto.
Il giorno successivo sono immobilizzato da dolori atroci alla gamba, ai quali si sono aggiunti i crampi ai polpacci provocati dall’uso sconsiderato delle pinne da parte di muscoli del tutto fuori allenamento.
Tutta una settimana così: di una magnifica Lefkada mi sono gustato ben poco e la mia avversione nei confronti dei traghetti ha raggiunto vette difficili da scalare.
Per fortuna non tutti i viaggi finiscono in questo modo, senza contare che di “viaggi” ne esistono innumerevoli varianti, come hanno avuto l’idea di raccontarci Maura Laura Rosati e Maura Bussotti in questo libro che costituisce un excursus in una moltitudine di tipologie di viaggio e di esperienze personali sullo stesso tema.
Le due curatrici di questo libro sono due streghe.
No, non è un eufemismo né tantomeno un’offesa, lungi da me la sola idea. Loro sono due streghe vere e proprie, nel senso più positivo del termine: streghe sono coloro che usano il potere della propria mente per creare, modificare e influenzare la realtà dalla quale sono circondate, e la magia non è altro che l’arte di creare la propria realtà personale sia in ambito spirituale che terreno. Hanno anche altri difetti, come leggere molto e seguire la filosofia vegana, ma che volete farci, quando il fine ultimo che come streghe si propongono è il benessere di loro stesse, delle persone che sono loro vicine e degli animali, allora non si può far altro che ammirarle e far sì che ti permettano di affiancarle per poter fornire un piccolo contributo al loro percorso.
Perché io le streghe le amo.
Le streghe vanno amate e non combattute, vanno comprese e non scansate, vanno affiancate e non perseguitate, in modo da collaborare insieme alla costruzione di un mondo migliore. Non vanno arse sui roghi né affogate in un sacco, ma è necessario essere loro complici nel percorrere la strada giusta come ci invitano a fare le streghe della letteratura, dalla Murgia alla Rees, dalla Divakaruni alla Torregrossa alla Allende e le altre.
E allora ecco che dopo aver scandagliato il mondo della gastronomia fornendo ricette per streghe perfette (a proposito del quale sento già parlare di un probabile seguito…) le due autrici streghe hanno esplorato l’universo del viaggio, inteso in tutte le sue molteplici accezioni: dal viaggio turistico a quello esoterico o religioso, dal viaggio interiore a quello astrale, dai viaggi della fisica a quelli nel tempo o nella storia o nei libri, transitando per luoghi mistici e fornendo consigli su dove andare, con chi partire e cosa portare con sé.
Una guida simpatica, un baedeker sui generis che non si occupa solo di luoghi ma anche delle anime che quei luoghi vanno ad intaccare, completata da una corposa miscellanea di testimonianze fornite da amici e conoscenti delle due streghe sui propri viaggi personali.
Leggendo i racconti si prova una sensazione strana: una moltitudine di esperienze, talora mistiche, talora più semplicemente terrene, ma anche se simili ognuna diversa, ognuna a fornire una preziosa dichiarazione di vita nonché un suggerimento per luoghi da visitare. Stili diversi, tecniche differenti, poche righe o resoconti più articolati, a volte l’esperienza dello scrittore esperto, a volte la spontaneità di un primo approccio alla scrittura, ma tutto vero, esperienze fresche e pure, incontaminate.
A volte pura poesia.
E non potrei aggiungere di meglio visto che il non nominato terzo autore, quello che non compare in copertina ma che figura come co-scrittore, editor, aiuto-correttore di bozze nonché redattore della soprastante prefazione, altri non è che il sottoscritto…
Smile!
Il Lettore & lo Scrittore

giovedì 20 novembre 2014

Morte in mare aperto


e altre indagini del giovane Montalbano recita il sottotitolo di quest’ultima puntata delle avventure del Commissario più famoso d’Italia, quel Salvo Montalbano che torna questa volta vestito dei panni che andavano di moda negli anni ’80, quando ancora non c’erano i telefoni cellulari, Livia aveva cominciato da poco a rompere i coglioni e Montalbano non si era ancora reso conto di che pasta fosse fatta (ma Adelina sì, cominciando subito a scomparire all’approssimarsi della genovese…).


