martedì 30 agosto 2016

Conversazione in Sicilia

Dopo aver letto Il vagabondo delle stelle non potevo prendere in mano un altro libro che gli fosse qualitativamente inferiore, perché conosco me stesso, e so che dopo un’opera del genere non mi sarei accontentato di un romanzuccio leggero di quelli tanto per far passare il tempo.
La soluzione si è presentata capitando in casa di un’anziana signora dove il karma ha voluto che mi cadesse l’occhio su una libreria (o toh! e come mai?) piena di libri di altre epoche e quasi del tutto carente di romanzi attuali. Tra i tanti titoli meritevoli ho preso in mano questo Conversazione in Sicilia che non mi era mai capitato di leggere e ho cominciato con l’assaporarne l’incipit… “Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori.”; quindi mi sono accomodato in poltrona, temperatura ideale, silenzio assoluto, e ho continuato nella lettura del romanzo per un’oretta buona in una pace ultraterrena, lasciandomi trascinare dallo stile essenziale e lucido di un altro scrittore di un altro secolo.




Elio Vittorini è stato uno dei più grandi scrittori italiani e in questo romanzo fa parlare il modesto impiegato Silvestro Ferrauto che, dopo aver ricevuto una lettera del padre con la quale lo informava di aver abbandonato la madre ed essersene andato con un’altra donna, decide di fare una visita inaspettata alla propria madre e parte per il profondo della Sicilia dove ancora lei vive da sola. Ma lo stesso autore subito ti spiazza un pochino perché avverte che sì, lui parla di Sicilia, ma avrebbe potuto essere un qualsiasi altro luogo in una qualsiasi altra epoca, conferendo quindi da subito al romanzo un forte sapore di indeterminatezza che accompagnerà il lettore fino alla fine.
Da qui il lungo viaggio verso un Sud antico, nel quale si susseguono una serie di dialoghi con personaggi improbabili, a partire da una madre giovane ma vecchia, ognuno dei quali è un’allegoria che scandisce metafore: “Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame.”
E ancora: “E l’arrotino: ― Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo?
Dove i coltelli e le forbici in realtà nelle intenzioni di Vittorini rappresentano le persone capaci di mettere in atto una rivoluzione. Perché l’autore ha scritto un romanzo di fantasia, sì, che è in realtà una denuncia nei confronti del regime fascista ― è stato pubblicato dapprima  a puntate tra il 1938 e il 1939 per la rivista Letteratura, quindi nel 1941 ― neanche tanto abilmente mascherata per non incorrere nella censura o addirittura nell’arresto. Da qui la puzza metaforica proveniente dallo scompartimento del treno dove viaggiano dei funzionari di regime, o l’ironia sulla madre che dovrebbe provare, ma non prova, una gioia “patria” alla notizia del figlio morto in guerra.
Al di là del contenuto, come lettura è anche abbastanza piacevole e vi si nota una sintassi d’artista (che si distingue subito soprattutto se paragonata alla perfezione formale di una buona traduzione), leggermente inficiata, oggi che siamo abituati a ritmi più sostenuti, dalle ripetizioni continue ― brevi dialoghi di poche e scarne frasi inframmezzate da esclamazioni, e ripetuti più volte ― che sicuramente Vittorini ha inserito per rendere il dialogo più rispondente alla realtà, e dalla generale vaghezza di fondo che conferisce un tocco di surreale.
E se vogliamo, a distanza di settantacinque anni dalla pubblicazione, possiamo trovare un moderno spunto di attualità nell’attacco contro il governo dittatoriale dell’epoca, un parallelismo con la situazione attuale di indifferenza popolare e soprattutto di impotenza nei confronti di un meccanismo ugualmente dittatoriale e autoalimentantesi contro il quale nessuno sembra possa fare qualcosa.
Il Lettore

venerdì 26 agosto 2016

Il vagabondo delle stelle

Oggi parliamo di un libro veramente importante.
Ho dovuto sospendere la lettura di questo romanzo poche decine di pagine dopo averlo iniziato, ma in questo caso non perché non mi piacesse, quanto piuttosto perché stavolta i temi affrontati da Jack London sono veramente angoscianti, per non parlare della bravura con la quale li ha trattati che te li fa entrare tutti dentro a martellarti la coscienza.
Dopo un congruo lasso di tempo che è servito a prepararmi psicologicamente l’ho ripreso e terminato in pochi giorni, e alla fine devo concordare con colei che me lo ha gentilmente prestato sul fatto che Il vagabondo delle stelle è un romanzo bellissimo e fondamentale, che tutti dovrebbero leggere.
Nonostante abbia cento anni. Altro che le puttanate che scrivono oggi!




