Ieri è morto Gabriel Garcia Marquèz, uno dei massimi
esponenti della letteratura latinoamericana del novecento e Premio Nobel 1982.
Un altro grande scrittore
che se ne va, uno di quelli dalla faccia simpatica e dalla penna feconda,
lasciando che si infoltisca la schiera di quelli scarsi.
Con lui ho sempre avuto un
rapporto contrastato: pur ammirandone e riconoscendone le qualità dello stile e
della prosa, non sono mai riuscito a terminare qualcosa di suo. Così come del
resto per una buona altra parte degli scrittori latinoamericani. Pur approcciandomi
a più riprese ai suoi scritti, da Cent’anni
di solitudine, del quale non sono mai riuscito a superare la centesima
pagina, a Memoria delle mie puttane tristi,
pur insistendo reiteratamente nel corso degli anni a provare ad apprezzare le
sue storie dal profondo contenuto sociale, alla fine il segnalibro restava
sempre inserito in qualche punto del volume senza mai andarsene del tutto.
Idiosincrasie quasi
ingiustificate, delle quali mi restano ancora parecchi rimorsi con i quali però
ho accettato di convivere. Ne riconosco la bravura, ma la noia e soprattutto il
disinteresse hanno sempre preso il sopravvento. Del resto, un romanzo dove
tutti i protagonisti si chiamano Aureliano
Buendìa resta ben oltre la mia capacità di sopportazione.
Il Lettore
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