Otto racconti dal sapore retró, narrati in un dialetto siciliano che si fa sempre più stretto man mano che Andrea Camilleri invecchia, e nei quali si ritrovano tutti o quasi i personaggi di contorno nei romanzi (solo Fazio va inteso come Fazio padre, e non Fazio figlio, ma sono sicuro che non solo qualche lettore, ma anche alcuni giornalisti che ne hanno scritto le recensioni non hanno notato la differenza) con tutte le loro manie, idiosincrasie e tipicità, quasi fossero cristallizzati nel tempo contrariamente al protagonista che pur avendo le sue solite intuizioni appare molto più freddo e pragmatico, quasi che l’autore si fosse distaccato dal voler considerare questo personaggio come un suo figlio reale.
Le trame seguono i soliti clichet dei romanzi in forma più abbreviata, e di questo costringersi alla laconicità sia la contestualizzazione che la caratterizzazione dei personaggi ne risentono parecchio: nei racconti con molti nomi spesso si fa confusione perché i singoli protagonisti non sono descritti a sufficienza, e molte motivazioni degli accadimenti avrebbero avuto bisogno di più spiegazioni per poter meglio capire le interazioni e i modi di fare sia della criminalità che della mentalità siciliana.
Il tutto appare un po'... leggerino, ecco.
Quello che volevo dire è che il libretto mi è apparso nel complesso un po’ tirato via, quasi che l’autore avesse il fiato sul collo di un editore ansioso di pubblicare l’ennesimo Camilleri per poter fare un po’ di cassetta. Poi è sempre possibile che mi sbagli, ma l’impressione è questa. Per carità, si legge ed è anche abbastanza piacevole, lo stile è quello di sempre e chi è affezionato a Camilleri lo troverà gradevole, anche se di certo non lo piazzerà tra le sue opere migliori, ma un pochino resterà deluso, perché chi ama lo scrittore siciliano, come me, per poter essere soddisfatto si aspetta sempre che ogni nuova avventura di Montalbano sia un gradino al di sopra della precedente, e invece…
Il Lettore 

martedì 18 novembre 2014

Il cardellino

Ovviamente l’indizio nascosto nello Squizzalibro di domenica era la frase: Il quadro di un certo tipo di società… che richiama il titolo del romanzo che a sua volta è costituito dal nome di un famoso quadro dell’olandese Carel Fabritius il quale, a detta dei più grandi pittori della sua epoca, è stato il più grande pittore di tutti i tempi.
Questo libro occupa un posto particolare nella mia personale casistica libraria: è il primo libro che ho letto interamente sul telefono cellulare. Devo dire che non è stato poi nemmeno tanto ostico – lo schermo dell’essequattro non è poi così piccolo e dopo i primi minuti ci si fa subito l’abitudine – e l’enorme comodità di averlo sempre a portata di mano ti permette di dedicarti alla lettura in qualsiasi luogo e in tutti i ritagli di tempo.
E di ritagli ce ne vogliono, per leggersi tutte le novecento pagine del romanzo. È per questo che l’ho voluto finire a tutti i costi, solo per dire che ho letto per intero un romanzo sul telefono (ahh, contento tu…).
Certo, avrei potuto scegliere di meglio…



Il cardellino ha vinto il Premio Pulitzer 2014, e se me ne domandaste la ragione potrei rispondervi: perché l’autrice è raccomandata, oppure: perché l’ha data a qualcuno della giuria, senza temere di allontanarmi di molto dalla verità, perché di ragioni sostanziali per le quali un romanzo del genere possa aver vinto un premio importante come il Pulitzer, io nel romanzo non ne ho trovate. Anzi.

