mercoledì 28 settembre 2016

Alla ricerca di un editore

Qualche giorno fa una cara amica mi ha chiesto se una sua amica poteva farmi pervenire un suo manoscritto, che intendeva proporre a qualche editore per un’eventuale pubblicazione, per un mio parere sul contenuto. Le ho risposto affermativamente avvertendola che non avrei fatto sconti a nessuno e il mio parere sarebbe stato del tutto sincero anche, e soprattutto, nel caso in cui lo scritto non fosse stato di mio gradimento.
A stretto giro di posta mi è arrivato il plico in cartaceo ― una volta tanto non dovevo leggere a video! ― e dopo essere sprofondato in poltrona mi sono accinto alla lettura. Ho scoperto subito che: 1 - l’elaborato consisteva in sole 24 pagine (negativo); 2 – l’autrice aveva già pubblicato due libri (positivo); 3 – l’argomento trattato erano le sensazioni scaturite nell’autrice dall’ascolto dei brani musicali di una particolare band (neutro).
Ovvio che come non posso dirvi il nome dei protagonisti non vi dirò nemmeno il nome del gruppo musicale oggetto del contendere, sappiate solo che è un complesso famoso in tutto il mondo, molto ma molto ma molto lontano dai miei gusti musicali.
Ma questo non significa nulla, nel giudicare lo scritto non mi sarei di certo lasciato influenzare dal fatto che il sound di quel gruppo non è tra i miei preferiti: nella remota eventualità che Walter Isaacson decidesse di scrivere una biografia dei Pooh la leggerei senz’altro, pur non sognandomi minimamente di ascoltarli.




Già dalle prime righe è apparso evidente come l’autrice non fosse alla sua prima prova di scrittura e avesse anche già pubblicato: ortografia e sintassi corrette, impaginazione buona anche se non perfetta e assenza di refusi hanno fatto sì che venissero a mancare i principali e più comuni motivi per piantare il manoscritto alla seconda pagina, per cui ho proseguito e sono arrivato in fondo, dopodiché mi sono trovato nella scomoda situazione di dover scrivere una recensione esauriente per l’autrice, cercando le parole opportune per non ferire (più di tanto) i suoi sentimenti. L’avevo avvertita, se la recensione fosse stata negativa glielo avrei comunicato senza remore…
E purtroppo negativa lo era: in questo caso, pur essendo buona la forma, erano i contenuti che presentavano molti problemi o, per essere più precisi, era l’assenza di interesse da essi suscitato.
L’elaborato conteneva le impressioni suscitate nell’autrice da alcuni brani di quel complesso, insieme ad alcuni piccoli fatti di vita vissuta. Il tutto intriso di superficialità: impressioni non spiegate a sufficienza, non approfondite, non motivate abbastanza, senza alcun riferimento tecnico al tipo di musica, alle melodie, al ritmo o alle successioni armoniche, né tanto meno agli arrangiamenti o alle personalità dei musicisti. E i fatti di vita senza alcuna contestualizzazione, momenti effimeri non inquadrati in alcun contesto. Risultato: interesse suscitato nel lettore uguale a zero. Ho terminato la lettura a fatica sommerso dalla noia, ma ben conscio del fatto che l’autrice aveva fatto comunque la sua bella fatica per scriverlo e si meritava perlomeno una critica strutturata ed esauriente, cosa che ho fatto dopo poco scegliendo accuratamente le parole per non apparire troppo crudo.
Il problema stava nel fatto che nel momento in cui l’autrice ha scritto era sicuramente compresa in quegli stati d’animo che stava provando, ma non ha tenuto nella minima considerazione che cosa ne avrebbe percepito un futuro lettore. Ha scritto per se stessa, per dare sfogo ai sentimenti che provava, tanto è vero che molti passaggi apparivano scritti “di getto”, e lo scrivere le avrà sicuramente giovato nel suo aspetto terapeutico, ma non ha pensato ad inserire ingredienti che potessero suscitare interesse in un ipotetico lettore. Al termine dell’elaborato non mi era presa nemmeno la voglia di andarmi ad ascoltare, così, per curiosità, uno dei brani di cui aveva trattato.
Questo è il punto più importante: scrivendo, bisogna continuamente calarsi nei panni di chi quello scritto si troverà a leggerlo, e cercare di valutare se esso possa riuscire a suscitare interesse.
Un secondo punto non meno importante e del quale l’autrice non ha tenuto conto è la lunghezza dell’elaborato: 24 pagine a cosa potrebbero servire? Che cosa ne dovrebbe fare un editore? Troppo poche per qualsiasi pubblicazione, e da indirizzare a chi? Quale dovrebbe essere il target che potrebbe comperare un’edizione di questo tipo? Le proprie opinioni personali potrebbero interessare qualche tipo di pubblico solo se provenienti da una voce veramente autorevole, un Umberto Eco, tanto per fare un esempio, altrimenti potresti venderle solo agli amici più cari.
Ecco, questi sono due punti (dei tanti) da tenere costantemente presenti nel momento in cui si vuole scrivere qualcosa con l’intenzione di provare a pubblicarla. 
Meditate gente, meditate.
Il Valutatore 
P.S.: Dopo aver ricevuto la mia risposta l'autrice mi ha gentilmente ringraziato dicendomi che quanto le ho comunicato le è servito molto di più di tanti banali apprezzamenti. Una volta tanto...

