sabato 6 dicembre 2014

Il seggio vacante

Ce l’ho fatta! Ho finito anche questo! Ci ho messo alcuni mesi (intercalato ad altre letture, naturalmente), ma alla fine sono arrivato in fondo. E sì che sono solo 552 pagine, neanche tantissime, scritte fitte, va bene, ma è l’attenzione che devi porre in ogni fase della lettura a fartelo sembrare interminabile. E la noia a fartelo sospendere spesso…


Le vicende di Harry Potter le ho lette tutte e devo confessarvi che, al di là di quella ricerca della pietra filosofale che per prima ha fatto conoscere il maghetto ai lettori di tutto il mondo, dalla seconda alla settima le ho trovate noiose e insignificanti. Per onestà devo aggiungere che né mia moglie né mia nipote condividono questa affermazione, tanto da sfiorare lo scontro aperto ogni volta che trattiamo l’argomento. L’unica avventura che ho trovato carina è la prima, e anche i film che hanno tratto da tutte le vicende mi sono sembrati troppo cupi per poterseli gustare.
Con questo Il seggio vacante, che comunque penso rappresenti una grande prova d’artista, Joanne Kathleen Rowling finalmente si stacca dalla saga che le ha fatto guadagnare il titolo di baronetto e ben più di 500 milioni di sterline (per chi non l’avesse colta da solo, c’è parecchia ironia in questa frase).
La Rowling tira le fila di una massa consistente di marionette e le fa muovere con una scioltezza il più possibile vicino al reale, da burattinaio navigato, dando loro la possibilità di esternare i proprio pensieri sia attraverso le loro azioni che raccontandoceli lei. Il rovescio della medaglia è che in questo modo, cioè facendo agire un’infinità di personaggi, sia pure in maniera mirabile, la trattazione si allunga a dismisura risultando in fin dei conti prolissa e noiosa. C’è da dire anche che l’autrice ogni tanto riesce a risollevare il lettore annoiato (ma più che annoiato: impaziente) fornendogli degli sprazzi di acume che interrompono spesso la monotonia. D’altra parte, per voler descrivere i modi di fare e di pensare di un nutrito gruppo di abitanti di un paesino della provincia inglese, con tutte le loro bassezze, abiezioni, cattiverie, ripicche, gelosie e psicosi, non poteva scegliere una maniera migliore, facendo leva su particolari di ogni tipo, concentrando ed esasperando gli screzi cronici all’interno di qualsiasi famiglia ed evidenziando i sentimenti peggiori: egoismo, meschinità, stupidità, ignoranza.
(Anche la tecnica di inserire parentesi chilometriche, lunghe spesso anche ben più di una pagina, per spiegare retroscena che aiutino il lettore a comprendere meglio una data situazione, ad esempio familiare, fa parte dell’insistenza sulla prolissità che l’autrice sciorina a piene mani. Avete notato quanto è lunga questa parentesi? Niente, in confronto a quelle della Rowling.)
Il romanzo è scritto benissimo, sicuramente una grande prova da parte di una professionista esperta, ma non è un prodotto da consumo immediato né un libro di evasione. In definitiva io l’ho trovato alquanto noioso: l’ho preso e lasciato parecchie volte preferendo dedicarmi ad altro, ma alla fine sono riuscito ad arrivare in fondo fino a scoprire quella tragedia che l’autrice ti fa prefigurare per tutta la narrazione senza decidersi ad attuarla.
Va be’, un libro che non mi ha entusiasmato. E non credo che il paesino di Pagford faccia guadagnare alla Rowling neanche una minima parte di quanto ha tirato fuori da Hogwarts. Comunque, tanto per ritornare sul tema dello scrivere cazzate, leggevo l’altro ieri che uno dei record di vendite detenuto dalla Rowling è stato battuto dalla blogger Zoella che del suo primo libro, Girl Online, ha venduto 78000 copie solo nella prima settimana dalla pubblicazione.
E io mi ostino ancora a scrivere recensioni serie…
Il Lettore

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