Non che la scrittura faccia schifo, me ne guarderei bene dal dirlo. Del resto, se così fosse stato lo avrei davvero abbandonato prima del termine. Donna Tartt possiede uno stile interessante, dai lunghi periodi ricchi di subordinate che però scorrono molto fluidamente e permettono una lettura agevole. Ma lunga. Luunga. Luuunga. Luuunghiiissiiimaaa. Talmente prolissa che nelle prime cento pagine non hai idea di dove voglia andare a parare, ma sei coinvolto dallo stile pacato, dilatato, discorsivo, ricchissimo di particolari e di chiarimenti sugli stati d’animo dei protagonisti, di spunti interessanti sulla storia dell’arte e sui pregi dell’antiquariato e di dotte analisi sui trattamenti psicologici post-traumatici.
Ma da qui a meritare di vincere quel premio…
La storia è quella di Theo Decker, un tredicenne a cui muore la madre (ma per dircelo l’autrice ci impiega cento pagine) e succedono un po’ di vicissitudini che lo fanno assomigliare di volta in volta a un personaggio di Dickens, poi di Salinger e quindi di Kerouac, con un po’ di Bukowski e un pizzico di Tarantino, ma questo del tutto fuori luogo. Ciò in cui secondo me la Tartt ha peccato è l’organizzazione della struttura del romanzo, il cui ritmo è interrotto da variazioni che di volta in volta lo peggiorano.
Non puoi scrivere 600 (seicento!) pagine raccontando per filo e per segno ogni ora della giornata del protagonista, tutti i suoi pensieri e quante volte al giorno si soffia il naso (per ripulirlo dalla coca…), e poi di colpo saltare otto anni e riassumerli in due parole! Non puoi impiegare pagine su pagine per descrivere i minimi particolari di una festa di matrimonio e utilizzare lo stesso ritmo per una scena d’azione. Non puoi soffermarti per pagine e pagine su una conversazione telefonica in cui si sviscerano tutti i più reconditi aspetti burocratici per il rilascio di un passaporto sostituivo! Ma chissenefrega! Così come stufa il tormentone della tossico-dipendenza del protagonista. Dopo un po’ basta, l’abbiamo capito, e non è che sia proprio edificante!
Il cambio di registro poco dopo la metà mi ha dato molto fastidio: se prima il romanzo era lento ma possedeva un certo fascino, dopo il salto di otto anni è diventato francamente insopportabile, peggiorando man mano nel proseguire verso la fine. Ma all’autrice non glielo avrà fatto notare nessuno? E sì che ha avuto anni interi per sentire pareri. Com’è possibile che nessuno le abbia messo la pulce nell’orecchio, prima della pubblicazione, di aver scritto sì alcune pagine molto belle, ma anche molte pagine noiosissime o dialoghi inutili che si trascinano per troppo tempo?
Per me i pregi si fermano all’adolescenza di Theo, e tutta la parte da pagina 600 in poi se non proprio da buttare è in netto calando. Ma dando uno sguardo in rete si trovano anche molte recensioni entusiastiche che inneggiano proprio al finale (che come ripeto ho trovato noiosissimo), e ciò è l’ennesima conferma di quanto tutto ciò che si dica è soggettivo.
Alcuni personaggi, come Hobie, sono interessanti e ben delineati; altri alla fine ti stufano, come Boris, e altri ancora sarebbero stati da approfondire, come Horst, per le potenzialità che avrebbero potuto offrire. Di alcuni poi non si sa più che fine facciano e anche questo è un difetto non trascurabile.
Se anche la Tartt avesse voluto inserire nel romanzo qualche profonda morale, questa si sarebbe ormai perduta nella logorrèa esasperante di cui ha condito il tutto. Da questo romanzo un bravo editor  riuscirebbe a tagliare almeno tre o quattrocento pagine, rendendolo sicuramente migliore.
Il Lettore 

domenica 16 novembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 16 novembre

L’ho finito! Ce l’ho fatta! Anche se non so proprio cosa ci sia da esultare perché terminare questo libro è stato come mettersi in coda alle Poste per pagare un bollettino: ogni volta che sono costretto a farlo mi viene la nausea. Ma alla fine la costanza ha trionfato e il lieto fine si è svelato in tutto il suo splendore. Ma che cazzo stai dicendo? Hai bevuto? Perché? Ci hai già anticipato che non ti è piaciuto… Sono solo contento di averlo terminato, così posso passare ad altro di più soddisfacente. Ma se non ti piaceva, perché allora non l’hai piantato prima? No, dovevo finirlo per forza. Te l’ha ordinato il dottore? Un impegno con me stesso, dovevo finirlo a tutti i costi. Contento tu… e la ragione sarebbe? Ve la rivelo dopodomani…


1 – Mi sono già lasciato sfuggire che il tormentone è stato scritto da una gentile signora, pure belloccia, di nazionalità statunitense, che ha cominciato a scrivere in seguito all’amicizia (?) sorta con un altro grande scrittore statunitense.
2 – L’autrice è diventata famosa fin dal suo primo romanzo che ha venduto qualcosa come cinque milioni di copie, e questo lo sta seguendo a ruota.
3 – Il genere del romanzo in questione è… boh, un romanzo di formazione? Un thriller? Un mero racconto di una storia complessa? Il quadro di un certo tipo di società odierna? Dopo novecento pagine non l’ho ancora capito.
4 – Il romanzo in esame ha vinto un premio molto rinomato, e io mi sto ancora chiedendo quali siano le motivazioni.
5 – Dal momento che l’autrice ha impiegato dieci anni per scriverlo, il lato positivo è che per i prossimi dieci anni stiamo tranquilli.
A voi. Questa settimana il quiz è veramente facile, e considerate che all’interno di uno dei cinque indizi ne ho inserito un sesto nascosto, molto importante, che richiama proprio il titolo del libro stesso. Sono buono?
Freereader

venerdì 14 novembre 2014

Fuoco nelle viscere

Ebbene sì, non ho ancora terminato il tormentone che mi sta facendo dannare. Sono a poco più di pagina 850 e mi sono veramente stufato: mi viene la nausea ogni volta che mi accingo a leggere perché il romanzo, a mio parere, ha perso completamente qualsiasi attrattiva che avesse potuto avere all’inizio. Ma ormai mi sono imposto di finirlo e lo farò stoicamente, ma da qui a parlarne bene…

