Se putacaso siete anche un
minimo depressi, o se per un qualsiasi futile motivo non siete più che in pace
con voi stessi e il vostro equilibrio psicologico non è più che ben saldo,
allora vi consiglio di non leggere
questi racconti.
L’autrice della Trilogia della città di K (vedi) mette
in scena questa volta 25 racconti brevissimi, ognuno lungo al massimo tre
pagine, narrazioni angoscianti che rappresentano istantanee surreali e
taglienti, feroci nella loro nudità, talmente potenti (in negativo) da far
vacillare la propria saldezza mentale.
Sono racconti in cui tutto
è essenziale e tutto contribuisce a trasmettere un senso di devastazione, di
solitudine, di alienazione, di perdita da parte di personaggi anonimi, vite
alla deriva capaci di gesti estremi ed estreme rassegnazioni. Lo stile è scarno
ed essenziale, perfetto per gli intendimenti che vuole trasmettere, e fa capire
come Agota Kristof possegga una superba capacità di sintesi e di
attenersi al concetto senza inutili divagazioni. Il problema sta nel fatto che
tutti i racconti ti sprofondano in un baratro senza fine dal fondo del quale
non vedi più neppure un barlume di speranza, per non parlare di ottimismo e
futuro roseo.
Ritengo che i racconti più
pubblicizzati o dei quali si è discusso di più, come quello in cui la moglie
uccide il marito solo perché russa, o l’altro in cui uno studente uccide i
professori per salvarli (!) dalla crudeltà dei compagni, siano a mio parere i meno incisivi, rispetto ad altri contenenti pura violenza psicologica e un angosciante
senso di ineluttabilità e di futuro del tutto senza speranza.
Sempre parlando di stile,
l’ho trovato più coerente rispetto alla Trilogia, più maturo, e perlomeno in
questo volumetto quasi tutti i racconti sono comprensibili anche se spesso il
surreale la fa da padrone.
Bene, io vi ho avvertito.
Poi, se volete farvi del male, accomodatevi pure.
Il Lettore (sull’orlo della
depressione, e in più oggi piove pure).
Kristof, Lettore
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