Questa storia, l’ultima scritta da London e pubblicata nel 1915, è narrata in prima persona da Darrell Standing, brillante docente di Agronomia all’Università della California, mentre sta attendendo nel carcere di San Quentin che venga eseguita la propria condanna a morte. Standing era stato condannato giustamente all’ergastolo per un omicidio a sfondo passionale, e quindi di nuovo condannato (ingiustamente) a morte per essersi ribellato contro una guardia carceraria e averle sferrato un pugno. Inoltre Standing è ritenuto a torto il depositario di un segreto pericoloso per il carcere, e per questo motivo torturato in continuazione per farglielo rivelare.
Da tutto ciò il tema portante del libro, che non è altro che una fortissima denuncia nei confronti sia della pena di morte che del sistema carcerario statunitense. E vi assicuro che London (che tra l’altro in prigione c’era stato e quindi sapeva bene di cosa parlava) riesce in modo sublime o farvi provare orrore dei fatti di cui narra.
Darrell Standing viene sottoposto alle più atroci sevizie per fargli rivelare quel segreto che non conosce, tutto nella lunga attesa di essere comunque ucciso: punizioni corporali, calci nelle costole, privazioni di ogni tipo, fino all’essere continuamente immobilizzato per più giorni di fila in una camicia di forza, in una segregazione atroce a causa della quale già molti altri detenuti hanno trovato la morte.
Per sfuggire all’inconcepibile dolore provocato dalla camicia di forza, Standing comincia a elaborare un esercizio mentale del tutto interiore, tutto basato sulla forza di volontà che lo fa estraniare dal suo corpo fino a costruire mondi mentali veri quanto fossero reali e a scoprire che lui stesso non è altro che la reincarnazione di altri se stesso che era stato in passato.
In quegli stati di incoscienza autoindotta, il professore si trova a rivivere molte sue precedenti esistenze (e come non pensare a Gilgamesh?), ritrovandosi ora nel corpo di un nobile spadaccino francese, ora in quello dello schiavo nordico Ragnar Lodbrog, diventato soldato tra i legionari romani e che segue con occhio politicamente attento il calvario di Gesù Cristo, oppure un seguace dell’arianesimo, o un ominide in migrazione dall’Europa all’Asia, un bambino che viene ucciso da un gruppo di mormoni o un naufrago in un’isola deserta fatta di sola pietra e molti altri, in una lunga serie di indicibili tragedie in ognuna delle quali si può individuare un’allegoria, e che testimoniano (ce ne fosse ancora bisogno) la ferocia dell’uomo nei confronti dell’uomo.
Come scrive lo stesso London: “Lo stesso si può dire per quel che differenzia l’uomo di oggi da quello di diecimila anni fa; sotto un sottile rivestimento di moralità con cui si è ingentilito nel tempo, l’uomo resta quel selvaggio che era diecimila anni fa”. E come dargli torto?
Molte delle storie raccontate sono realmente accadute e London, oltre a calarsi personalmente al loro interno, racconta le vicissitudini più atroci con uno stile semplicissimo, senza alcun tipo di abbellimento da letterato, lasciando parlare i fatti stessi che, oltre a far provare del raccapriccio al lettore, lo conducono a scoprire il pensiero dei più grandi pensatori dell’umanità, da Confucio a Pascal.
Nel continuo passare dal buio della cella d’isolamento ad una qualche vita precedente infatti, l’autore nomina spesso filosofi e scienziati e si riallaccia a quelle loro idee che riteneva valide, il tutto lasciando scorrere un’altissima tensione dovuta all’attesa dell’imminente esecuzione, esasperata a sua volta dalle microtensioni indotte ognuna da ogni singola storia diversa da tutte le altre e che non ti permette di lasciare il libro fino a che la vicenda che stai leggendo non è terminata.
La degnissima conclusione di una vita da scrittore, un grandissimo esempio di grandissima scrittura, con tutta probabilità superiore a tutte le altre opere per le quali London è diventato famoso. E del tutto differente dalla famosa “ricetta” per scrivere romanzi di cassetta che lo stesso London fornisce nel suo Martin Eden, a riprova del concetto: ti dico come fare, ma non aspettarti che io lo faccia!
E fra le tante morali che è possibile carpire da questo libro c’è anche quella relativa all’universo femminile: oltre ad aver riempito il libro di personaggi femminili estremamente positivi, London mette nero su bianco in questo modo il suo pensiero nei confronti dell’altro sesso:
Ciò nonostante, se rifletto su tutto questo con animo sereno, giungo alla conclusione che la cosa più importante di tutta la vita, di tutte le mie vite, per me e per tutti gli uomini, fino a quando le stelle si sposteranno nel firmamento e non si arresterà il continuo mutamento dei cieli, è stata, è e sarà la donna, più importante di ogni nostra fatica o impresa, più grande d’ogni parto della fantasia e dell’invenzione, più grande di qualsiasi battaglia, di qualsiasi osservazione delle stelle, più grande di qualsiasi mistero… la cosa più grande di tutte è stata la donna.
Se non l’avete ancora fatto leggetelo, merita veramente.
Il Lettore (ammirato dalla bravura dell’autore)