Nel frattempo ripeschiamo di nuovo, stavolta un libretto della serie: un bravo idraulico dovrebbe fare l’idraulico, non il ragioniere, così come un bravo regista…


Pedro Almodóvar è un bravo regista: ho visto diversi suoi film e nel complesso non mi sono dispiaciuti, nonostante lo spagnolo esibisca un po’ troppo spesso il suo amore per il “pacchiano”. Da quel vulcano di idee che è si è cimentato spesso anche nella letteratura scrivendo parecchi racconti (che fortunatamente non sono stati pubblicati), fino a dare alle stampe questo romanzetto di una novantina di pagine in cui scatena tutta la sua fantasia sotto forma di un delirante racconto in cui sesso e omicidi hanno la parte più rilevante insieme, e come dubitarne?, al solito tuffo nell’introspezione femminile che sembra faccia parte integrante di tutto il suo universo cinematografico.
La storia è quella dell’industriale cinese Chu Ming, produttore di assorbenti (e già qui…) che per vendicarsi di essere stato tradito e abbandonato da tutte e cinque le sue amanti provoca una vera e propria epidemia trasmessa in breve tempo a tutte le donne dai simpatici oggettini che produce: coloro che li utilizzano sono prese da un furore erotico incontenibile che le spinge ad andare a letto con qualsiasi uomo incontrino (e fin qui tutto bene…),  ma tutti gli uomini che si fanno circuire da queste diavolesse del sesso sono condannati ad una morte atroce con sintomatologie ributtanti che al confronto l’ebola è un raffreddorino.
E già qui casca l’asino: l’idiota vuole vendicarsi delle sue cinque amanti e fa schiattare tutto il genere maschile. Ma già, quando saranno rimaste solo donne, allora con chi potranno divertirsi? Eccola, la vendetta! Un po’ come tagliarsi l’uccello per dare un dispiacere alla moglie. Ma forse tutto ciò rientra nei più reconditi desideri del regista.
Il tutto è raccontato con uno stile del tipo tutto quello che mi passa per la testa ci metto dentro, e chissenefrega se i personaggi non sono caratterizzati, se il grottesco la fa da padrone, se si salta di palo in frasca e se di plausibile c’è solo il titolo. Un’esplosione di follìa creativa incontrollata, un’emerita cazzata che se l’autore non si fosse chiamato Pedro Almodóvar sarebbe stata rifiutata da qualsiasi casa editrice che si rispetti senza starci tanto a pensare.
E adesso cerchiamo di finire il tormentone: già mi viene la nausea solo a pensare di dover ancora leggere settanta pagine…
Il Lettore 

mercoledì 12 novembre 2014

Musashi

Anche il romanzo che vi propongo oggi consta di ben 840 pagine, ma non è il tomone che al momento sto leggendo del quale sono arrivato solo a pagina 700, e la cosa che mi da fastidio è che in me sta insorgendo una, come definirla, stanchezza nel portarlo avanti, come a dire: mi sta proprio stufando e non vedo l’ora che arrivi la fine perché l’autrice (oops…) l’ha veramente fatta troppo lunga. Ma pazientate, ancora pochi giorni…


