Nel mio passato ci sono
anni di arti marziali e litri di
sudore spremuti sul tatami, ed è per
questo motivo che la mia libreria è ben fornita su vari aspetti inerenti questi
argomenti: dalle discipline marziali alle tecniche di combattimento, dalle
filosofie orientali ai samurai allo zen, nell’ambito del quale la cerimonia del tè assume delle
connotazioni spirituali, mistiche e religiose che vanno ben oltre un semplice
prendere il tè con gli amici, e Il
maestro del tè, cioè colui che conduce il rito, assume anche un ruolo da
cerimoniere, da mentore, da consigliere spirituale.
Ok, detto questo, prima di
recensire questo libro vorrei puntualizzare una cosa. Una volta terminato di
leggerlo non riuscivo a capire perché il romanzo fosse intitolato Il maestro del tè, dal momento che il
personaggio che nel romanzo ricopre questo ruolo non risulta così importante
nella storia né talmente simbolico da ergerlo a titolo. Ho pensato al solito
ghiribizzo di traduzione, sono andato a fare una scandagliata in rete per
cercare il titolo originale e… ho scoperto che non esiste alcuna traduzione né
tantomeno alcun Carlos Leòn Monteverde,
che non è altro che uno degli pseudonimi
con cui tali Luca Crippa e Maurizio Onnis firmano i loro romanzi.
Quindi l’infondatezza del
titolo sembra proprio voluta e resta il dubbio del perché di ciò, ma d’altra
parte, da un certo punto di vista questo può essere coerente con l’infondatezza
di tutto il resto del romanzo.
La trama è imperniata sulle
difficoltà di un gesuita veneziano incaricato di portare il messaggio
apostolico nelle lontane terre del Giappone della fine del 1500, epoca in cui
in queste isole si succedono al potere una serie di tiranni che in comune hanno
un sanguinario despotismo e la chiusura totale verso tutto ciò che al Giappone
risulta straniero.
Dal punto di vista
stilistico e formale il romanzo è scritto anche abbastanza bene, così come è
plausibile la ricostruzione storica, ma una volta arrivati in fondo ci si rende
conto che le motivazioni sulle quali si muovono i personaggi sono fumose e
inconsistenti e non si capisce dove l’autore (gli autori) abbia voluto andare a
parare. Di capitolo in capitolo assumono rilevanza personaggi sempre diversi
che poi vengono abbandonati a loro stessi senza motivo, o perlomeno non
spiegando a sufficienza le ragioni delle loro mosse. Il peregrinare coatto di
quello che avrebbe dovuto essere il protagonista, il gesuita Mocenigo, appare
privo di un reale scopo se non quello di permettere all’autore di continuare a
raccontare qualcosa, così come il suicidio finale del maestro del tè sa tanto
di forzato, ripreso pari pari dalla tradizione nipponica sia reale che
cinematografica, senza che ne sia data una spiegazione soddisfacente.
Ai samurai viene fatta fare
la figura dei pellegrini; l’entrata in scena del classico personaggio femminile
ammantato di mistero fa solo capire come l’autore abbia sentito a un certo
punto la necessità di inserire un personaggio femminile ammantato di mistero
perché in un romanzo ci sta sempre bene; e quello che avrebbe potuto essere un
aspetto interessante, cioè la diatriba tra gesuiti e francescani all’interno
della chiesa per quanto riguardava gli interessi partitici nelle politiche
missionarie, viene trattato in maniera superficiale e non risolutiva.
Troppi buchi per essere un
buon romanzo, troppe cose non spiegate e poco spessore dei personaggi
principali, e la sola cosa che l’ha salvato dall’essere abbandonato a metà è
stata la buona prosa e la curiosità (purtroppo poi delusa) di sapere dove
volesse andare a parare.
Restando sempre nella
stessa tematica, cioè quella dell’uomo occidentale che si scontra con il modo
di pensare giapponese, e tanto per restare sul leggero, allora devo dire che mi
hanno soddisfatto enormemente di più libri come Sol levante di Michael
Crichton e film come L’ultimo
samurai con Tom Cruise.
Il Lettore
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