mercoledì 23 luglio 2014

Timbuctù

Quando Kuiry  mi ha consigliato di leggere Paul Auster che a lui era piaciuto molto, lì per lì mi ero riproposto di prendere il suo libro più famoso, la Trilogia di New York, ma un paio di settimane fa ho scovato questo Timbuctù nella libreria di mia nipote e l’ho subito preso in prestito.


Non avevo mai letto Auster, e devo confessare che è stata una bella sorpresa che mi porterà quasi certamente a prendere anche la Trilogia di New York. Lo statunitense ha uno stile veloce e interessante, molto discorsivo, e anche se in questo libro “racconta” più che mostrare, attraverso un narratore onnisciente esterno alla storia, lo fa con una tecnica fluida ricca di concatenazioni che rinnovano di continuo l’interesse.
Il romanzo narra le vicende di un cane, Mr. Bones, al quale viene a mancare il padrone umano dopo anni di convivenza, e delle sue peregrinazioni alla ricerca di un destino che si rivelerà ogni volta diverso da quello che avrebbe voluto. Mr. Bones è consapevole di dover morire, prima o poi, ma vorrebbe che dopo la dipartita gli fosse possibile il ricongiungimento con il suo amato padrone in quel luogo, Timbuctù, dove vanno tutti dopo morti ma nel quale, forse, i cani non sono ammessi. E quest’angoscia del non sapere se potrà accedere in questo fantomatico posto e ritrovare il suo Willy  permea tutto il libro.
Oltre ad essere un auto interrogazione esistenziale, lo scritto insiste sul tema caro ad Auster dell’inesplicabilità del fato e dell’importanza del caso nella vita di ognuno, oltre a fornire un interessante spaccato dell’America contraddittoria degli anni novanta.
Mi è piaciuto, pur essendo un racconto nel quale la tristezza riveste un ruolo molto importante, e lo scrittore è stato un maestro nel descrivere modi di fare, pensieri e sentimenti del protagonista cercando di immedesimarsi nell’animale per raccontare i fatti dal punto di vista canino senza indulgere nell’antropomorfizzazione.
Il Lettore

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