Di Valerio Massimo Manfredi ho già letto Chimaira – mi ha lasciato molti dubbi – e L’ultima legione – questo sì, ricordo che non è male – e apprezzo
il suo modo di scrivere nonostante a tratti faccia nascere delle perplessità.
Cosa che succede anche in questo Il
faraone delle sabbie, che penso proprio dovrò inserire tra gli esempi nei
miei prossimi corsi di scrittura.
Come esempio dicevo, per
far notare come un romanzo possa risultare buono e appassionante pur presentando
una miriade di difetti.
L’ho iniziato e non sono
riuscito a scollarmi dalla lettura fino a quando non l’ho terminato, pur
riscontrandoci dentro una notevole quantità di pecche stilistiche e narrative
la cui presenza però non è riuscita ad infrangere del tutto il patto di
sospensione dell’incredulità (il ché avrebbe comportato inderogabilmente l’abbandono
del testo).
La trama: ad un archeologo subissato di problemi viene proposto di
scavare, non del tutto legalmente, un sito nel quale troverà reperti che
potrebbero scardinare le concezioni di base delle più importanti religioni del
mondo occidentale. Il tutto sullo sfondo di tensioni politiche internazionali
giunte ad un punto critico, che rischiano di sfociare in una guerra totale.
I pregi: il romanzo si legge benissimo, il ritmo è veloce, i fatti
trovano più spazio delle riflessioni e Valerio
Massimo Manfredi è bravo nel suscitare dapprima l’interesse, ricorrendo
all’espediente della ricerca di reperti archeologici di interesse fondamentale
e universale, e quindi nel mantenere lo stato di tensione necessario fino alla
risoluzione creando ai protagonisti problemi su problemi, difficoltà
insormontabili che vengono risolte a fatica all’ultimo momento, mirabolanti
avventure ulteriormente complicate da attacchi terroristici, tradimenti,
omicidi e perfino guerre. E non manca nemmeno la storia d’amore. Davvero la
curiosità di vedere cosa succederà dopo ti spinge ad andare avanti pagina dopo
pagina a ritmo forsennato, e questo ad onta dei…
Difetti: in un’analisi a posteriori, le motivazioni su cui si muovono molti dei
protagonisti sono di una labilità sconcertante, e di giustificazioni concrete nemmeno a parlarne; certe azioni sono del tutto esagerate e con
una plausibilità prossima al
sottozero; la tempistica della
vicenda sta in piedi come un bradipo ubriaco; le spiegazioni tecniche di alcuni aspetti particolari
accontenterebbero solo i bambini dell’asilo; le implicazioni politiche internazionali sono trattate in modo
dilettantesco e le risoluzioni
adottate dai singoli stati inverosimili; di alcune azioni citate nel corso del
racconto non viene fornita un’adeguata spiegazione
(come quando un’intera squadra di ricercatori americani viene assassinata brutalmente
e nessuno, tantomeno gli USA, si chiede che fine abbia fatto), e una volta
giunti alla fine ci si accorge come l’autore sia ricorso a dei trucchi stilistici di dubbio gusto per
incrementare la tensione narrativa (nella realtà, il “portiere di notte” non
avrebbe mai sostenuto le sue
conversazioni come invece ha fatto – e mi dispiace di non potermi spiegare
meglio, ma dovrei riportarvi troppe pagine, incluso il finale).
Fatto sta che nonostante
tutto ciò il romanzo si legge in una volata, è interessante per le implicazioni
archeologiche e religiose, resta ancora attuale anche se è stato pubblicato nel
1998, i difetti riscontrati non appaiono (perlomeno non lì per lì) di tale
entità da costringerti a gettarlo nella spazzatura, e Valerio Massimo Manfredi si lascia ancora una volta apprezzare per
le ricostruzioni storico-archeologiche dal fascino indiscutibile.
Il Lettore
Manfredi, Lettore
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