domenica 25 settembre 2016

Everyman

Dal momento che con tutta probabilità sarà uno dei prossimi Premi Nobel per la Letteratura ― è in lista già da una decina d’anni insieme ad Haruki Murakami e non si capisce perché finora questo premio non l’abbiano assegnato a nessuno dei due preferendo anno dopo anno degli illustri sconosciuti ― e che io ancora non avevo mai letto nulla di suo, era parecchio tempo che intendevo leggere uno dei romanzi di Philip Roth, e quando ne ho visti alcuni nella libreria di un’amica ho avuto solo l’imbarazzo della scelta.
Lì per lì mi sono sentito intimorito dalla mole di Pastorale americana e dal fatto che fa parte di una trilogia, così ho preferito portarmi a casa questo Everyman del 2006, molto più breve, tanto per assaggiare.




Ma che scoperta! Ci sono parecchi scrittori che scrivono bene, ma sono veramente pochi quelli che scrivono magnificamente bene.
Con uno stile sublime, in poco più di 120 pagine Philip Roth dipana la storia di un pubblicitario di successo dalla nascita alla morte, senza mai farne sapere neppure il nome (cosa di cui mi sono accorto solo una volta terminato il libro), focalizzando l’attenzione sul decadimento fisico e psicologico del protagonista che lo conduce pian piano, come succede per ogni uomo, alla fine dell’esistenza.
La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro” ci avverte impietosamente l’autore a pagina 106.
Come potrete immaginare, non è per nulla un libro allegro, del tutto inadatto ai depressi. Ma com’è scritto! Roth sa concatenare parole e frasi da vero professionista, formandoci delle verità assolute che ognuno potrà tragicamente riconoscere nel proprio vissuto personale o in quello delle persone che gli sono o gli sono state vicine, tenendo sempre ben presente che dalla battaglia con la morte non si esce mai vincitori.
“Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato. (…) La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto.
In 120 pagine Roth riesce a mettere dentro tutta la vita del protagonista con tutti i suoi errori, i rimpianti, le amarezze, il primo incontro con la morte e le numerose operazioni chirurgiche alle quali ha dovuto sottoporsi, i desideri, le angosce e i sentimenti, e tratteggia un quadro esaustivo anche dei genitori, del fratello, delle sue ex mogli e dei figli, riuscendo a far apparire reale e dotato di spessore ognuno di loro. Come solo un grande scrittore sa fare.
Certo non è un libro facile e spensierato: è un romanzo crudo e denso di realtà, di quella che fa male, e che prima o poi, chi in un modo chi in un altro, tutti noi ci troviamo a vivere dal momento che siamo nati. Ma lascia anche il messaggio che della morte non bisogna avere paura: in un attimo ci sei e nell’attimo dopo non ci sarai più, basta, finita lì. Quello che sarebbe da temere, penso io, è solo il percorso necessario per arrivare a quell’attimo dopo.
Ma cerchiamo di tornare allegri che è meglio. Nonostante l’argomento forte è un libro che vi consiglio, non fosse altro per rendersi conto di come scrive uno situato un gradino sopra. Il prossimo mese verranno assegnati i Nobel 2016 per la Letteratura: penso che Roth o Murakami lo meriterebbero in assoluto. Sarò sincero, non mi farebbe piacere vederlo assegnato a un altro perfetto sconosciuto.
Il Lettore 