E allora ripeschiamo di nuovo, questa volta dalla tradizione orientale, un altro romanzone tra quelli che a suo tempo mi erano piaciuti. Piaciuti? Ma che dico, di più. Nonostante lo stile arcaico, l’enfasi e la lentezza tipici di una storia vera ma anche leggendaria, scritta più di settant’anni fa in un Giappone che si trovava ancora lontano in maniera incommensurabile dalla civiltà occidentale.
Musashi è per il Giappone quello che I Promessi Sposi sono per la nostra letteratura o Via col vento per quella americana, un romanzo storico che ha dato lo spunto per una ventina di successive riscritture e almeno sette film tra i quali si possono annoverare le migliori pellicole del genere imperniate sui samurai.
La storia è ambientata nel 1600 ed è la biografia romanzata del giovane Takezo, un ragazzo sopravvissuto alla battaglia di Sekigahara, e delle vicissitudini che col tempo lo trasformeranno da umile ronin, cioè un guerriero al servizio dei potenti, nel più famoso samurai di tutti i tempi, quel Miyamoto Musashi sopravvissuto a tutti gli scontri sostenuti che da anziano si ritirerà in solitudine a scrivere il famosissimo Il libro dei cinque anelli, nel quale riverserà il suo sapere di guerriero e che al giorno d’oggi è possibile trovare sulla scrivania di manager rampanti insieme a L’arte della guerra di Sun Tzu. Che poi quelli usciti dalla Bocconi li leggano e imparino qualcosa, ho i miei dubbi.
Contrariamente però a quanto si potrebbe pensare, il libro di Eiji Yoshikawa non è un romanzo di cappa e spada nel quale le katane la fanno da padrone, ma un vero e proprio spaccato della società giapponese del diciassettesimo secolo nel quale trovare usi, culture e tradizioni di una terra infinitamente lontana da noi nel tempo e nello spazio, tanto da poter fare un parallelo con lo Shogun di James Clavell: Musashi parte da dove Shogun termina, la battaglia di Sekigahara, e racconta di personaggi situati molto più in basso nella gerarchia sociale del Giappone feudale dell’epoca rispetto ai nobili del romanzo di Clavell.
Eiji Yoshikawa era figlio lui stesso di un samurai, e descrive quindi dall’interno il codice d’onore e le usanze di questa classe di guerrieri la cui fama e il fascino si sono spinti in ogni angolo della terra. Nel caso di un vero samurai… “…c’è anche qualcosa che chiamerei l’apprezzamento dell’amarezza delle cose. Un guerriero che manchi di tale sensibilità, è come un arbusto nel deserto. Essere un forte combattente e nulla più è come essere un tifone. Lo stesso dicasi di quegli spadaccini che non pensano ad altro che alla spada. Un vero samurai, un autentico uomo di spada, ha invece il cuore compassionevole. Egli comprende l’amarezza della vita”. Parola di Miyamoto Musashi.
Come dicevo poco fa, nonostante il romanzo abbia i suoi anni (è stato scritto tra il 1930 e il 1935) e stile e ritmo ne risentano, ci si stupisce di quanto comunque si legga bene e offra continuamente spunti di interesse che riescono a far proseguire la lettura per centinaia di pagine senza stufare.
A differenza di certe autrici odierne…
Il Lettore 

lunedì 10 novembre 2014

Vacanze matte

Sempre restando in tema di ripescaggi (ancora sono a pagina 600 del crostone…), voglio proporre a chi non la conosca una lettura veramente meritevole: carina, simpatica, con quel pizzico di datato che la fa scivolare tra i classici e uno stile di scrittura da vero professionista.

Uno dei romanzi più divertenti che io abbia mai letto.


Richard Pitt Powell è stato un giornalista statunitense che negli anni quaranta si è dedicato alla narrativa, e dopo aver pubblicato un bestseller come L’uomo di Filadelfia ha scritto questo Vacanze matte dal quale è stato tratto il film Lo sceriffo scalzo con protagonista Elvis Presley.
La traduzione italiana del titolo originale del libro – Pioneer, go home! – non è che sia molto felice, in quanto il titolo americano rende meglio lo spirito che anima tutto il romanzo, quel self - american way of life (il self è mio) che è tanto caro alla popolazione statunitense (ora lasciamo perdere per un momento il problema che questo modo americano di vita ha causato innumerevoli disastri; non parliamo di politica internazionale, che il lettore…). Resta il fatto che ho letto questo libro per la prima volta che non avevo ancora vent’anni, e in seguito l’ho riletto altre due o tre volte trovandoci ogni volta di che divertirmi.
Il plot è la storia di una famiglia un po’ particolare che decide di stabilirsi in una residenza di fortuna ed è osteggiata da delinquenti e autorità locali (che capolavoro di sinossi, eh?), raccontata in prima persona da Toby Kwimper, un diciottenne che appare come una via di mezzo tra Forrest Gump e il Lil’ Abner di Al Capp. Powell è bravissimo nel calarsi nei pensieri del ragazzo e nel rimanere sempre fedele al suo punto di vista che è quello di un animo puro e leggermente ritardato, ingenuo quanto basta da far sospettare che alla fine ci marci ben bene. Ma con finezza, però.
Quella dei Kwimper si tramuta ben presto in una lotta sociale in cui i “cattivi” sono di volta in volta rappresentati da delinquenti molto caricaturizzati (che alla fine le buscano) e politici e burocrati del posto (che alla fine se ne escono scornati), ma quando sembra che questa combattiva famiglia abbia vinto con la purezza tutte le sue battaglie, ecco la nota amara del vincitore che si tramuta in perdente (e mi viene in mente Il vecchio e il mare) perché per ottenere del tutto il proprio scopo i protagonisti sono costretti ad integrarsi in quella società di regole alle quali si erano sempre rifiutati di sottostare in nome della libertà sancita dalla costituzione americana.
Una splendida e amara chiosa finale, che rimane a fungere da morale a un romanzo divertentissimo nel quale ci si trova spesso a ridere di fronte a situazioni semplicissime, un umorismo quasi da comiche, ma definito con una classe superiore.  
Il Lettore 

sabato 8 novembre 2014

Tatuaggio

Quando ci si è messi di buzzo buono a leggere un mattoncino di oltre 900 pagine, per forza di cose non si riesce a smaltire altro di nuovo in modo da onorare i tempi di un blog che si rispetti (come questo, hi hi…). Quindi per forza di cose sono costretto a ripescare letture fatte in passato per poter aggiornare queste pagine fino a che non avrò terminato il logorroico romanzo in corso di assaporamento del quale vi parlerò quanto prima (bene? Male? Ancora non ho mica deciso… ma sono solo a pag. 442…).

