venerdì 6 febbraio 2015

Il maestro del tè

Nel mio passato ci sono anni di arti marziali e litri di sudore spremuti sul tatami, ed è per questo motivo che la mia libreria è ben fornita su vari aspetti inerenti questi argomenti: dalle discipline marziali alle tecniche di combattimento, dalle filosofie orientali ai samurai allo zen, nell’ambito del quale la cerimonia del tè assume delle connotazioni spirituali, mistiche e religiose che vanno ben oltre un semplice prendere il tè con gli amici, e Il maestro del tè, cioè colui che conduce il rito, assume anche un ruolo da cerimoniere, da mentore, da consigliere spirituale.




Ok, detto questo, prima di recensire questo libro vorrei puntualizzare una cosa. Una volta terminato di leggerlo non riuscivo a capire perché il romanzo fosse intitolato Il maestro del tè, dal momento che il personaggio che nel romanzo ricopre questo ruolo non risulta così importante nella storia né talmente simbolico da ergerlo a titolo. Ho pensato al solito ghiribizzo di traduzione, sono andato a fare una scandagliata in rete per cercare il titolo originale e… ho scoperto che non esiste alcuna traduzione né tantomeno alcun Carlos Leòn Monteverde,  che non è altro che uno degli pseudonimi con cui tali Luca Crippa e Maurizio Onnis firmano i loro romanzi.
Quindi l’infondatezza del titolo sembra proprio voluta e resta il dubbio del perché di ciò, ma d’altra parte, da un certo punto di vista questo può essere coerente con l’infondatezza di tutto il resto del romanzo.
La trama è imperniata sulle difficoltà di un gesuita veneziano incaricato di portare il messaggio apostolico nelle lontane terre del Giappone della fine del 1500, epoca in cui in queste isole si succedono al potere una serie di tiranni che in comune hanno un sanguinario despotismo e la chiusura totale verso tutto ciò che al Giappone risulta straniero.
Dal punto di vista stilistico e formale il romanzo è scritto anche abbastanza bene, così come è plausibile la ricostruzione storica, ma una volta arrivati in fondo ci si rende conto che le motivazioni sulle quali si muovono i personaggi sono fumose e inconsistenti e non si capisce dove l’autore (gli autori) abbia voluto andare a parare. Di capitolo in capitolo assumono rilevanza personaggi sempre diversi che poi vengono abbandonati a loro stessi senza motivo, o perlomeno non spiegando a sufficienza le ragioni delle loro mosse. Il peregrinare coatto di quello che avrebbe dovuto essere il protagonista, il gesuita Mocenigo, appare privo di un reale scopo se non quello di permettere all’autore di continuare a raccontare qualcosa, così come il suicidio finale del maestro del tè sa tanto di forzato, ripreso pari pari dalla tradizione nipponica sia reale che cinematografica, senza che ne sia data una spiegazione soddisfacente.
Ai samurai viene fatta fare la figura dei pellegrini; l’entrata in scena del classico personaggio femminile ammantato di mistero fa solo capire come l’autore abbia sentito a un certo punto la necessità di inserire un personaggio femminile ammantato di mistero perché in un romanzo ci sta sempre bene; e quello che avrebbe potuto essere un aspetto interessante, cioè la diatriba tra gesuiti e francescani all’interno della chiesa per quanto riguardava gli interessi partitici nelle politiche missionarie, viene trattato in maniera superficiale e non risolutiva.
Troppi buchi per essere un buon romanzo, troppe cose non spiegate e poco spessore dei personaggi principali, e la sola cosa che l’ha salvato dall’essere abbandonato a metà è stata la buona prosa e la curiosità (purtroppo poi delusa) di sapere dove volesse andare a parare.
Restando sempre nella stessa tematica, cioè quella dell’uomo occidentale che si scontra con il modo di pensare giapponese, e tanto per restare sul leggero, allora devo dire che mi hanno soddisfatto enormemente di più libri come Sol levante di Michael Crichton e film come L’ultimo samurai con Tom Cruise.
Il Lettore 

Nessun commento:

Posta un commento