martedì 23 agosto 2016

Brividi di morte per l’ispettore Dalgliesh

Ad ogni romanzo che leggo di Elizabeth George mi torna in testa invariabilmente quell’altra regina del thriller britannico che insieme ad Agatha Christie si pone ai vertici assoluti della categoria di genere: Phyllis Dorothy James, meglio conosciuta dal pubblico come P. D. James.
Sì, lo so che la George è statunitense, ma pur stando sull’altra sponda dell’oceano da parte sua ha fatto di tutto per ricalcare le altre due, a partire dalle ambientazioni inglesi per continuare con la struttura dei suoi romanzi, tanto da meritare di essere accomunata a loro. Certo, nessun’altro ormai potrà uguagliare la Christie in quanto a inventiva, perché i numerosi coup de theatre di cui ha farcito i suoi libri ― l’assassino è lo stesso io narrante; l’assassino non è uno ma sono tutti i protagonisti; l’assassino è l’investigatore stesso; l’assassino è il terzo morto della serie di persone uccise eccetera ― sono di quelli che una volta utilizzati non si possono più copiare se non vuoi fare la figura del pellegrino per non dire di peggio (e purtroppo in molti l’hanno fatta…), ma per il resto le tre scrittrici hanno talmente tanti punti in comune che è giusto metterle insieme nell’empireo della letteratura gialla. Delle tre, disgraziatamente, è ancora in vita solo la George.
Notare nel paragrafo precedente la delicatezza adoperata nei confronti di chi non ha ancora letto nulla della Christie: ho messo il succo di alcuni colpi di scena ma non i titoli dei relativi romanzi…




Oltre che scrittrice, P. D. James era un politico conservatore e membro permanente della Camera dei Lord, e ci si stupisce di come da quella posizione di rilievo abbia potuto comunque trovare il tempo di scrivere una mole consistente di romanzi che sono diventati famosi in tutto il mondo. Come la Christie con Poirot e la George, anche lei ha creato un suo protagonista seriale, l’ispettore Adam Dalgliesh il quale, anche se non di nobile stirpe come Thomas Lynley, conserva sempre la freddezza e l’aplomb dell’inglese purosangue. Oltre che poliziotto Dalgliesh scrive anche poesie, ma per fortuna quelle la James non le ha riportate nei quattordici romanzi di cui l’ha reso protagonista.
In questo romanzo Dalgliesh si trova in un’isoletta al largo della Cornovaglia dove, un po’ come in Dieci piccoli indiani della Christie, cominciano a morire ammazzati un po’ di vacanzieri ospiti di un resort esclusivo, e l’ispettore avrà il suo bel da fare per risolvere le cose.
Come la George, anche P.D. James ama dilungarsi nei resoconti delle ambientazioni, in dettagliatissime caratteristiche dei luoghi dove si svolgono le vicende, perfino in minuziose ricostruzioni degli arredamenti e del vestiario dei personaggi che sono delineati minuziosamente e scavati nel loro profondo, e tutto ciò allunga e rallenta il romanzo ma allo stesso tempo è indispensabile per la costruzione di quell’atmosfera di cui l’autrice lo ha voluto permeare.
Grandi scrittrici, tanto da permettere che nel loro caso si possa parlare di pura e semplice letteratura senza essere confinati a uno specifico genere.
Il Lettore 

domenica 21 agosto 2016

Lo Squizzalibro di domenica 21 agosto 2016

Con editor e figlio al mare da una settimana, la mia casa si sta trasformando in un vero e proprio campo di battaglia.
No, ma cosa siete andati a pensare? Non è che stia folleggiando nella versione perugina di Quando la moglie è in vacanza ― a parte il fatto che non ho a portata di mano nessuna Marilyn Monroe ― ci mancherebbe altro, sono una persona seria, è solo che se sono in vacanza loro, mi considero in vacanza anch’io.
E allora in vacanza ci si lascia un po’ andare, no? Quindi: sveglia ritardata (tanto non ho nessun altro da dover svegliare); abbigliamento improbabile (non mi vede nessuno, per qualche giorno fanculo la dignità personale); abitudini sconvolte (ogni tanto si deve pur fare); orari dei pasti a completo comodo mio (l’altra sera mi ha chiamato un’amica alle 19.30 per invitarmi a cena e ho dovuto rifiutare: ero già in fase digestiva…); pulizie di casa rimandate ad libitum (l’ultimo giorno prima che ritornino mi toccherà fare qualcosa per il tappeto di peli di gatto che si estende ovunque a perdita d’occhio…); rutti e scoregge in piena libertà (che neanche in caserma).
Il rovescio della medaglia è l’essere obbligato, da solo, a dover nutrire più volte al giorno il mucchio di bestie che sono restate a casa invece di andare in vacanza pure loro e il dover annaffiare le piante sperando che si decida a piovere per poter esserne esentato.
Va be’, in compenso ho molto tempo per leggere.




