martedì 28 giugno 2016

Nessun testimone

Da quando avevo letto questo mi era rimasta la voglia di scoprire se i precedenti romanzi di Elizabeth George fossero veramente migliori di quello che avevo recensito, come sostenevano molti dei suoi lettori più affezionati. Dal momento che quello mi era piaciuto, se per caso i suoi sostenitori avessero avuto ragione mi sarei dovuto trovare di fronte veramente dei bei romanzi. Così, appena mi è capitato questo Nessun testimone non ho avuto dubbi nel prenderlo, non sospettando neppure che da molti è considerato in assoluto il miglior romanzo della George.




In questo caso avevano ragione loro: ad onta delle quasi 700 pagine che possono sembrare veramente troppe per un thriller, il libro mi ha incatenato a sé fino a rendermi schiavo, non ha permesso che lo lasciassi mai da solo e per qualche giorno ha voluto accompagnarmi dovunque andassi e avessi cinque minuti di tempo per aprirlo e proseguire nella lettura.
Questa volta i consueti personaggi seriali della George sono chiamati a indagare su un serial killer che uccide giovani maschi adolescenti lasciandone i cadaveri sparsi per le strade di Londra. Il sovrintendente Thomas Lynley e i colleghi Barbara Havers e Winston Nkata, attorniati da decine di collaboratori a causa dell’estrema gravità dei fatti che ha sollevato un vero e proprio tumulto nell’opinione pubblica, lavorano incessantemente per cercare di scoprire l’assassino, e quando alla fine ci riescono la soluzione non sarà indolore per nessuno.
Scritto nel 2005, il romanzo si pone temporalmente a circa due terzi della saga delle avventure dei tre protagonisti principali, e alla fine si scoprirà che segna un punto fermo fondamentale nell’evoluzione delle loro storie personali. Anche per questo il romanzo è molto lungo: contestualmente alle indagini per gli omicidi la George racconta anche le vicissitudini personali dei tre che ovviamente finiscono per intersecare la vicenda principale. Ma questo allungare non diminuisce nel lettore l’interesse per la vicenda né provoca dei cali di tensione, anzi. La George ha saputo miscelare benissimo gli ingredienti, e quelle che possono dapprima sembrare digressioni superflue alla fine invece appaiono perfettamente congrue al contesto.
Certo c’è da leggere parecchio, ma lo stile della George è perfetto, piacevolissimo e mai noioso anche quando indugia nei particolari, e i fatti si svolgono in un crescendo di emozioni fino a sfociare in una serie di colpi di scena al cui confronto Jeffrey Deaver fa la figura del pellegrino (impara Jeffrey, è così che si inseriscono i colpi di scena, al momento giusto, non uno ad ogni pagina come fai tu).
Nello svolgere il giallo l’autrice ha privilegiato la descrizione dell’indagine poliziesca in tutte le sue sfaccettature, dal brancolare nel buio all’avvicinarsi piano piano alla soluzione del caso, condendola con gli inevitabili attriti personali che ci sono anche tra poliziotti e con il pressing operato dai mezzi di informazione alla ricerca continua di scoop che possano incrementare le vendite. E non ha tralasciato nemmeno di parlare di temi gravi e più o meno attuali come quello della pedofilia omosessuale, della ricerca di metodologie atte a contrastare lo sbandamento adolescenziale nelle metropoli e dell’integrazione razziale tra bianchi e neri ancora attuale al tempo d’oggi.
Dopo settecento pagine che si leggono in un lampo resta la sensazione di aver letto un gran bel romanzo. Ora il problema è: se questo come affermano è il romanzo migliore della George, varrà la pena continuare a cercarne gli altri già sapendo che forse non mi daranno la stessa soddisfazione di questo?
Il Lettore 

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