giovedì 22 settembre 2016

La Verità

E tra le letture di uno come Freereader poteva mancare un quotidiano? Giammai! Sono anni che leggo i quotidiani on line (due) tutte le mattine, ma non avevo mai sentito il bisogno di scriverci un post sopra. La lettura dei quotidiani è indispensabile perché indispensabile è la conoscenza di ciò che ti succede intorno e, se da una parte al giorno d’oggi siamo subissati da una quantità d’informazione che si avvicina pericolosamente ad essere troppa, l’essere aggiornati e consci di ciò che ti sta accadendo vicino e lontano è assolutamente obbligatorio.
Ma come è possibile far finta di niente quando sai comunque che quell’informazione è per buona parte falsata da coloro che controllano (economicamente, politicamente…) il mezzo dal quale la trai? So perfettamente che i giornali che leggo abitualmente sono di parte, anche se loro sostengono di non esserlo, e per questo ne leggo due, ognuno vicino a fazioni politiche tra loro in contrasto, perché così posso mediare l’informazione. Oltre a prendere con beneficio d’inventario qualsiasi cosa mi venga propinata.
Una buona notizia è che dall’altro ieri, cioè dal 20 settembre 2016, è in edicola un nuovo quotidiano che si dichiara del tutto svincolato da qualsiasi interesse economico e politico. Se fosse vero, non potrei esserne che contento.




La Verità, che come testata per un quotidiano ha un significato parecchio impegnativo, è un nuovo giornale fondato e diretto da Maurizio Belpietro, già alla guida di Libero, dal quale sembra se ne sia andato perché ai proprietari di quel giornale non erano andati giù i toni abbastanza accesi che vi si usavano contro Matteo Renzi.
A Belpietro si sono affiancati nomi già famosi nel giornalismo come Gianpaolo Pansa, Stefano Lorenzetto, Mario Giordano, Luca Telese, e anche scrittori arcinoti come Andrea Vitali, con lo scopo di creare un giornale, come dicono loro stessi, “senza padroni né padrini”. Fosse vero!
Mi è capitato tra le mani il primo numero e l’ho letto tutto per rendermi conto di persona di cosa stiamo parlando, e in effetti gli attacchi contro Renzi e la politica suicida (nel senso che ci stanno spingendo al suicidio) dell’attuale governo non l’hanno mandati certo a dire, così come sono chiari gli avvertimenti di Giordano sulle continue prese per il culo che gli stessi operano nei confronti di noi normali cittadini, come il mettere alla luce del sole il fatto che hanno sostenuto di aver diminuito gli stipendi dei consiglieri regionali mentre in realtà li hanno aumentati.
Ma ripeto, io sono un San Tommaso per natura, e anche questo nuovo mezzo d’informazione lo prenderò con beneficio d’inventario.
Certo, fa comunque piacere sentire voci che siano fuori dal coro. Matteo Renzi appare in televisione (in tutte) centinaia di volte al giorno e sembra che tutto ciò che fa e che dice sia sacrosanto e incontrovertibile: è mai possibile che qualcuno non sospetti la scarsa plausibilità di questo stato di santità? Intendete bene, io non ce l’ho assolutamente con lui, povero bucciotto, meschina marionetta messa lì da chi ha poteri più grandi dei suoi, ma sentire finalmente qualcuno che le cose le tira fuori non può che gratificarmi.
Durerà? Sarà vero che sono e si manterranno neutrali e non controllati? Riusciranno a campare ancora per qualche giorno? Mah! Solo il futuro ce lo dirà.
Il fatto è che ora i quotidiani da leggere ogni mattina sono diventati tre.
Il Lettore che ama essere informato (e non preso per il culo)

