Michael
John Cloete Crawford Rutherford,
noto più semplicemente come Mike
Rutherford, è famoso a livello planetario per essere stato uno dei
fondatori nonché il principale bassista/chitarrista dei Genesis.
Per intenderci: quello
altissimo con capelli lunghi e barba corta sempre immobile come una statua,
affaccendato sul suo doppio manico Rickenbecker,
con l’espressione stupita e il viso rivolto verso un Peter Gabriel che aveva appena sperimentato un nuovo travestimento (del
quale si era guardato bene dall’informare i compagni della band).
Il padre di Mike, William Rutherford, era un ufficiale
della Marina Militare britannica ed è morto alla fine degli anni ’80 mentre il
figlio era all’apice del successo e stava completando un tour di concerti negli Stati Uniti. Nell’apprendere la notizia, Mike
ha preso un aereo da Chicago per recarsi in Inghilterra allo scopo di
partecipare al funerale, e poi è salito di nuovo su un Concorde da Londra per New York e quindi di corsa su un altro
aereo, stavolta privato, per essere a Los Angeles in tempo per il concerto che
dovevano tenere in quella città.
“Caro
Michael, sei il figlio di un ufficiale della marina e perciò devi tu stesso
comportarti come un ufficiale navale”
sono le parole che il padre aveva detto al figlio settenne nell’accompagnarlo
per il primo giorno di scuola, sperando magari che anche lui seguisse la
tradizione familiare in una carriera militare. Ma ben presto il ragazzo scoprì
il rock,
e in Mike si scatenò la passione che
lo ha condotto a diventare tutt’altro: un songwriter,
un autore di canzoni più che un mero esecutore di pezzi di altri. Alla fine
degli anni ’60, insieme ad altri rampolli della società “bene” inglese fondò
quelli che per i successivi quarant’anni sarebbero stati i Genesis, passando via via da una musica elaborata, “Il nostro pubblico dei primi tempi si
divideva in due categorie: quelli che ci apprezzavano e quelli che non capivano
cosa cazzo stesse succedendo. Certe volte non capivano nemmeno che qualcosa stesse succedendo”, a un prodotto di più facile consumo, e quindi con
tutte le qualità per attirare folle oceaniche ai loro concerti e vendere dischi
a milioni.
In questo libro Mike Rutherford ripercorre la storia
della propria vita tenendo sempre in primo piano il rapporto con il padre e riportando brani scritti dallo
stesso in un memoriale che i figli hanno trovato dopo la sua morte. Mike
scrisse la canzone The living years
un anno dopo che suo padre se n’era andato e la pubblicò in un album dell’altro complesso di cui faceva parte, Mike & The Mechanics, e di cui scriveva la maggior parte dei
pezzi. La canzone è una ballata sui temi della tolleranza e della comprensione
tra generazioni differenti, e anche questo libro che sto commentando si deve
intendere come un omaggio al padre
più che una biografia vera e propria. Peraltro dettagliatissima e molto
piacevole da leggere per chi come me che i Genesis
li conosce in tutte le loro sfaccettature. Ma è sempre interessante conoscere
l’opinione di chi la cosa l’ha vista dal di dentro.
Rutherford racconta i problemi enormi dei primi tempi del
gruppo: spostarsi in furgoni pieni di sterco e fieno per cavalli, dormire alla
meno peggio tra escrementi di topi, patire il freddo e la fame per totale mancanza
di soldi, gli amori e le frustrazioni e poi le gioie per essere finalmente
riusciti a farsi notare, la tristezza degli abbandoni, l’euforia del successo
quello vero e tutte le problematiche che hanno costellato una carriera.
Insieme al narrare il suo
rapporto con il padre, da cui ha sempre avuto un costante supporto nonostante egli non
comprendesse bene ciò che il figlio stesse facendo. Andava sì ai suoi concerti,
ma con batuffoli di ovatta nelle orecchie. Mike ci informa che uno dei suoi
rimpianti è stato quello di essere riuscito ad avvicinarsi al modo di pensare
del padre, come del resto succede per tutti, solo dopo che sono nati i suoi stessi figli.
Io sono un amante in modo
particolare della musica dei Genesis
dei primi tempi, per intenderci quelli dal ’69 al ’75, fino alla defezione di
Gabriel (quello che è venuto dopo è un po’ troppo commerciale per i miei
gusti), ma per non far torto a nessuno vi suggerisco di guardare questo video che riporta integralmente l’ultimo concerto della band nella splendida cornice di casa
nostra: Roma 2007, di fronte a 500.000 spettatori entusiasti.
Una più che degna conclusione
di carriera.
(Per pura curiosità: tra i
commenti che seguono il video a fondo pagina ce n’è uno di due mesi fa di un
certo Peter Gabriel — sì, proprio
lui — che ironicamente afferma: “io avrei
fatto questa merda molto meglio…”).
Il Lettore musicomane
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