venerdì 16 giugno 2017

Cecità

Che cosa accadrebbe se all’improvviso tutta l’umanità, per ragioni inspiegabili, diventasse cieca? Semplice: che l’umanità non esisterebbe più.
È questa la domanda che si pone Josè Saramago in questo che è uno dei suoi libri più conosciuti. Di punto in bianco le persone cominciano a non essere più capaci di vedere, senza alcuna causa apparente. Le autorità pensano dapprima a una malattia contagiosa e cercano di risolvere il problema internando tutti i ciechi nell’ipotesi che possano trasmettere quello che loro pensano sia un morbo, ma ben presto la situazione si fa insostenibile. All’interno dei ghetti le persone “contagiate” perdono ben presto ogni dignità umana e si trasformano nell’animale che si trova nascosto dentro ognuno di noi.




Scritto con uno stile continuo quasi da flusso di coscienza, in cui i dialoghi sono separati solo da virgole all’interno di ogni periodo e contrassegnati dall’iniziale maiuscola di ogni frase, Cecità è un romanzo estremamente crudo che narra di uomini che in presenza di un grave problema tornano a un puro stato animalesco, che cercano di sopraffarsi a vicenda in ogni modo, per quanto è possibile a un cieco, o perlomeno di sopravvivere, abbandonando qualsiasi progresso fatto in passato sulla strada della civiltà, costretti a sguazzare nei propri escrementi e nei fetidi odori di tutti coloro che hanno intorno, e che arrivano a considerare la morte come una liberazione.
Leggendolo, mi ha ricordato i concetti che avevo espresso in questo post a proposito dei Premi Nobel per la Letteratura: se intendi aspirare a vincere il Nobel devi scrivere di e sulle tragedie più terribili. Ancora meglio anzi se ci metti anche qualcosa sulla religione, o sul rifiuto della religione: Il Vangelo secondo Gesù Cristo ha contribuito non poco a far assegnare questo Premio a Josè Saramago nel 1998.
Tutti i personaggi rinchiusi nel ghetto prima o poi cadono nell’abiezione, chi più chi meno, costretti e rassegnati a dover attendere l’elemosina di un governo che si comporta da tiranno e che non esita a sparare e uccidere chi tenta di scappare da quelli che non sono altro che luoghi di detenzione. Ben presto tutta la comunità cade nell’anarchia in una totale perdita di ogni residuo di umanità.
Qualche citazione dal libro renderà più chiara l’idea di ciò che Saramago ha voluto rappresentare:
“Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali.”
“Cecità è vivere in un mondo dove non vi sia più speranza.”
“Con le budella in pace chiunque può avere delle idee, discutere, per esempio, se esista un rapporto diretto fra gli occhi e i sentimenti, o se il senso di responsabilità sia la naturale conseguenza di una buona visione, ma quando la tortura incalza, quando il corpo ci fa impazzire di dolore e angoscia, allora sì, si vede che povero animale siamo.”
“È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria.”
“Non si può mai sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, bisogna aspettare, dar tempo al tempo, è il tempo che comanda, il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita, la nostra.”
In parole povere Saramago mette i protagonisti di fronte a una situazione in cui sono costretti a ritornare a uno stato bestiale per sopravvivere, e di come la cosiddetta civiltà, o la barbarie stessa, dipendano in gran parte dalle circostanze nelle quali sei costretto a vivere.
Gran romanzo, tostissimo e deprimente e per questo non facile da consumare, ma sicuramente una di quelle letture che lasciano il segno.
Il Lettore

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