martedì 20 settembre 2016

Primavera silenziosa

Ogni tanto bisogna risalire alle origini. Per rendersi meglio conto di come sono nate le cose, i movimenti, le ideologie, per sfrondare un concetto da tutto ciò che ne è derivato e che, spesso, ha portato a modifiche di quel concetto tali da non potervi più riconoscere le intenzioni originarie.
Rachel Carson ha pubblicato questo libro nel 1962, probabilmente senza nemmeno immaginare, ma forse sperandolo, che sarebbe diventato un testo fondamentale sull’argomento e che avrebbe dato l’avvio al movimento ambientalista in tutto il mondo.
Peccato che sia morta subito dopo la pubblicazione e quindi non abbia potuto vederlo diventare un cult book osannato da una metà del mondo e demonizzato dall’altra metà.




Primavera silenziosa è stato uno dei libri più combattuti di sempre da parte di tutti coloro che dopo averlo letto hanno sentito intaccati i propri interessi economici. Le multinazionali della chimica si sono scagliate addosso al libro e all’autrice come prima avevano fatto solo nella campagna per la demonizzazione della cannabis che non le faceva guadagnare smerciando il loro petrolio. Come poi è successo a metà degli anni ‘70 ad Hans Ruesch e al suo Imperatrice nuda che denunciava l’inutilità della sperimentazione sugli animali, la sua crudeltà e gli interessi economici che continuavano ad alimentarla.
E solo perché la Carson aveva detto, in estrema sintesi, che avvelenando gli insetti per proteggere le coltivazioni si sarebbero avvelenati anche gli uccelli che degli insetti si cibano, fino a non sentire più il loro canto.
Fortunatamente in molti credettero alla Carson e si resero conto del pericolo: solo dieci anni dopo dalla pubblicazione si riuscì ad abolire l’uso del DDT, e da allora il movimento ecologista è in continua crescita e ha raggiunto per lo meno il risultato di sensibilizzare l’opinione di milioni di persone.
A parte i fanatismi: adesso sembra che se sopra una confezione di pere non ci sia scritto BIO, e cioè coltivate senza insetticidi, senza concimi chimici, parlando con esse quando sono ancora piccole e facendo loro qualche carezzina ogni tanto, non si possano  nemmeno prendere in considerazione per morsicarle. Magari anestetizzandole prima per non far provare loro dolore.
Ma lasciando perdere le battute, in cinquant’anni dalla pubblicazione del libro molte battaglie sono state vinte e molte altre sono in corso di svolgimento, e in genere sono sempre battaglie economiche, per non permettere a persone senza scrupoli di continuare ad arricchirsi sulla pelle di tutti e di tutto.
E allora ogni tanto è bene ricordarsi da dove è nato tutto ciò, rileggendo le frasi chiarissime della biologa statunitense, “Avremmo migliori probabilità di sopravvivere se ci adattassimo al nostro pianeta e lo valutassimo in modo più positivo, invece di considerarlo in modo così scettico e dittatoriale”, i dati di fatto e le prove riportati per convincere il lettore a trattare meglio la terra che calpesta.
Nel mio piccolo, per ogni pianta che ho abbattuto (per scaldarmi d’inverno, NdF) ne ho sempre piantate altre cinque o sei, nutro le mie piccole coltivazioni solo con naturalissima cacca di cavallo e ogni volta che le annaffio lascio che le zanzare mi massacrino.
Il Lettore ecosostenitore (e pieno di ponfi: ho appena annaffiato)

venerdì 16 settembre 2016

Una carriera al termine

Subito dopo aver pubblicato il post su Frederick Forsyth mi sono messo a leggere le notizie on line e tanto bene in prima pagina ho trovato il faccione dell’inglese che ha annunciato di voler dire addio alla scrittura.
La cosa mi ha stupito, e se pur ne comprendo i motivi ― a 78 anni uno ha tutti i diritti di voler smettere di lavorare, e chissà perché mi viene in mente Andrea Camilleri  ― mi è difficile pensare a un attempato Michelangelo che lascia prendere la ruggine al martello o a un Galileo che non guarda più dentro un cannocchiale.