Invece del libro di oggi non posso che parlare bene…


Uno degli autori dei quali ho letto quasi per intero la considerevole produzione è lo spagnolo Manuel Vazquez Montalbàn. Quel Montalbàn a cui Andrea Camilleri ha voluto fare un omaggio nell’inventare il nome del suo investigatore più famoso.
Pur trovandolo a tratti prolisso e vagamente soporifero, lo stile di Manuel Vazquez Montalbàn è tale da cullarti in una routine confortante, protettiva, dalla quale non riesci a staccarti anche se ti sta raccontando qualcosa a cui sei solo lontanamente interessato. Altri autori con i quali mi è successa la stessa cosa sono Rex Stout e Arturo Pérez-Reverte. Ma a volte anche Agatha Christie e Morris West. Come una droga leggera, un’affezione che è un po’ come tornare a casa dopo un lungo viaggio.
E questo Tatuaggio, oltre ad essere il primo libro che ho letto di Montalbàn, è anche il primo romanzo in cui appare l’investigatore creato dall’autore spagnolo, quel Pepe Carvalho contraddistinto fin da subito come il prototipo dell’antieroe che infrange bellamente tutti gli stereotipi del genere giallo. Pepe Carvalho è un investigatore privato sui generis, acuto ma un po’ scalcagnato, profondo ma sfigato, appassionato della buona cucina ed eccellente gastronomo a sua volta, disincantato, profondamente di sinistra ma deluso dalla politica e cinico quanto basta da avere per compagna una prostituta che ama seriamente infischiandosene del suo mestiere che considera alla stregua di un lavoro impiegatizio come tanti altri. Una delle caratteristiche che lo hanno reso famoso è quella di ritenere che dai libri non si impari nulla, ed è per questo che li utilizza per accendere il fuoco nel camino della sua casa di Barcellona (orrore!). Oltre alla compagna Charo, gli altri personaggi che fanno da contorno a Carvalho sono il cuoco-segretario Biscuter, l’amico Fuster e l’informatore Bromuro, ognuno ben caratterizzato e di notevole spessore.
In questo romanzo Pepe è impegnato in un’indagine parallela a quella delle forze di polizia, volta a cercare di scoprire chi abbia assassinato un giovane il cui corpo è stato ritrovato su una spiaggia. Unico indizio, una scritta tatuata sulla schiena: sono nato per rivoluzionare l’inferno. Le ricerche di Pepe si svolgono sempre tra personaggi al margine, in una Spagna che risente ancora delle ferite di una guerra civile prima e di una dittatura poi, ed è alla disperata ricerca di equilibrio e salvazione.
Tutti i romanzi di Montalbàn sono permeati dell’aspetto politico e sociale, un sottofondo che risente dell’attivismo politico dello scrittore che da militante antifranchista è arrivato a far parte del Comitato Centrale del Partito Socialista di Catalogna. E’ questo soffermarsi sulle problematiche sociali che rallenta di molto l’azione delle singole storie, ma d’altra parte conferisce loro una profondità e uno spessore che le pongono al di sopra del semplice “giallo”.
Con i numerosi romanzi che si sono succeduti a questo Tatuaggio, il personaggio di Pepe Carvalho ha assunto una vita propria, un po’ come Salvo Montalbano, tanto da far pubblicare dei libri interamente dedicati ai manicaretti che vengono nominati (e assaggiati) nei suoi romanzi: Le ricette di Pepe Carvalho è un libro formato da ricette accompagnate dallo stralcio del romanzo nel quale ognuna è citata, che entra a pieno titolo nella casistica dell’investigatore in una sorta di antologia letteral-culinaria ed è come uno sfogo dell’esperienza gastronomica dell’autore.
Uno dei pochissimi romanzi di Montalbàn che non ho letto, ma che comunque possiedo e quindi prima o poi gli toccherà, è Millennio II – Pepe Carvalho, l’addio. Il libro è stato pubblicato due anni dopo la morte dello scrittore colto da un infarto all’aeroporto di Bangkok, e costituisce una sorta di congedo dell’autore dal suo personaggio più famoso.
Ci sarebbe ancora molto da parlare su Manuel Vazquez Montalbàn e il suo Pepe Carvalho, ma voglio concludere riportando quello dei suoi tanti aforismi che mi sono divertito ad inserire nel mio primo romanzo: “Qualunque uomo, per sentirsi realizzato nel corso della propria vita, dovrebbe compiere tre cose: mettere al mondo un figlio, scrivere un romanzo ed elaborare una ricetta originale a base di pollo.”
Ora, di queste tre cose è facile stabilire quale sia la più facile da fare, ma delle restanti due qual’è la più difficile?
Il Lettore 

