venerdì 29 maggio 2015

Kind of blue

L’altra sera ho dato una sterzata alle mie abitudini consolidate: invece di andarmene a dormire presto come al solito sono uscito per passare la serata in un locale dove era in corso una jam session jazzistica, cosa questa che detta così sembrerebbe di stare in un localino della 52st Street in piena Middle Manhattan degli anni ’50 e invece siamo in uno scantinato a volte di Borgo XX giugno a Perugia.
Ma se ti lasci trasportare dalla musica, anche sotto le arcate di antichi mattoni risulta facile immaginarti un John Coltrane al posto del pur bravissimo sassofonista che inanella assoli con assoluta nonchalance (a parte il colore della pelle…), o un Miles Davis che, corrucciato come al solito, studia la maniera di passare dal caldo al freddo mentre l’atmosfera satura di fumo assume quelle colorazioni bluastre delle quali è già intrisa la sua anima…




Ecco, questa del fumo. Per carità, anche se sono sempre stato e sono un fumatore, trovo che sia giustissimo il divieto di fumo nei locali e lo appoggio in pieno, e devo dire che riesco benissimo a stare quelle due o tre ore senza nicotina senza esternare schizofrenie da compulsione, ma l’atmosfera… sarà anche pulita e vivibile, ma ammetterete che è tutta un’altra cosa. Il fumo da tagliare col coltello e il jazz andavano talmente d’accordo che ascoltare questa musica in un ambiente con l’aria pulita è come mangiare un piatto di spaghetti aglio e olio senza peperoncino.
Fatto sta che mi sono comunque gustato la session, con i musicisti che si alternavano sulla pedana dandosi il cambio quasi ad ogni pezzo, e sembrava che ognuno di loro, da come si integrava perfettamente nel sound, avesse provato e riprovato insieme agli altri per mesi di fila, e invece era una cosa del tutto improvvisata. Bella serata. Riuscire ad alzarsi comunque alle sei la mattina dopo è un altro discorso.
Dopo essermi goduto quegli standards mi è presa voglia di rileggere qualche brano dal libro del quale sopra avete visto la copertina (io ho la versione italiana). Perché? Chiederete. Ma perché ero entrato nel giusto mood, ovviamente, e rileggere questo libro fornisce quasi lo stesso piacere che riascoltare il disco del quale narra la genesi: Kind of blue.
Quest’opera di Miles Davis del 1959 è ancora oggi uno dei dischi di jazz più belli e più venduti nel mondo, e il libro di Ashley Kahn racconta vita morte e miracoli di come questo disco è nato. Kahn narra delle sedute di registrazione, della creatività di Davis, delle vite degli straordinari artisti che lo hanno coadiuvato, fornendo una miriade di curiosità, di informazioni tecniche e sociali, di particolari che vanno dagli stati d’animo alle scelte operate decidendo di premere un tasto in un certo modo piuttosto che in un altro, perfino il resoconto dei rumori e delle voci che si sentono incise nei master e che poi sono state cancellate all’atto di mixare il disco.
Ma così come sarebbe riduttivo descrivere il contenuto musicale di quel disco senza ascoltarlo, così è riduttivo descrivere il contenuto di questo libro senza leggerlo. Non è possibile riportare tutte le citazioni delle frasi che si sono scambiate i musicisti, o la straordinaria quantità di foto dell’epoca e di quei momenti in sala di registrazione. Gli scambi creativi tra Davis e il mitico Bill Evans, i timori di Coltrane, la professionalità di tecnici, ingegneri del suono, produttori che forse, dico forse, stavano cominciando a rendersi conto di lavorare su una delle più belle realizzazioni musicali di tutti i tempi.
Questo libro è molto di più della cronistoria dell’origine di un’opera pressoché perfetta il cui valore rimarrà immutato ancora nei secoli a venire, perché esso, come il suo eponimo, narra di stati d’animo e sentimenti, e come quello risulta coinvolgente.
Leggetelo ascoltando il disco, date retta.
Il Lettore musicomane

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