1 – Sull’onda di alcune altre letture fatte ultimamente mi è presa la voglia di rileggere un romanzo che avevo già letto anni fa. Sei scemo, penserete? No, è che volevo rinfrescarmi le differenze stilistiche tra alcuni autori, in particolare tre scrittori che considero molto vicini tra di loro. Ah, il romanzo in questione è un thriller.
2 – L’autore, anzi, l’autrice perché di donna si tratta, è inglese e molto famosa.
3 – Il protagonista è un personaggio seriale anch’esso molto famoso.
4 – A questo punto penserete di essere vicini alla soluzione e che vi basterà solo un altro indizio per poter individuare il titolo giusto all’interno della serie in cui è presente lo stesso investigatore. Eccolo: i personaggi del romanzo sono confinati in un’isola.
5 – Ce l’ho! Ho indovinato! Troppo famoso… Stavolta è stato facile! Penserà qualcuno. Ma ecco il quinto indizio: il secondo mestiere dell’autrice non era fare la moglie di un archeologo, ma il politico all’interno del governo britannico.
Ora come la mettiamo?
E finita l’improba faticaccia di scrivere questo post, spaparanziamoci alla selvaggia su un divano disfatto e pieno di peli…
Freereader

venerdì 19 agosto 2016

Nulla, solo la notte

Ho sempre detestato la dimensione onirica. Da pragmatico realista preferisco lasciare i sogni al luogo a loro più confacente, la notte, e lasciare che si dissolvano il mattino successivo. Detesto ancora di più quegli scrittori che invece i sogni li raccontano, ci scrivono sopra poesie e magari se li inventano pure perché pensano che in quel punto della narrazione un bel sogno ci può stare bene, e non parliamo poi di quelli che con un sogno premonitore risolvono qualche situazione ingarbugliata e quelli che addirittura i romanzi ce li iniziano, con un sogno.
Come in questo caso.
Che rabbia, perché avevo apprezzato molto John Williams e il suo Stoner, ma facendo partire questo Nulla, solo la notte con un sogno Williams mi ha predisposto subito in modo negativo alla lettura del seguito.




Nulla, solo la notte è l’opera prima di Williams. Pubblicato nel 1948, è quindi stato scritto quando l’autore non aveva ancora 26 anni, quasi vent’anni prima di Stoner. E questo si sente parecchio.
Non tanto nello stile già formalmente perfetto, redatto con frasi ben costruite e inappuntabili, quanto nei contenuti che quelle frasi esplicitano. Al contrario di ciò che aveva fatto splendidamente in Stoner, in questo caso Williams dice, e non mostra, insistendo nel voler raccontare al lettore in terza persona tutti i pensieri e le ragioni del comportamento del protagonista, oltre che i sogni perfino quando si lava i denti, e così facendo non permette a chi legge di calarsi nel romanzo e di esserne conquistato.
Rendendolo in pratica di una noia mostruosa che, sia pur riluttante, mi ha fatto abbandonare il volume dopo poche decine di pagine. Quando le cose che l’autore racconta non riescono a interessarti, cosa continui a fare?
Il problema è che Williams aveva già fin da giovane alcune potenzialità del grande scrittore, tra cui la perfezione convenzionale dello strato più superficiale, ma la cosa che all’epoca gli mancava era la consapevolezza del dover scrivere in modo che ciò che scrivi soddisfi qualcun altro. In pratica, non aveva esperienza, era giovane.
Da giovane magari ritieni anche che i tuoi sogni siano importanti o possano interessare qualcuno, pensi che gli ideali in cui credi siano universali e indissolubili e cerchi di convincere chiunque della loro validità, e tendi sempre a dare troppa importanza ai tuoi pensieri. Rendendo in genere illeggibili le cose che scrivi. Williams ha imparato solo dopo a operare una severa autocritica e a capire come bisogna scrivere, e lo ha dimostrato con Stoner.
Peccato, è stata una delusione, perché le aspettative per questo libro erano alte, ma non è tutta colpa di Williams: lui stesso questo romanzo lo aveva disconosciuto, quasi rinnegato  insieme ad altre sue opere giovanili, dimostrando così che da parte sua era salito su un gradino più alto dal quale era ben conscio dei suoi difetti di gioventù.
La colpa è di quei bastardi di editori che questo romanzo ce lo hanno riproposto per guadagnare qualche soldo in più sulla scia del successo di Stoner.
Il Lettore deluso

martedì 16 agosto 2016

In presenza del nemico

Va bene, ve lo prometto, pubblico questo e poi basta, almeno per qualche mese, altrimenti Elizabeth George rischia di diventare un tormentone del blog alla stregua di Maurizio De Giovanni o Lee Child. Ma che ci posso fare se i suoi romanzi sono buoni e fa piacere leggerli? Così come Child riesce a rendere interessanti anche gli ingorghi del traffico di Los Angeles, così la George ti tiene attaccato alle pagine nonostante la lentezza dello svolgimento e la prolissità narrativa che allungano a dismisura ogni suo romanzo. Anche questo conta ben più di 500 pagine, ma come gli altri ti incatena fino a ché tutti i misteri non ti sono stati chiariti.
A proposito, avete passato un buon Ferragosto? Dai che si ricomincia, anche se fino a che moglie e figlio restano al mare mi considero in vacanza anch’io…