La ragione addotta è che l’autore non ce la fa più a girare per il mondo per documentarsi sui suoi nuovi lavori e la moglie lo ha amorevolmente consigliato (costretto) a piantarla. Già, perché per ogni nuovo romanzo Forsyth andava personalmente nei luoghi dove questo era ambientato per scriverne con cognizione di causa e ogni nuovo progetto necessitava quindi di mesi di viaggi e tribolazioni, cosa che a 78 anni può risultare faticosa oltreché pericolosa, visto che i paesi in cui doversi recare erano molto spesso in guerra.
Del resto, dopo almeno dieci bestsellers e 70 milioni di copie vendute nel mondo uno può anche permettersi di tirare i remi in barca.
Peccato, perché proprio pochi giorni fa dicevo che mi sarebbe piaciuto ancora leggere un altro suo romanzo all’altezza de Il giorno dello sciacallo o Il Vendicatore, visto che quelli che sono venuti dopo erano restati sotto le aspettative. Di suo mi è rimasto di leggere solo l’ultimo libro uscito: L’outsider, il romanzo della mia vita, che è la propria autobiografia, e prima o poi lo leggerò, perché anche se non è un romanzo in ogni caso lo stile sarà quello di sempre.
E poi resta sempre la speranza che cambi idea, o che magari ambienti un thriller vicino a casa sua tra le campagne del Buckinghamshire
Il Lettore 

martedì 13 settembre 2016

Il vendicatore

L’altro giorno mi è caduto l’occhio sulla gara di triathlon alle paralimpiadi e mi è presa voglia di rileggere il brano su questo sport che Frederick Forsyth ha inserito nel suo Il vendicatore. Il protagonista del romanzo pratica questa disciplina per tenersi in forma, e lo scrittore inglese descrive bene le singole e diverse difficoltà a cui vanno incontro i suoi praticanti nel nuoto, nel ciclismo e nella corsa e come questa sia una delle attività sportive in assoluto più massacranti. Il brano è proprio all’inizio del libro, e già che c’ero ho proseguito e l’ho riletto per intero.
Per la sesta o settima volta.




Calvin Dexter è un avvocato cinquantenne che ogni tanto si prende qualche pausa dal lavoro per dedicarsi alla sua seconda attività: ricercare, catturare e consegnare alla giustizia statunitense criminali che si sono macchiati di delitti esecrabili e hanno cercato di rendersi irreperibili all’estero, vanificando così le loro ricerche da parte degli organi ufficiali. Nel romanzo è spiegato esaurientemente il perché Dexter si dedica a questa attività nascosta e il come nel corso della sua vita ha affinato le capacità necessarie a svolgerla.
Avenger è il nom de plume in cui l’avvocato si cala per compiere questi lavori, e nel libro si mette alla ricerca di un criminale di guerra jugoslavo che ha brutalmente assassinato un ragazzo americano senza alcuna ragione. Una delle atrocità inspiegabili della guerra nell’ex-jugoslavia.
Detto così può sembrare riduttivo, ma Il vendicatore è uno dei libri d’azione, spionaggio e  avventura più belli che io abbia mai letto (altrimenti non l’avrei riletto 6 o 7 volte). Alla pari con Il giorno dello Sciacallo.
Perché non è solo un libro “d’azione”. Frederick Forsyth ha pianificato il plot del romanzo fin nei più piccoli particolari ed è riuscito a stenderlo facendo in modo che la tensione narrativa aumenti costantemente fino a sfociare in una serie di risoluzioni che soddisfano il lettore e culminare nei due topici colpi di scena finali proprio all’ultima pagina del libro.
E inframmezza l’azione portando alla luce gli aspetti nascosti della storia internazionale degli ultimi decenni, dalla guerra in Vietnam alla nascita di Al Qaida e del terrorismo islamico, e dei “giochi” all’interno delle organizzazioni di intelligence, senza dimenticare di sottolineare sempre l’aspetto umano dei suoi protagonisti.
Lo finisci di leggere, ti senti di nuovo gratificato per i colpi di scena finali nonostante tu li conosca a memoria, e vorresti che tutti i romanzi fossero come questo: ottimamente costruito e splendidamente scritto. Poi ti rendi conto che questo non è possibile e cadi in depressione. Dopo Il vendicatore anche lo stesso Forsyth non è più (ancora) riuscito a scrivere un altro romanzo che gli potesse restare alla pari.
Ma ancora l’inglese morto non è, speriamo bene.
Il Lettore

