Quando Kuiry mi ha consigliato di leggere Paul Auster che a lui era piaciuto molto,
lì per lì mi ero riproposto di prendere il suo libro più famoso, la Trilogia di New York, ma un paio di
settimane fa ho scovato questo Timbuctù
nella libreria di mia nipote e l’ho subito preso in prestito.
Non avevo mai letto Auster,
e devo confessare che è stata una bella sorpresa che mi porterà quasi
certamente a prendere anche la Trilogia
di New York. Lo statunitense ha uno stile veloce e interessante, molto
discorsivo, e anche se in questo libro “racconta” più che mostrare, attraverso
un narratore onnisciente esterno alla storia, lo fa con una tecnica fluida
ricca di concatenazioni che rinnovano di continuo l’interesse.
Il romanzo narra le vicende
di un cane, Mr. Bones, al quale
viene a mancare il padrone umano dopo anni di convivenza, e delle sue
peregrinazioni alla ricerca di un destino che si rivelerà ogni volta diverso da
quello che avrebbe voluto. Mr. Bones è consapevole di dover morire, prima o
poi, ma vorrebbe che dopo la dipartita gli fosse possibile il ricongiungimento
con il suo amato padrone in quel luogo, Timbuctù,
dove vanno tutti dopo morti ma nel quale, forse, i cani non sono ammessi. E
quest’angoscia del non sapere se potrà accedere in questo fantomatico posto e ritrovare
il suo Willy permea tutto il libro.
Oltre ad essere un auto
interrogazione esistenziale, lo scritto insiste sul tema caro ad Auster dell’inesplicabilità
del fato e dell’importanza del caso nella vita di ognuno, oltre a
fornire un interessante spaccato dell’America contraddittoria degli anni
novanta.
Mi è piaciuto, pur essendo
un racconto nel quale la tristezza riveste un ruolo molto importante, e lo
scrittore è stato un maestro nel descrivere modi di fare, pensieri e sentimenti
del protagonista cercando di immedesimarsi nell’animale per raccontare i fatti
dal punto di vista canino senza indulgere nell’antropomorfizzazione.
Il Lettore
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