La figlia dell’algida Eve Bowen, sottosegretario al Ministero degli Interni del governo inglese, viene rapita, e per restituirla alla famiglia il rapitore non chiede altro che sulla prima pagina del Source ne venga pubblicata la vera identità del padre. Si accontenta di poco, penserete. Ma che thriller sarebbe senza qualche complicazione?
Il problema è che l’identità del padre di Charlotte è sempre stata tenuta scrupolosamente nascosta e sembra che solo i due genitori siano a parte del segreto e nessun’altro, perché il vero padre altri non è che Dennis Luxford, lo stesso direttore del Source, il giornale scandalistico il cui scopo primario è dare contro al governo e cercare di farlo cadere.
Potete immaginarvi quale ridda di lotte politiche si possa scatenare allora dietro una richiesta del genere che metterebbe in piazza la relazione sessuale avuta da un membro del governo con uno dei suoi più acerrimi nemici. Nonostante entrambi i genitori si siano rifatti ognuno per proprio conto una famiglia (quasi) felice ed esistenze specchiate, diverse esistenze sarebbero distrutte dalla rivelazione, per non parlare degli sconvolgimenti politici a livello governativo.
La madre stessa della bimba tergiversa e impedisce la pubblicazione della notizia, e dopo pochi giorni il cadavere di Charlotte viene ritrovato nelle campagne inglesi.
È solo a questo punto della tragedia, dopo “appena” 200 pagine dall’inizio del romanzo, che entra in scena il nobile protagonista Lord Asherton, ovvero l’ispettore Thomas Lynley, che insieme alla sua squadra investigativa si adopererà per sbrogliare l’intricata matassa.
Anche questa volta Elizabeth George è riuscita a comporre un thriller avvincente, e nonostante gli scavi profondi operati nella psicologia di ognuno che allungano a dismisura il numero di pagine riesce a tenerti incollato al libro sia per la curiosità di vedere chi sarà il bastardo che ha messo in piedi il gioco perverso sia perché le introspezioni all’interno delle due famiglie interessate sono scritte in modo da mettere alla luce tutti i pensieri più nascosti e inconfessabili. La scrittrice scava nei sentimenti come se fosse un’archeologa, sa tirare fuori dai suoi protagonisti sia gli aspetti più abietti che quelli più nobili e riscattanti, e con un vero e proprio guizzo d’autore riesce a recuperare alla benevolenza del lettore, e proprio all’ultima pagina, anche il personaggio che aveva fino ad allora fatto sembrare più meschino.
Questo romanzo uscito nel 1996 fa parte della tranche mediana dei romanzi scritti dalla George, e ho trovato che stilisticamente non differisce molto dai suoi ultimi che invece avevo letto in precedenza. Mi sono sembrati molto simili sia il ritmo che il linguaggio adoperato, ad indicare come negli anni l’autrice abbia mantenuto una notevole coerenza.
Però ora basta con la George, davvero. Mi rimane solo la curiosità di leggere il suo primissimo thriller, E liberaci dal padre, con il quale è diventata famosa fin da subito, e anche se lo possiedo già in formato elettronico ancora non l’ho neanche caricato nel telefono, proprio per non cadere nella tentazione di riproporvi a breve un’altra recensione su di lei.
Passiamo ad altro, ho sottomano l’opera prima di un autore che mi era molto piaciuto, vediamo se da giovincello scriveva bene come ha imparato a fare poi in età matura…
Il Lettore 

venerdì 12 agosto 2016

Autobiografia erotica di Aristide Gambìa

Attualmente ho in lettura due romanzi impegnativi e abbastanza lunghi da non poterli terminare in pochi giorni, e di conseguenza sono costretto a procrastinare la pubblicazione dei relativi post fino al momento in cui li avrò terminati e avrò trovato il tempo per scriverne. Per non farvi aspettare troppo ho ripescato questo volume ― tra l’altro devo decidermi a renderlo alla legittima proprietaria ―che avevo letto qualche tempo fa.
O meglio, avevo tentato, di leggere…




