Oltre ad essere il
rappresentante più significativo dell’ultima generazione di scrittori
statunitensi, di David Foster Wallace
si dice anche fosse un genio. Un genio che si è impiccato a 46 anni.
Una caratteristica
intrinseca della genialità è quella di saper attingere a risorse che ai comuni
esseri umani sono negate. Risorse che permettono di eccellere nel proprio campo
e che permettono anche di trovare la forza di continuare a svolgere al meglio ciò
che si sta portando avanti. Einstein,
Leonardo, Michelangelo, Galileo
sono arrivati tutti alla vecchiaia. Ma è anche possibile che la genialità di
Wallace avesse raggiunto un livello talmente elevato da farlo arrendere
all’evidenza, nonostante le risorse superiori, che non ci fosse più trippa per
gatti.
Dopo aver sentito parlare
di questo genio mi era presa la voglia di leggere qualcosa di suo. Mi sono
informato un po’ in giro e ho scartato l’approccio al suo romanzo forse più
famoso, Infinite Jest, spaventato
dalla lunghezza a metà strada tra Il
Signore degli Anelli e Alla Ricerca
del Tempo Perduto (e sì che il suo editor gli ha fatto tagliare, in fase di
pubblicazione, ben quattro o cinquecento pagine). Per dirla tutta mi hanno
preoccupato anche parecchie recensioni che ho letto e che riportavano tutte
pressappoco lo stesso commento: bellissimo!
geniale! fuori dal comune! straordinario! certo, un pochino noioso… E a me
questa piccola aggiunta finale, sintomo esteriore di problemi di lettura (e
interpretazione critica) ben più gravi di quelli esternati poco prima, fa
veramente cadere le braccia. Se ci tieni a precisare che è noioso, come fai a dire
che è bellissimo?
Comunque tutto ciò ha
contribuito ad incuriosirmi ancora di più. L’altro giorno in libreria ho notato
questo Di carne e di nulla e mi sono
detto perché no? Proviamo, vediamo come e cosa scriveva questo Wallace. In
questo caso saggistica, non-fiction,
pagine sparse sui più svariati argomenti.
Be’, dopo la lettura devo
dire che l’aggettivo più rispondente che mi viene in mente è: sorprendente. Il libro è una raccolta di
alcuni saggi, e da quelli che sono riuscito a leggere sono rimasto veramente
sorpreso, sia dalla cultura oceanica dell’autore sia dalla sua capacità
espositiva. Quelli che sono riuscito a leggere. Sì, perché alcuni, come The Best of the Prose Poem sono veramente illeggibili, sia per la forma
riassuntiva sia per i riferimenti (per me) arcani.
Ma altri, quelli
accessibili, mostrano una scrittura moderna e veloce, un’ironia cupa, un
profondo senso dell’attualità, una spietatezza e una lucidità nell’osservare il
mondo attuale che dimostrano come Wallace abbia avuto una capacità critica
fuori del comune, oltre ad interessi multidisciplinari estremamente variegati.
La spettacolare analisi che
fa della struttura di un film in L’importanza
(per così dire) seminale di Terminator
2, o lo stupefacente paragone tra l’AIDS e il drago delle favole con la
bella nel castello in Di nuovo fuoco e
fiamme, condito da un uso del turpiloquio azzeccato e coerente; l’analisi
semantica approfondita di Notazioni su
ventiquattro parole; la critica strutturale (molto migliore di quella che
sto portando avanti io in queste pagine) di testi altrui in Il plenum vuoto o Borges sul lettino, rivelano un
uomo che sicuramente sapeva guardare oltre il panorama sulla cui linea
d’orizzonte si ferma lo sguardo della gente comune.
E’ semplicemente
fantastico, in La natura del
divertimento, l’approfondimento di Wallace sulla metafora con cui Dom De Lillo, in Mao II, paragona un libro in composizione da parte di uno scrittore
ad un “bimbetto mostruosamente mutilato che segue lo scrittore ovunque”.
Wallace continua: “Eppure è tuo, il
bambino, è te, e gli vuoi bene, lo
coccoli, gli pulisci il fluido cerebrospinale dal mento pendulo con il polsino
dell’unica camicia pulita che ti sia rimasta perché non fai il bucato da una
cosa come tre settimane perché finalmente sembra che proprio questo personaggio
finalmente vibri a un soffio dal comporsi e funzionare e sei terrorizzato
all’idea di sprecare il tempo facendo qualcosa di diverso dal lavorarci su
perché ti basta distogliere lo sguardo un secondo e lo perdi, condannando l’intero
bambino a una mostruosità protratta.” E prosegue a parlare di questo
“bambino” per altre due pagine, deviando poi sulla sua personale interpretazione
del divertimento che prova uno scrittore mentre sta creando un’opera.
Tutto il libro è una raccolta
di riflessioni acutamente rivelatrici e singolari (come descrivere Roger Federer, di cui Wallace da buon
tennista era un fervente ammiratore, ricorrendo a Tommaso d’Aquino), riflessioni personali messe su carta, che
rivelano una personalità sicuramente fuori dal comune. Talmente tanto fuori dal
comune che magari si è impiccato perché non trovava un altro alla sua altezza
nemmeno per poter parlare.
Non so ancora se un giorno
o l’altro mi deciderò ad affrontare uno dei suoi romanzi, ma certo è che mi ha stuzzicato
non poco.
Il Lettore
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