Dopo aver letto Il vagabondo delle stelle non potevo
prendere in mano un altro libro che gli fosse qualitativamente inferiore,
perché conosco me stesso, e so che
dopo un’opera del genere non mi sarei accontentato di un romanzuccio leggero di
quelli tanto per far passare il tempo.
La soluzione si è presentata capitando in casa di un’anziana signora
dove il karma ha voluto che mi
cadesse l’occhio su una libreria (o toh! e come mai?) piena di libri di altre epoche e quasi del tutto carente di
romanzi attuali. Tra i tanti titoli meritevoli ho preso in mano questo Conversazione in Sicilia che non mi era
mai capitato di leggere e ho cominciato con l’assaporarne l’incipit… “Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori.”; quindi mi sono accomodato in poltrona, temperatura ideale, silenzio
assoluto, e ho continuato nella lettura del romanzo per un’oretta buona in una
pace ultraterrena, lasciandomi trascinare dallo stile essenziale e lucido di un
altro scrittore di un altro secolo.
Elio
Vittorini è stato uno dei
più grandi scrittori italiani e in questo romanzo fa parlare il modesto
impiegato Silvestro Ferrauto che,
dopo aver ricevuto una lettera del padre con la quale lo informava di aver
abbandonato la madre ed essersene andato con un’altra donna, decide di fare una
visita inaspettata alla propria madre e parte per il profondo della Sicilia dove ancora lei vive da sola.
Ma lo stesso autore subito ti spiazza un pochino perché avverte che sì, lui
parla di Sicilia, ma avrebbe potuto essere un qualsiasi altro luogo in una
qualsiasi altra epoca, conferendo quindi da subito al romanzo un forte sapore
di indeterminatezza che accompagnerà
il lettore fino alla fine.
Da qui il lungo viaggio verso un Sud antico, nel quale
si susseguono una serie di dialoghi con personaggi improbabili, a partire da una
madre giovane ma vecchia, ognuno dei quali è un’allegoria che scandisce metafore: “Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un
affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame.”
E ancora: “E l’arrotino: ― Coltelli? Forbici? Credete
che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo?”
Dove i coltelli e le forbici
in realtà nelle intenzioni di Vittorini rappresentano le persone capaci di mettere in atto una rivoluzione. Perché l’autore
ha scritto un romanzo di fantasia, sì, che è in realtà una denuncia nei confronti del regime fascista ― è stato pubblicato dapprima a puntate tra il 1938 e il 1939 per la
rivista Letteratura, quindi nel 1941 ― neanche tanto abilmente mascherata per
non incorrere nella censura o addirittura nell’arresto. Da qui la puzza
metaforica proveniente dallo scompartimento del treno dove viaggiano dei
funzionari di regime, o l’ironia sulla madre che dovrebbe provare, ma non
prova, una gioia “patria” alla notizia del figlio morto in guerra.
Al di là del contenuto, come
lettura è anche abbastanza piacevole e vi si nota una sintassi d’artista (che si distingue subito soprattutto se
paragonata alla perfezione formale di una buona traduzione), leggermente
inficiata, oggi che siamo abituati a ritmi più sostenuti, dalle ripetizioni
continue ― brevi dialoghi di poche e scarne frasi inframmezzate da
esclamazioni, e ripetuti più volte ― che sicuramente Vittorini ha inserito per
rendere il dialogo più rispondente
alla realtà, e dalla generale vaghezza di fondo che conferisce un tocco di
surreale.
E se vogliamo, a distanza di
settantacinque anni dalla pubblicazione, possiamo trovare un moderno spunto di
attualità nell’attacco contro il governo dittatoriale dell’epoca, un parallelismo con la situazione attuale
di indifferenza popolare e soprattutto di impotenza
nei confronti di un meccanismo ugualmente dittatoriale e autoalimentantesi
contro il quale nessuno sembra possa fare qualcosa.
Il Lettore