martedì 30 agosto 2016

Conversazione in Sicilia

Dopo aver letto Il vagabondo delle stelle non potevo prendere in mano un altro libro che gli fosse qualitativamente inferiore, perché conosco me stesso, e so che dopo un’opera del genere non mi sarei accontentato di un romanzuccio leggero di quelli tanto per far passare il tempo.
La soluzione si è presentata capitando in casa di un’anziana signora dove il karma ha voluto che mi cadesse l’occhio su una libreria (o toh! e come mai?) piena di libri di altre epoche e quasi del tutto carente di romanzi attuali. Tra i tanti titoli meritevoli ho preso in mano questo Conversazione in Sicilia che non mi era mai capitato di leggere e ho cominciato con l’assaporarne l’incipit… “Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori.”; quindi mi sono accomodato in poltrona, temperatura ideale, silenzio assoluto, e ho continuato nella lettura del romanzo per un’oretta buona in una pace ultraterrena, lasciandomi trascinare dallo stile essenziale e lucido di un altro scrittore di un altro secolo.




Elio Vittorini è stato uno dei più grandi scrittori italiani e in questo romanzo fa parlare il modesto impiegato Silvestro Ferrauto che, dopo aver ricevuto una lettera del padre con la quale lo informava di aver abbandonato la madre ed essersene andato con un’altra donna, decide di fare una visita inaspettata alla propria madre e parte per il profondo della Sicilia dove ancora lei vive da sola. Ma lo stesso autore subito ti spiazza un pochino perché avverte che sì, lui parla di Sicilia, ma avrebbe potuto essere un qualsiasi altro luogo in una qualsiasi altra epoca, conferendo quindi da subito al romanzo un forte sapore di indeterminatezza che accompagnerà il lettore fino alla fine.
Da qui il lungo viaggio verso un Sud antico, nel quale si susseguono una serie di dialoghi con personaggi improbabili, a partire da una madre giovane ma vecchia, ognuno dei quali è un’allegoria che scandisce metafore: “Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame.”
E ancora: “E l’arrotino: ― Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo?
Dove i coltelli e le forbici in realtà nelle intenzioni di Vittorini rappresentano le persone capaci di mettere in atto una rivoluzione. Perché l’autore ha scritto un romanzo di fantasia, sì, che è in realtà una denuncia nei confronti del regime fascista ― è stato pubblicato dapprima  a puntate tra il 1938 e il 1939 per la rivista Letteratura, quindi nel 1941 ― neanche tanto abilmente mascherata per non incorrere nella censura o addirittura nell’arresto. Da qui la puzza metaforica proveniente dallo scompartimento del treno dove viaggiano dei funzionari di regime, o l’ironia sulla madre che dovrebbe provare, ma non prova, una gioia “patria” alla notizia del figlio morto in guerra.
Al di là del contenuto, come lettura è anche abbastanza piacevole e vi si nota una sintassi d’artista (che si distingue subito soprattutto se paragonata alla perfezione formale di una buona traduzione), leggermente inficiata, oggi che siamo abituati a ritmi più sostenuti, dalle ripetizioni continue ― brevi dialoghi di poche e scarne frasi inframmezzate da esclamazioni, e ripetuti più volte ― che sicuramente Vittorini ha inserito per rendere il dialogo più rispondente alla realtà, e dalla generale vaghezza di fondo che conferisce un tocco di surreale.
E se vogliamo, a distanza di settantacinque anni dalla pubblicazione, possiamo trovare un moderno spunto di attualità nell’attacco contro il governo dittatoriale dell’epoca, un parallelismo con la situazione attuale di indifferenza popolare e soprattutto di impotenza nei confronti di un meccanismo ugualmente dittatoriale e autoalimentantesi contro il quale nessuno sembra possa fare qualcosa.
Il Lettore

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