giovedì 6 novembre 2014

Manuale di pulizie di un monaco buddista

Questo libretto mi ha incuriosito fin da quando ne ho adocchiato il titolo, e quando un libro ti incuriosisce c’è poco da fare, ci pensi e ci ripensi, fino a quando a un certo punto ti stufi e l’oggetto finisce con l’incrementare il già congruo numero di volumi sullo scaffale della libreria dedicato alle religioni, filosofie e arti marziali orientali.

Ad attirarmi sarà stata l’accattivante metafora che costituisce il sottotitolo: Spazziamo via la polvere e le nubi dell’anima, o il fatto che a casa le lavatrici le mando io?


La ragione vera è che le filosofie orientali mi hanno sempre affascinato e mi piace spesso leggere testi che cercano di spiegarle, dai più famosi come il celeberrimo Il Tao della fisica di Fritjof Capra o il serissimo Saggi sul buddismo Zen di Daisetz Teitaro Suzuki, ai più leggeri e divulgativi quali Il terzo occhio di T. Lobsang Rampa, Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugene Herrigel passando per Il Libro dei Cinque Anelli di Miyamoto Musashi o L’arte della guerra di Lao Tzu per finire con il Siddharta di Hermann Hesse. E potrei continuare a citare titoli per parecchie altre pagine.
Questo di Keisuke Matsumoto, al di là dell’operazione commerciale – sì, c’è anche questo da dire, perché un libretto così, anche se può non sembrare, in realtà vende parecchio – è un simpatico e abbastanza interessante resoconto delle procedure di pulizia all’interno di un monastero buddista, e l’autore estende ogni tecnica, dallo spazzare la propria cella al piegare gli asciugamani, fino ad applicarla affinché sia di giovamento alla propria salute spirituale. Con una similitudine parecchio ampia, sarebbe un po’ come fare ginnastica sul posto di lavoro.
In pratica è l’ennesimo tentativo di applicare le filosofie orientali al mondo occidentale, utilizzando la pratica buddista per il miglioramento di noi stessi e la risoluzione degli innumerevoli problemi che ci si presentano quotidianamente. La metafora azzeccata: pulire la propria casa è come purificare la propria mente, ricorda quello che i seguaci del buddismo zen chiamano “lo zen di tutti i giorni”, cioè il cercare di essere sempre consapevoli di se stessi e di ciò che ci accade intorno in ogni momento della giornata.
Senza guardarci, mi sapreste dire di che colore avete le calze oggi?
Ecco, appunto.
Il Lettore 

martedì 4 novembre 2014

Le cazzate che dice mio padre

Vi sono tanti modi di educare i propri figli quanti sono i padri esistenti, né esiste una sola persona che possa dire che un metodo è migliore di un altro.
In questo libro Justin Halpern ci racconta il sistema direi decisamente originale usato da suo padre Sam per crescere lui e i suoi fratelli, sistema che Justin ha scrupolosamente annotato per poi… ma lasciamo parlare l’autore: “Presi nota della frase, e quella sera la aggiunsi come firma al “non ci sono” del mio Instant Messenger. Da allora cominciai a riportare ogni giorno una perla di saggezza di mio padre. Quando un amico mi suggerì di creare una pagina su Twitter per raccogliere tutte le enormità che gli uscivano di bocca, inaugurai Le cazzate che dice mio padre. Per una settimana circa, ebbi giusto un pugno di visitatori … Una mattina scoprii che i visitatori erano diventati un migliaio. Il giorno dopo, diecimila. Poi cinquantamila. Poi cento, duecento, trecentomila…”
La conclusione: volete che qualcuno vi segua in rete?

Scrivete cazzate!!!


