Al termine della sua
“scappata” a Perugia, Massimo Bertarelli
mi ha fatto dono di una copia del suo primo romanzo pubblicato, Il fosso bianco, appunto, edito ancora
prima di Mi chiamo Ugo e che per
ovvi motivi non avevo ancora letto.
Nel regalarmelo ha tenuto ad
avvertirmi che non l’avrei trovato allo stesso livello degli altri, quasi a giustificarsi in anticipo per quello
che di negativo avrei potuto scriverci sopra in questo blog.
Tranquillo, Massimo, anche se dovessi stroncarlo ti
voglio bene lo stesso. Ma, nel caso, tu manterrai ancora la stima che provi per
me?
Che poi in effetti non merita proprio di essere stroncato,
anche se devo ammettere in tutta sincerità che non mi è piaciuto del tutto come
i successivi, non mi ha soddisfatto in pieno.
Purtroppo su queste pagine
non posso nemmeno specificarne il perché, dal momento che equivarrebbe a
rivelarne il finale, e sapete che io ho sempre evitato di fare degli spoiler. Dirò solo, in generale, che l’appunto
principale riguarda l’ultima sezione, che mi è sembrata un po’ troppo
affrettata, non preparata a sufficienza nella linea temporale del romanzo, in
qualche maniera avrebbe dovuto essere anticipata. Magari con qualche metonimìa
nelle prime pagine.
Inoltre (dico subito tutte le
cose negative che ci ho trovato così
posso passare a quelle positive), un’altra
cosa che ho trovato di non mio gradimento è stata l’inneggiare alle bellezze di
una zona della Toscana (ed altro) con un tono un po’ troppo entusiastico, che
in un romanzo risulta sempre sopra le righe. D’altra parte è assolutamente
vero, lo confermo, ma si sente che l’autore nello scrivere si è lasciato
trascinare dall’esaltazione che quei luoghi gli avevano innescato dentro. Parere
del tutto soggettivo: personalmente sono più portato per un understatement britannico che per l’eccitazione
propria di noi italiani.
Basta con le critiche. Per il
resto ho ritrovato lo stile pulito
del Bertarelli che già conoscevo: una scrittura semplice, chiara ed esaustiva
pienamente godibile, magari condita da qualche piccola ingenuità dovuta all’inesperienza
dello scrittore al primo tentativo di romanzo lungo, ingenuità che nelle sue opere
posteriori non si ritrovano più. In questo campo più che in altri l’esperienza
acquisita man mano è di fondamentale importanza.
Posso anche dire che in qualche punto mi ha perfino commosso, il ché è tutto dire.
Posso anche dire che in qualche punto mi ha perfino commosso, il ché è tutto dire.
Aspettiamo il prossimo!
Il Lettore
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