giovedì 4 agosto 2016

Senza perdere la tenerezza

Sono del tutto sicuro che se a molti giovani che sfoggiano la t-shirt con stampigliata la foto del “Che” si domandasse: “Sai per caso chi è e cosa ha fatto quello che ti porti addosso?”, la maggior parte non saprebbero rispondere. E molti altri sosterrebbero che è una star del rock. Convinti.
Perché al giorno d’oggi non è più importante il significato del simbolo, l’importante è che vada di moda. Sei di sinistra (quella vecchia)? Ti sbatti il Che sul petto (poi chi è stato qualcuno te lo spiegherà anche). Sei un nerd? C’è la maglia con quel faccione paciocco di Bill Gates. Sei me stesso? Allora ami sfoggiare anche tu la t-shirt con su scritto “Please don’t interrupt me when i’m ignoring you”.
Ma in alternativa metto anche quella con un Brontolo dalle braccia incrociate.




Nella maggior parte dei casi è molto difficile distinguere il mito dalla realtà, perché la realtà viene sempre modificata da chi la vuole far apparire in un modo piuttosto che in un altro. La storia la scrivono i vincitori, così come i libri di scuola. Poi, quando la realtà finisce col diventare mito, allora quegli aspetti che servono ad enfatizzare il mito si ingigantiscono, e si nascondono tutti gli altri.
Ho letto questa biografia di Ernesto “Che” Guevara con molto interesse perché ne volevo sapere di più perlappunto di un mito, anche se l’essere a conoscenza che l’autore, Paco Ignacio Taibo II, è storicamente di sinistra (quella vecchia) e pure parecchio impegnato in politica ti porta a storcere un po’ il naso sulla sua presupposta imparzialità nel trattare il tema.
Invece devo ammettere che lo scrittore ha fatto un buonissimo lavoro ― non per niente questa è la biografia di Guevara più letta al mondo e considerata ― e tirando le somme tra il detto e il non detto il rivoluzionario ne esce parecchio ridimensionato nel mito e la sua umanità (o meglio: la sua carenza di umanità) non dico che venga sottolineata ma quanto meno non viene tenuta nascosta.
Perché al di là degli aspetti meritevoli che lo hanno portato a vincere una rivoluzione, senza considerare le numerose concomitanze che a questo hanno contribuito, dal libro emerge chiaramente come quello che è diventato un simbolo dell’antimperialismo e della rivoluzione latino-americana non fosse altro che uno che amava menare le mani e uccidere gente, e dove non ci arrivava ci tirava il cappello, girando per il mondo in cerca di guerre da combattere che non erano le sue e alle quali partecipava in nome di ideali che servivano più da scusa per sparare che altro, finendo con l’essere considerato da molti un vero e proprio criminale colpevole anche di uccisioni di massa.
Dopo aver fatto una rivoluzione bisogna saper ricostruire in nome di quegli ideali per i quali si è lottato. Fidel Castro è stato coerente con il suo ideale: ha sostenuto una rivoluzione e l’ha vinta, e da quel momento si è messo a lavorare per ricostruire un nuovo paese e una società come li intendeva lui, e l’ha fatto per più di quarant’anni lavorandoci sodo. Nel momento in cui si è trovato al vertice di un governo e di una nazione da riformare,  Ernesto Guevara de la Serna ha piantato baracca e burattini ed è andato a sparare ancora in un altro continente. E poi ancora, ha solo cambiato di nuovo continente, fino a che non ci è rimasto.
Ma il “Che” aveva dalla sua la bellezza, una laurea in medicina (e in questo caso l’andare in giro ad ammazzare gente fa un po’ a cazzotti con i princìpi di Esculapio), un’asma cronica (quando ancora non esistevano gli spray broncodilatatori) che lo ha fatto sempre soffrire e per questo lo ha reso più tenero agli occhi degli ammiratori, era un guerriero coraggioso, condivisibili gli ideali per i quali combatteva, e ha terminato la sua vita ancora giovane in forma di una vile esecuzione politica di un uomo già ferito gravemente. Gli ingredienti per farlo diventare un mito ci sono tutti.
Ce n’è stato un altro che ha seguito un percorso simile, che ha sostenuto diverse rivoluzioni e che ha finito col diventare un eroe (dei vincitori) e quindi buon per lui morire di vecchiaia: un certo Giuseppe Garibaldi, ma anche nel suo caso, a volersi mettere a sfrondare il mito, è probabile che si troverebbe solo un’anima avvezza alle risse da marinaio abilmente instradata da esperti politicanti a diventare un eroe.
Tornando al libro, Paco Ignacio Taibo II ha svolto un compito eccellente ricostruendo una biografia che si legge come un romanzo, esaustiva nei tratti essenziali e fitta anche di fatterelli e curiosità poco conosciute dai più. Lo stile concreto consente una leggibilità piacevole per tutto il volume, e questi pregi qui in Italia gli hanno consentito di accaparrarsi il Premio Bancarella 1998.
Se non lo avete ancora letto vi consiglio di farlo, tanto per guardare le cose anche da prospettive che non sono le solite, e allora anche a voi capiterà, la prossima volta che vedrete una ragazzina di quattordici anni con la foto più famosa di Alberto Korda sul petto, di provare il desiderio di domandarle: “Ma tu lo sai veramente chi era questo qui?”.
Il Lettore 

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