Ho terminato di leggere Flush proprio pochi istanti fa; ho sfilato
la penna dal taschino e mi accingo a scrivere a caldo questa recensione. Sono
solo, seduto al tavolo degli organizzatori nelle grandi e gelide sale che
ospitano la mostra retrospettiva delle opere di un artista e amico che ci ha
lasciati troppo presto. Oggi è il mio turno di tenerla aperta e al momento non
c’è nessun ospite da guidare nella visita; posso leggere e scrivere in tutta
tranquillità. L’inchiostro verde della Montblanc
scorre fluido in barba al freddo. Ho scelto questa occasione per terminare la
lettura dell’opera di Virginia Woolf perché mi è sembrato il libro giusto da
portarmi dietro per trascorrere i momenti vuoti tra un gruppo di visitatori e
l’altro. E perché mi piace leggere le biografie, comprese quelle di cani.
Peccato la razza: i cocker spaniel non mi sono mai stati
simpatici.
La biografia di un cane
redatta da una grande scrittrice è sempre qualcosa di più della semplice biografia di un cane.
Virginia
Woolf ne approfitta
infatti per tracciare anche la
biografia dell’essere umano al quale Flush
era appartenuto, la poetessa inglese Elizabeth
Barrett Browning, e per far trasparire un intero mondo passato ormai da
quasi cent’anni rispetto al tempo in cui l’autrice ha scritto.
Attraverso le sensazioni di
Flush la Woolf racconta degli anni
trascorsi a letto dalla Barrett – per una non ben identificata malattia – e nei
quali ha scritto le prime opere che l’hanno resa famosa; dell’innamoramento
epistolare per un poeta dapprima sconosciuto e poi dell’incontro con lo stesso Robert Browning, del matrimonio segreto
fino alla fuga in Italia e del ruolo che il nostro paese ha svolto nella
trasformazione di una donna: dalla malinconia all’apertura, dal ditale di Porto
“appena sorseggiato” al trangugiare un bicchiere di Chianti, dalla tristezza di
Londra al sole di Firenze, dai cani londinesi tutti esclusivamente di razza purissima
e altezzosi ai cani pisani tutti esclusivamente bastardi, ma molto più felici.
Il sole italiano fa emergere una nuova personalità nella poetessa, da
malaticcia e cinerea a donna dinamica e (moderatamente) allegra, e permette a Flush una libertà di vagabondare che lo
renderà finalmente spensierato fino al momento di riposare per sempre
nell’argillosa terra fiorentina sotto le cantine di Casa Guidi.
Il tutto nel tentativo di
far sorgere immagini nel lettore attraverso gli occhi del cane. In effetti ciò
riesce alla Woolf abbastanza bene, peccando di ingenuità solo nei momenti in cui ipotizza che il cane provi dei
sentimenti troppo umani per un cane, antropomorfizzandolo un poco oltre il
plausibile, e il rapporto tra il cane e la poetessa è reso bene sottolineando
la costanza della psicologia canina, sia
pure intaccata da alcuni episodi significativi, rispetto alla volubilità dei
sentimenti umani.
“Il fatto è che essi non potevano comunicare per mezzo della parola, ed
era questo un fatto che indubbiamente dava luogo ad alquanti malintesi”.
Vero, ancor di più oggi e non solo nel caso di un rapporto tra uomo e animale,
ma anche quando alla parola parlata si sostituisce la parola scritta, come
nelle discussioni in chat o nei forum.
La leggibilità del testo è
condizionata dagli ottant’anni che sono passati da quando Virginia Woolf lo ha scritto: il ritmo è lento e lo stile antico,
ricco di termini arcaici e verbi obsoleti come “redolere” (olezzare, emettere
odori di nuovo), “ammansare” (rendere mansueto), “scandolezzare” (forma arcaica
di scandalizzare), e con molti congiuntivi messi al tempo presente quando invece
sarebbero stati meglio al passato. Non sapendo a che epoca risalga la
traduzione di Alessandra Scalero
della versione in mio possesso non posso valutare quanto questo dipenda dal
testo originale e quanto dalla traduttrice, ma posso dire che poco prima della
metà del libro il tutto si velocizza, quando a Flush capita di essere rapito da malviventi (e la Woolf ne
approfitta per dipingere la Londra più povera, squallida e delinquenziale) e subito
dopo i due piccioncini decidono di fuggire in Italia insieme al cane recuperato.
Devo dire che procedendo
nella lettura, forse abituandomi allo stile della Woolf e man mano che
succedono avvenimenti interessanti, il libro migliora di parecchio, e arrivato
in fondo posso affermare che mi è piaciuto molto, iniettandomi la voglia di
leggere qualcuna delle opere “maggiori” di Virginia
Woolf, quali ad esempio Gita al faro
o La signora Dalloway.
Un grazie affettuoso a lei
sa di chi parlo per il graditissimo dono.
Acc… domani mi toccherà di
ribattere il tutto sulla tastiera…
Il Lettore cinofilo
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