Alcune critiche mosse a Domenico Starnone lo accusano di aver irrimediabilmente rovinato questo romanzo nella terza e quarta parte. Figuriamoci! Terza e quarta parte? Alla terza e quarta parte io non ci sono nemmeno arrivato vicino! Mi immagino solo come quelle sezioni dovrebbero essere, per rendere giustificate le critiche, ma non voglio nemmeno pensarci.
L’intenzione di Starnone era quella di ricostruire la vita di un anziano intellettuale napoletano trapiantato a Roma solamente attraverso le proprie esperienze sessuali dall’adolescenza alla vecchiaia e le numerose donne che hanno incrociato la sua esistenza. A voler attingere alla retorica, di un tema del genere se ne potrebbe parlare all’infinito, da ogni punto di vista, e in effetti in molti ne hanno trattato andando a ripescare paroloni e pensieri stereotipati per giustificare un romanzo che altro non è, secondo me che provo un senso di nausea al solo sentir esplicitare concetti retorici, che una palla megagalattica. Ne sono indicibilmente tediose pure le critiche, soprattutto quelle positive (pubblicitarie?), pensate un po’!
Sono bastate poche decine di pagine per far crescere il mio disinteresse fino a livelli insopportabili che hanno causato la prematura chiusura del volume non trovandolo, all’epoca, nemmeno abbastanza coinvolgente da scriverci subito un post sopra.
E sì che la prosa è buona, moderatamente ricercata ma senza strafare; e sì che c’è anche molto sesso, di quello che non ti eccita ma ricco di psicologia (dagli con la retorica…); e sì che ci sono molte parolacce che dovrebbero renderlo stuzzicante, ma il fatto è che il tutto è confezionato in un modo che lo rende noiosissimo e non ti invoglia minimamente nella prosecuzione da una pagina all’altra.
Avrei già dovuto capirlo dalla smorfia con la quale l’amica che me lo ha prestato ha accompagnato il porgermelo, alla mia domanda su come l’avesse trovato, e le smorfie di una docente universitaria qualche significato concreto ce lo avranno pure. Come a dire: ne ho sentito anche parlare bene, ma…
Ma… Autobiografia erotica di Aristide Gambìa è una sega immane. La parolaccia la mia amica non l’ha detta, ma l’ha pensata (sia pure forse in termini eticamente corretti, da “universitaria”). Io invece l’ho usata anche per essere coerente con il linguaggio dell’autore che di parolacce ne usa molte, a partire dall’incipit: “Aristide Gambia pensava a volte, in particolare nei periodi di malinconia, che se avesse obbedito meno al buon senso e più alle furibonde esigenze del cazzo avrebbe scopato tutti i giorni a ogni ora dentro qualsiasi buco consenziente, soprattutto nella fica tra le cosce delle femmine, brodosa o secca, stretta o larga, sporca o profumata.

Pensiero comune alla stragrande maggioranza degli uomini, tanto per restare sul retorico. E questo incipit forte è messo lì apposta per stuzzicarti, per scandalizzarti, per invogliarti a proseguire che tu sia concorde o meno con quel pensiero.
Peccato che poi…
Come cantavano Mina e Alberto Lupo: Parole… Parole… Parole…
Il Lettore 

martedì 9 agosto 2016

Non tutti i bastardi sono di Vienna

Questo romanzo d’esordio di Andrea Molesini ha scatenato una polverosa bagarre tra sostenitori e detrattori: c’è chi lo considera un romanzo bellissimo e chi una porcata noiosissima, e se si dovesse basare il se leggerlo o no sulle recensioni degli altri non si saprebbe proprio cosa fare.
La verità sta nel mezzo, diceva quello, e quando non sai cosa fare un buon criterio al quale attenersi è quello di toccare con mano.
Io personalmente faccio parte della schiera di quelli ai quali è piaciuto anche se posso capire, ma non condividere, le ragioni per cui a molti ha fatto schifo.




Molesini ha ripreso il diario di una sua parente che è passata attraverso le vicissitudini narrate nel libro e lo ha romanzato, creando così un racconto storico ambientato nella villa nobile di un paese veneto nell’ultimo anno della Prima Guerra Mondiale, tra la disfatta di Caporetto e la cacciata definitiva degli austriaci, quando buona parte del territorio era stata occupata dalle truppe austro-ungariche.
Le vite dei legittimi proprietari della villa si intrecciano con quelle degli invasori, e chi fa da vero protagonista è l’atrocità della guerra. Il passaggio del fronte e l’invasione provocano una serie inenarrabile di tragedie: la fame, i corpi dei soldati dilaniati dai bombardamenti, gli odori disgustosi, le esecuzioni sommarie, gli atti di eroismo, gli stupri, i vili tradimenti e la disperazione sono i temi portanti della narrazione, condotta con un linguaggio semplice senza quei complicati abbellimenti “stilistici” che in molti usano al giorno d’oggi per far vincere un premio al proprio libro.
Strano infatti che il Premio Campiello 2011 questo romanzo l’abbia vinto, e questo è motivato dai suoi detrattori con la sola ragione che esso è ambientato proprio nella regione stessa in cui si tiene il concorso. Così come in molti dicono che la narrazione è noiosa e ripetitiva: in effetti la seconda parte del libro ha il ritmo un po’ lento, ma questo nell’economia complessiva della struttura del romanzo è giustificato dal voler descrivere la situazione di stallo dei mesi morti tra l’occupazione della villa e le tragiche vicende finali della terza parte.
Secondo me invece Molesini ha fatto un buon lavoro, caratterizzando egregiamente tutti i personaggi con una serie di particolarità comportamentali che li rendono subito riconoscibili e ricordabili, e inserendo il dialetto nei dialoghi per meglio sottolineare l’appartenenza a quel determinato ceppo etnico. E non dimentichiamo che l’autore, pur essendo questo il suo primo romanzo, è un professionista del settore, e questo si nota dalle tecniche stilistiche utilizzate, come quella di inserire un “tormentone” ricorrente ― Diambarne de l’ostia! ― che ricorda il Maledetti i Zorzi Vila! di Antonio Pennacchi. Del resto i protagonisti sempre veneti erano, e tra le vicende ci sono stati solo vent’anni di differenza.
Mi piacerebbe analizzare altre critiche che sono state mosse a questo romanzo, per controbatterle, ma così facendo sarei costretto a scendere nei particolari e rivelarvi alcuni episodi sostanziali che pregiudicherebbero il vostro piacere della scoperta del finale qualora vi accingeste alla lettura. Sarebbe come se vi raccontassi, senza che voi l’abbiate letto, che il critico ha reputato eccessiva la morte di Giulietta e Romeo.
Ma fidàtevi, io l’ho trovato un buon romanzo e sono convinto che possa piacere a molti.
Una curiosità carina è il venire a conoscenza, leggendo, della ragione da cui deriva il titolo del romanzo, che non ha nulla o quasi a che vedere con le vicende narrate.
Ma non vi rivelo nemmeno questo, scopritevelo da soli.
Il Lettore 