venerdì 9 settembre 2016

La sostanza del male

Una mattina della settimana scorsa stavo prendendo un caffè con una lettrice di questo blog che a un certo punto mi ha detto: “Hai letto qualcosa di pessimo ultimamente? Sono molto più divertenti le recensioni in cui stronchi qualche romanzo che quelle dei libri che ti sono piaciuti.”
Sono ammutolito. Tu cerchi di divulgare un po’ di cultura senza secondi fini e scappa fuori che sei più divertente se massacri qualcuno. Forse è per questo che le trasmissioni televisive culturali non riscuotono molta audience. Ho ribattuto che non lo faccio apposta e cerco di giudicare ciò che leggo nel modo più obiettivo possibile, ma forse in caso di pareri negativi il mio lato sadico prende il sopravvento e permea il giudizio di quel cinismo che sarebbe fuori luogo in una recensione positiva. E poi in questi ultimi tempi mi sono capitati buoni romanzi e mi auguro, le ho detto, di poter continuare a scrivere recensioni che ti divertano un po’ meno eccetera eccetera.
Poi, neanche a farlo apposta, lo stesso pomeriggio mi è capitato tra le mani questo:




Libro pompatissimo, pubblicazione preceduta e seguita da un sostenuto battage pubblicitario, risse per accaparrarsi i diritti di pubblicazione all’estero eccetera, La sostanza del male è (avrebbe voluto essere) un thriller ambientato sulle Dolomiti che in tutta verità non avevo alcuna curiosità di leggere. Poi mi è capitato tra le mani in forma digitale e già che ce l’avevo l’ho iniziato. Devo dire che all’inizio è anche piacevole: ritmo agile e veloce, sembrava promettere bene.
Ma già solo a pagina 23 la prima toppata: “Divoravo crostate, strudel e quant’altro.
Quant’altro? Quant’altro???!!! Ho sempre odiato questa locuzione molto cara ai politicantucoli sinistrorsi che indica la chiara mancanza di voglia di faticare per cercare altri termini inerenti al concetto, e se purtroppo, anche se vorresti, non puoi stare a criticare tutti coloro che la usano parlando, da uno che vuole essere uno scrittore non la accetti proprio, perché è un chiaro indice della diffusa superficialità giovanile e contemporanea. Dimmelo tu, cosa divoravi insieme a crostate e strudel, non è questo che rientra fra le cose che un buon scrittore deve lasciar intuire.
Purtroppo a questo punto la frittata è fatta. È bastata una sola parola (due) per farmi guardare il romanzo con altri occhi. Da pag. 23 in avanti quella storia che era partita bene si è trasformata nel film La sottile linea rossa: interminabile quando tu non vedi l’ora che finisca, perché vuoi sì vedere come va a finire, ma non ti piace già più e ti mette pensiero ogni volta che lo apri per proseguire. E come il film, il romanzo non finisce mai.
E allora cominci a notare tutto: superficialità nella contestualizzazione che avresti apprezzato un poco più approfondita, stile asettico da scuola di scrittura creativa dopo il passaggio di un buon editor, continue ripetizioni di concetti già trattati, tormentoni che finiscono con l’essere irritanti (quante lettere ha la parola “palla”?) anche quelli insegnati nelle scuole di scrittura creativa, dialoghi fatti con lo stampino.
Ecco, i dialoghi. Il romanzo è fatto soprattutto di dialoghi tra il protagonista e svariati altri personaggi, dialoghi che occupano un buon settanta per cento delle pagine. Il problema è che tra l’uno e l’altro personaggio nel discorso non cambia assolutamente nulla e sembra di stare a sentir parlare sempre la stessa persona. Nessuna differenziazione nello stile, nel ritmo del parlato, nessuna caratterizzazione che renda quella tal persona immediatamente distinguibile dalle altre: tutti uguali, sembra che il protagonista parli sempre con se stesso.
Ma in compenso il romanzo è ricco di enfatizzazione per cercare (senza riuscire) di creare un’atmosfera di terrore. Per fare un esempio vi riporto questo brano nel quale anche gli “a capo” sono sistemati in modo da far colpo:
 “Infine.
 L’urlo di Dio. La valanga ad annientare il cielo.
 Vattene!
 Fu a quel punto che vidi. Quando rimasi solo, al di là del tempo e dello spazio, io vidi.
 Il buio.
 Il buio totale. Ma non morii. Oh no. La Bestia si prese gioco di me. Mi lasciò vivere. La Bestia che adesso sussurrava: «Resterai con me per sempre, per sempre...»
 Non mentiva.
 Una parte di me è ancora lí.
Ma per favore! Effetti speciali e parole buttate lì per fare del sensazionalismo che neanche nel film Batman contro Superman.
A proposito di una delle “Bestie” che l’autore tira in ballo: a un certo punto viene spiegato il concetto di “nicchia ecologica” per giustificare la possibile presenza di un fossile vivente di duecento milioni di anni fa che potrebbe essere sopravvissuto all’interno appunto di una nicchia ecologica creatasi in un ambiente particolare delle Dolomiti. Come concetto sarebbe anche corretto, il problema è che duecento milioni di anni fa le Alpi non erano nemmeno lontanamente vicine all’inizio della loro formazione, e di conseguenza quelle nicchie al cui interno l’animale avrebbe dovuto essere sopravvissuto non esistevano proprio. “Piccololapsus.
E non posso parlare del colpo di scena finale, perché nel caso doveste leggere il romanzo non posso togliervi il gusto (!) della sorpresa. Sappiate comunque che anche questo non mi ha per niente soddisfatto. Dopo che me ne sono disamorato ho terminato il libro a fatica sperando che finisse il prima possibile, e quando sono finalmente riuscito ad arrivare in fondo l’ho archiviato con un piacere molto lontano da quello che ti procura una buona lettura.
Un romanzo che potrebbe forse piacere a quelli ai quali è piaciuto La verità sul caso Harry Quebert: li ho trovati molto simili nella loro inconsistenza. Ottima leggibilità, ma quando vai a stringere… Un romanzo giovanile scritto per giovani, per quelli che non leggono, e quindi non riescono a distinguere una cosa veramente buona da una che vuole solo apparire tale.
Il Lettore (con “qualche” conoscenza di paleontologia)