E da lì fino a milioni di contatti giornalieri, interviste, contratti televisivi, inviti a trasmissioni popolari, un libro da milioni di copie vendute e perfino una sit-com. Tutto per avere avuto un padre cinico ma schietto, senza peli sulla lingua né rispetto per l’acerba età dei figli, e per aver saputo sfruttare le sue stravaganti uscite. La frase di Sam con la quale Justin Halpern ha inaugurato il suo successo? Un insegnamento veterinario: “Guarda il buco del culo del cane, si vede dalla dilatazione che sta per farla. Guarda. Ci siamo.”
Esistono padri che quando un figlio viene piantato dalla propria ragazza lo consolano, soffrono con lui, cercano di risollevarlo dallo stato di depressione in cui è caduto perché ci sono passati e sanno cosa significa per un ragazzo la perdita di un amore. Sam: “Va bene, non hai mica bisogno di farmi tutta ‘sta manfrina di stronzate. Lo sai che puoi stare qui. Ti chiedo solo di non seminare in giro i tuoi stracci puzzolenti, non voglio vedere la tua camera da letto ridotta tipo postumi di un’ammucchiata. A proposito, mi spiace che la tua ragazza ti abbia scaricato.
Avete presente le raccomandazioni che si fanno ai figli quando si lasciano soli in casa? Quelle di Sam: “Telefonami se va a fuoco qualcosa. E non scopare nel mio letto.”
Sullo sconsigliare ad un figlio il vizio del fumo: “Non sei tipo da sigaro… Be’, la prima cosa che salta agli occhi è che lo tieni come se stessi facendo una sega a un topo.”
Al figlio piccolo disperato e in lacrime all’uscita dall’asilo: “Ah, l’hai trovato difficile? Be’, se l’asilo ti stressa, ho brutte notizie per te sul resto dell’esistenza.”
Oppure: “Ma i tuoi coetanei lo sanno come si usa un pettine? Sono conciati come se due scoiattoli gli si fossero arrampicati in testa per farsi una scopata.”
Justin Halpern è stato bravo a riportare le uscite del padre all’interno di un contesto di vita familiare normale, senza commentarle, rendendo le frasi lapidarie e il libro pieno di sarcasmo e spesso divertente. Considerate poi che Sam non è che sia uno scaricatore di porto, ma un medico rinomato nel suo ambiente, un uomo di una cultura sicuramente superiore che però non si trova molto a suo agio con i computer… “Lo so che cos’è Twitter. Mi parli come se non sapessi un cazzo. Bisogna far partire Internet per mettersi su Twitter.” Accompagnando le parole “far partire Internet” con il gesto di girare la chiavetta dell’accensione.
Dal racconto emerge anche tutta la tenerezza che prova un figlio per il padre e, al di là delle parolacce e del modo brusco di esplicitare i concetti, si può essere certi che alcuni insegnamenti che assumono la consistenza di vere e proprie perle di saggezza, se detti in maniera particolare, possono essere recepiti dai figli in modo che restino impressi indelebilmente nelle loro menti: “Hai quattro anni. Devi cagare nel water. Non è uno di quei negoziati in cui si fa tira e molla e ci si accorda a metà strada. Tu cagherai nel water, fine della trattativa.”
Detto inter nos, penso che per educare i figli questo sia un ottimo sistema.
Il Lettore genitore
P.S.: A proposito di questo libro, c’è un ottimo esempio di come molti commentatori in rete parlino di libri senza nemmeno averli letti. Se guardate qui:
troverete una recensione di questo libro nella quale viene riportata la frase che ho citato poco fa sul ragazzo piantato dalla fidanzata. Bene, il ragazzo abbandonato è il fratello dell’autore, non l’autore stesso, come invece la giornalista pensa che sia.
In che mondo viviamo…

domenica 2 novembre 2014

Lo Squizzalibro di domenica 2 novembre

Oggi è una splendida giornata di sole, e invece di starmene fuori nel bosco mi ritrovo qui seduto a scrivere questo Squizzalibro con i raggi del sole appena sorto che attraversano la sala in diagonale evidenziando la presenza di un po’ troppo pulviscolo. Moglie e figlio stanno ancora dormendo, i gatti pure, e il silenzio è tale che il tinnìo patologico nelle mie orecchie ne è amplificato. La luce calda del sole si mescola al tepore…

Oh, va be’, ma cosa ve ne può importare?


1 –Il libro da indovinare oggi non è un romanzo, non è un saggio, non è una biografia, anche se ha un po’ di tutto ciò. In effetti non saprei in che categoria inserirlo, forse un resoconto, un florilegio?
2 – La vicenda è comunque una narrazione biografica, anche se non esaustiva del personaggio di cui l’autore parla.
3 – L’autore è giovane e statunitense, uno di quelli che sono diventati tanto famosi in rete da avere due milioni di followers al giorno (eccheccazzo…).
4 – Nel titolo del libro c’è una parolaccia.
5 – Una profonda verità tratta dal libro: “Avere tre anni non ti da il diritto di rompere le palle.”
Buona domenica!
Freereader