domenica 7 agosto 2016

Lo Squizzalibro di domenica 7 agosto 2016

In un periodo in cui si sta operando una rigorosa selezione delle persone da frequentare, scansando con abilità tutti coloro con i quali non ti trovi più che a tuo agio e soprattutto quelli con cui devi stare sempre accorto alle cose che dici ― ma anche quelli con cui devi stare più che attento alle cose che ascolti ― l’incontrare e il cominciare a vedersi con persone interessanti ti fa tirare un sospiro di sollievo. Non perché hai paura di rischiare di finire senza amici ― non c’è persona con la quale io stia bene più che con me stesso ― quanto perché il fatto che succeda è un chiaro indice che di persone interessanti ne esistono ancora.
Cosa di cui cominciavo un pochino a dubitare: la banalità, la sciatteria e il pressappochismo stanno dilagando come uno tsunami impossibile da contenere.
Tra le recenti acquisizioni nella mia cerchia ristretta c’è una donna notevole che mi pregio di chiamare amica, almeno fino al momento in cui non avrà letto questo post e non avrà capito che sto parlando di lei… Grande lettrice, colta e competente, di squisita sensibilità e finezza e con la quale si può parlare a lungo senza provare il desiderio di tornartene subito a casa tua.
Certo che anche le grandi donne possono avere dei difetti, e anche lei ritengo non faccia eccezione a questa regola: le ho consigliato diverse volte di smetterla una buona volta di scrivere poesie, o perlomeno di limitarne la produzione, ma da quest’orecchio proprio non ci vuole sentire, incoraggiata anche dal fatto che ci sono un mucchio di altre persone che la spronano a farlo perché le trovano buone (loro). Ma anche questo fa parte di un piacevole gioco.
L’ultima volta che sono stato a cena da lei non sono tornato a casa a mani vuote: mi sono fatto prestare tre volumi della sua fornitissima libreria che mi avevano “attizzato” non poco. Ho cominciato subito con il leggere quello che lei stessa mi aveva elogiato come un libro imperdibile che le aveva segnato la vita, ma ho dovuto sospendere la lettura dopo qualche decina di pagine per la crudezza del testo e per le situazioni narrate veramente intollerabili. Forse non era quello il momento adatto per leggere di cose terribili. Lo riprenderò senz’altro e ve ne parlerò quando l’avrò terminato, non dubitate.
Ho cominciato quindi a leggere il secondo, e ho trovato che anche questo…




1 – … è stracolmo di situazioni terribili. Ma ne sono arrivato in fondo, perché il libro il cui titolo dovrete indovinare oggi è un buon romanzo che parla di guerra. Di quale guerra si tratta non ve lo dico, ma è relativamente recente, una guerra tremenda di cui si parla spesso ancora oggi.
2 – L’occupazione di un territorio da parte di un esercito straniero è una situazione intollerabile per i residenti, ed è di questo che tratta il romanzo narrato in prima persona da uno degli abitanti di una villa invasa dai soldati di un’altra nazione con tutto ciò a cui questo può condurre.
3 – L’autore è italiano e questo è il suo romanzo d’esordio. Ma non è nuovo del mestiere, essendo un professore universitario di letteratura, poeta e traduttore.
4 – Il romanzo ha vinto diversi premi letterari tra i quali uno molto importante. Ovvio che non vi dico quale e in che anno, altrimenti sarebbe troppo facile.
5 – Va be’, vi darò un’altra indicazione sostanziale: la trama della vicenda non è tutta farina dell’autore, che ha ripreso e romanzato gli accadimenti narrati nel diario di una sua parente.
Allora… il secondo libro è letto, il primo da finire quando le condizioni spirituali me lo consentiranno, resta il terzo dei volumi in prestito, tra l’altro opera di un autore che già in passato ho definito eccezionale, ma spero che almeno questo non tratti di situazioni terribili, sento veramente il bisogno di una lettura leggera…
Freereader

giovedì 4 agosto 2016

Senza perdere la tenerezza

Sono del tutto sicuro che se a molti giovani che sfoggiano la t-shirt con stampigliata la foto del “Che” si domandasse: “Sai per caso chi è e cosa ha fatto quello che ti porti addosso?”, la maggior parte non saprebbero rispondere. E molti altri sosterrebbero che è una star del rock. Convinti.
Perché al giorno d’oggi non è più importante il significato del simbolo, l’importante è che vada di moda. Sei di sinistra (quella vecchia)? Ti sbatti il Che sul petto (poi chi è stato qualcuno te lo spiegherà anche). Sei un nerd? C’è la maglia con quel faccione paciocco di Bill Gates. Sei me stesso? Allora ami sfoggiare anche tu la t-shirt con su scritto “Please don’t interrupt me when i’m ignoring you”.
Ma in alternativa metto anche quella con un Brontolo dalle braccia incrociate.