martedì 6 settembre 2016

La salamandra

Morris Langlo West è stato uno scrittore australiano che ho amato molto, e questo La salamandra è stato quello che dei suoi romanzi ho letto per primo. La cosa che mi ha colpito da subito nel libro è che, da come la storia è narrata, sembra che a scriverla sia stato proprio un italiano, e non uno venuto dall’altra parte del mondo.




C’è da dire che West, australiano, ha vissuto parecchi anni in Italia, e da studioso di tematiche teologiche è stato molto vicino sia alla Chiesa che alla nostre cultura e politica, e in questo romanzo tratteggia proprio una situazione di fanta-politica italiana che poi non si discosta molto da quelli che sono stati fatti reali accaduti tra gli anni ’70 e gli ’80 dello scorso secolo.
Dante Alighieri Matucci è un colonnello dei carabinieri del servizio segreto dal nome proprio importante, che si trova a dover indagare sulla morte del conte Massimo Pantaleoni, un Generale di Stato Maggiore. Il conte sembra sia morto per cause naturali, ma un sospetto tira l’altro e il colonnello Matucci si trova invischiato in una serie di italianissimi intrighi politici che lo porteranno a viaggiare (fuggire) per buona parte dello stivale e a trovarsi impelagato in un vero e proprio tentativo di colpo di stato. Ogni analogia con i reali fatti di quell’epoca è puramente voluta.
Ma non crediate di trovarvi di fronte a un pancottone politico. Lo stile di West è squisito e il romanzo è agile e veloce, sicuramente merito della gavetta fatta dallo scrittore quando a inizi carriera aveva cominciato con lo scrivere romanzi d’avventura (la serie con McCreary) per poi passare ad opere più consistenti dal punto di vista dei contenuti.
E la politica non era il solo argomento che interessava lo scrittore. Molti dei suoi libri sono a carattere religioso e politico-religioso, come L’avvocato del diavolo col quale si è fatto conoscere in tutto il mondo all’inizio degli anni ’60, o come Nei panni di Pietro dal quale è stato tratto un film di discreto successo con protagonista un grande Anthony Quinn.
A me sono piaciuti molto anche quei suoi romanzi in cui porta in primo piano i sentimenti dell’uomo, sempre trattati con molta classe e serietà, in opere come Il Navigatore o Lupo rosso.
Uno scrittore rimasto sempre con un basso profilo ma i cui romanzi sono stati di alto valore. Tutto il contrario insomma di molti autori odierni che amano strombazzare il proprio nome a destra e sinistra, ma quanto a valore…
Il Lettore

