L’altra sera ho dato una sterzata alle mie abitudini consolidate:
invece di andarmene a dormire presto come al solito sono uscito per passare la
serata in un locale dove era in corso una jam
session jazzistica, cosa questa che detta così sembrerebbe di stare in un
localino della 52st Street in piena Middle Manhattan degli anni ’50 e invece
siamo in uno scantinato a volte di Borgo XX giugno a Perugia.
Ma se ti lasci trasportare
dalla musica, anche sotto le arcate di antichi mattoni risulta facile immaginarti
un John Coltrane al posto del pur
bravissimo sassofonista che inanella assoli con assoluta nonchalance (a parte il colore della pelle…), o un Miles Davis che, corrucciato come al
solito, studia la maniera di passare dal caldo
al freddo mentre l’atmosfera satura
di fumo assume quelle colorazioni bluastre delle quali è già intrisa la sua
anima…
Ecco, questa del fumo. Per carità,
anche se sono sempre stato e sono un fumatore, trovo che sia giustissimo il divieto
di fumo nei locali e lo appoggio in pieno, e devo dire che riesco benissimo a stare
quelle due o tre ore senza nicotina senza esternare schizofrenie
da compulsione, ma l’atmosfera… sarà anche pulita e vivibile, ma ammetterete
che è tutta un’altra cosa. Il fumo
da tagliare col coltello e il jazz
andavano talmente d’accordo che ascoltare questa musica in un ambiente con l’aria
pulita è come mangiare un piatto di spaghetti aglio e olio senza peperoncino.
Fatto sta che mi sono comunque
gustato la session, con i musicisti
che si alternavano sulla pedana dandosi il cambio quasi ad ogni pezzo, e
sembrava che ognuno di loro, da come si integrava perfettamente nel sound, avesse provato e riprovato
insieme agli altri per mesi di fila, e invece era una cosa del tutto
improvvisata. Bella serata. Riuscire ad alzarsi comunque alle sei la mattina
dopo è un altro discorso.
Dopo essermi goduto quegli standards mi è presa voglia di rileggere qualche brano dal libro del
quale sopra avete visto la copertina (io ho la versione italiana). Perché? Chiederete. Ma perché ero
entrato nel giusto mood, ovviamente, e
rileggere questo libro fornisce quasi lo stesso piacere che riascoltare il
disco del quale narra la genesi: Kind of
blue.
Quest’opera di Miles Davis del 1959 è ancora oggi uno
dei dischi di jazz più belli e più venduti nel mondo, e il libro di Ashley Kahn racconta vita morte e
miracoli di come questo disco è nato. Kahn narra delle sedute di registrazione,
della creatività di Davis, delle vite degli straordinari artisti che lo hanno
coadiuvato, fornendo una miriade di curiosità, di informazioni tecniche e
sociali, di particolari che vanno dagli stati d’animo alle scelte operate decidendo di premere un tasto in un certo modo piuttosto che in un altro, perfino il
resoconto dei rumori e delle voci che si sentono incise nei master e che poi sono state cancellate
all’atto di mixare il disco.
Ma così come sarebbe
riduttivo descrivere il contenuto musicale di quel disco senza ascoltarlo, così
è riduttivo descrivere il contenuto di questo libro senza leggerlo. Non è
possibile riportare tutte le citazioni delle frasi che si sono scambiate i
musicisti, o la straordinaria quantità di foto dell’epoca e di quei momenti in sala
di registrazione. Gli scambi creativi tra Davis e il mitico Bill Evans, i timori di Coltrane, la
professionalità di tecnici, ingegneri del suono, produttori che forse, dico
forse, stavano cominciando a rendersi conto di lavorare su una delle più belle
realizzazioni musicali di tutti i tempi.
Questo libro è molto di più della
cronistoria dell’origine di un’opera pressoché perfetta il cui valore rimarrà
immutato ancora nei secoli a venire, perché esso, come il suo eponimo, narra di
stati d’animo e sentimenti, e come quello risulta coinvolgente.
Leggetelo ascoltando il
disco, date retta.
Il Lettore musicomane
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