Nella maggior parte dei casi è molto difficile distinguere il mito dalla realtà, perché la realtà viene sempre modificata da chi la vuole far apparire in un modo piuttosto che in un altro. La storia la scrivono i vincitori, così come i libri di scuola. Poi, quando la realtà finisce col diventare mito, allora quegli aspetti che servono ad enfatizzare il mito si ingigantiscono, e si nascondono tutti gli altri.
Ho letto questa biografia di Ernesto “Che” Guevara con molto interesse perché ne volevo sapere di più perlappunto di un mito, anche se l’essere a conoscenza che l’autore, Paco Ignacio Taibo II, è storicamente di sinistra (quella vecchia) e pure parecchio impegnato in politica ti porta a storcere un po’ il naso sulla sua presupposta imparzialità nel trattare il tema.
Invece devo ammettere che lo scrittore ha fatto un buonissimo lavoro ― non per niente questa è la biografia di Guevara più letta al mondo e considerata ― e tirando le somme tra il detto e il non detto il rivoluzionario ne esce parecchio ridimensionato nel mito e la sua umanità (o meglio: la sua carenza di umanità) non dico che venga sottolineata ma quanto meno non viene tenuta nascosta.
Perché al di là degli aspetti meritevoli che lo hanno portato a vincere una rivoluzione, senza considerare le numerose concomitanze che a questo hanno contribuito, dal libro emerge chiaramente come quello che è diventato un simbolo dell’antimperialismo e della rivoluzione latino-americana non fosse altro che uno che amava menare le mani e uccidere gente, e dove non ci arrivava ci tirava il cappello, girando per il mondo in cerca di guerre da combattere che non erano le sue e alle quali partecipava in nome di ideali che servivano più da scusa per sparare che altro, finendo con l’essere considerato da molti un vero e proprio criminale colpevole anche di uccisioni di massa.
Dopo aver fatto una rivoluzione bisogna saper ricostruire in nome di quegli ideali per i quali si è lottato. Fidel Castro è stato coerente con il suo ideale: ha sostenuto una rivoluzione e l’ha vinta, e da quel momento si è messo a lavorare per ricostruire un nuovo paese e una società come li intendeva lui, e l’ha fatto per più di quarant’anni lavorandoci sodo. Nel momento in cui si è trovato al vertice di un governo e di una nazione da riformare,  Ernesto Guevara de la Serna ha piantato baracca e burattini ed è andato a sparare ancora in un altro continente. E poi ancora, ha solo cambiato di nuovo continente, fino a che non ci è rimasto.
Ma il “Che” aveva dalla sua la bellezza, una laurea in medicina (e in questo caso l’andare in giro ad ammazzare gente fa un po’ a cazzotti con i princìpi di Esculapio), un’asma cronica (quando ancora non esistevano gli spray broncodilatatori) che lo ha fatto sempre soffrire e per questo lo ha reso più tenero agli occhi degli ammiratori, era un guerriero coraggioso, condivisibili gli ideali per i quali combatteva, e ha terminato la sua vita ancora giovane in forma di una vile esecuzione politica di un uomo già ferito gravemente. Gli ingredienti per farlo diventare un mito ci sono tutti.
Ce n’è stato un altro che ha seguito un percorso simile, che ha sostenuto diverse rivoluzioni e che ha finito col diventare un eroe (dei vincitori) e quindi buon per lui morire di vecchiaia: un certo Giuseppe Garibaldi, ma anche nel suo caso, a volersi mettere a sfrondare il mito, è probabile che si troverebbe solo un’anima avvezza alle risse da marinaio abilmente instradata da esperti politicanti a diventare un eroe.
Tornando al libro, Paco Ignacio Taibo II ha svolto un compito eccellente ricostruendo una biografia che si legge come un romanzo, esaustiva nei tratti essenziali e fitta anche di fatterelli e curiosità poco conosciute dai più. Lo stile concreto consente una leggibilità piacevole per tutto il volume, e questi pregi qui in Italia gli hanno consentito di accaparrarsi il Premio Bancarella 1998.
Se non lo avete ancora letto vi consiglio di farlo, tanto per guardare le cose anche da prospettive che non sono le solite, e allora anche a voi capiterà, la prossima volta che vedrete una ragazzina di quattordici anni con la foto più famosa di Alberto Korda sul petto, di provare il desiderio di domandarle: “Ma tu lo sai veramente chi era questo qui?”.
Il Lettore