domenica 4 settembre 2016

Lo Squizzalibro di domenica 4 settembre 2016

Sono un po’ in ritardo sul mio consueto ritmo di pubblicazione perché sto leggendo un romanzo, consigliatomi da una lettrice di questo blog, che mi sta dando la stessa sensazione provata nel guardare il film La sottile linea rossa.
Ve lo ricordate? Film di guerra di qualche anno fa che ha ottenuto anche diverse candidature agli Oscar. Ero insieme ad alcuni amici e tutti abbiamo provato la stessa sensazione: il film inizia e tu speri che finisca subito. Non che sia fatto male o che sia (veramente) brutto, ma tu non vedi l’ora che finisca. Una scena si sussegue all’altra e tu non vuoi altro che tornartene a casa. Colpo di scena, ti auguri che finalmente sia finito, ma no, altre scene e altre avventure. Non termina mai, una dopo l’altra in un infinito susseguirsi di nuove vicende. Ci trovavamo tutti sull’orlo dell’esasperazione. Ecco! È finito! No, è un’ennesima finta, continuano ancora a combattere. Cominciamo ad alzarci in piedi e qualcuno inizia col dire di scaraventare il lettore di DVD dalla finestra. E ancora, e poi ancora, in un’interminabile sequela di riprese che ti domandi come mai la guerra sia finita da un pezzo ma da questo cazzo di film invece non si riesca a uscirne mai. Fino a che la butti sul ridere, ridi ogni volta che pensi sia terminato e invece ricomincia, ridi e cominci a ipotizzare dove ficcheresti al regista tutti gli Oscar che non ha vinto, uno dopo l’altro, uno per ogni nuova scena, in una sfilza infinita di statuette che così perlomeno si ricorda bene il perché alla fine non li ha vinti.
Quando il film è finalmente! terminato, a tarda notte, ha lasciato tutti stremati, tanto da far fatica a scrivere il nome del regista, M-a-l-i-c-k, sul libretto nero dei registi dai quali tenersi alla larga (nel mio libretto l’ho segnato proprio accanto a Wenders).
Ecco, il libro che sto ancora leggendo mi dà la stessa sensazione. Ma ve ne parlerò.
Per intanto ho trovato qualcosa da Squizzalibrarvi.



1 – Il libro che dovrete indovinare ha come tema la fantapolitica. Un po’ retrò, visto che la vicenda si svolge negli anni ’70 e quindi di quegli anni c’è più poco da scoprire.

2 – La vicenda si svolge in Italia in pieni anni di piombo, il protagonista è italianissimo ― addirittura un colonnello dei carabinieri ― e italiani sono la maggior parte degli altri personaggi.
3 – Perché ho tenuto a precisare che la maggior parte dei protagonisti sono italiani come se fosse una cosa strana? Perché l’autore italiano non lo è: chi ha scritto questo romanzo veniva dall’altra parte del mondo, nientedimeno che dall’Australia. Ho detto veniva perché purtroppo questo scrittore è morto, ma ha fatto in tempo a lasciarci una ventina di buoni romanzi.
4 – E pure se australiano l’autore ha descritto in modo mirabile una realtà tutta nostrana, tanto che, leggendo, non si direbbe proprio che chi ha scritto quelle pagine è straniero.
5 – Nel titolo c’è il nome di un animale che non siamo abituati a vedere tanto spesso. Australiano anch’esso? No, più semplicemente è un animale che di solito preferisce starsene nascosto…
E speriamo che di quest’altro romanzo se ne veda la fine…
Freereader