C’è un solo giornalista/opinionista che seguo, sia
pure con costanza fallace, con cui condivido in parte idee politiche e
musicisti da ascoltare, e del quale cerco di emulare il cinismo e la capacità
di attirare antipatie: Andrea Scanzi.
Mi piace come scrive,
apprezzo il suo modo di pensare e di non mandarla a dire, e quando mi hanno
riferito che aveva scritto anche un romanzo
l’ho letto appena mi è stato possibile.
La
vita è un ballo fuori tempo
è un romanzo particolare, nel quale Scanzi riversa tutto il suo cinismo e la
sua arguzia trasformando un romanzetto leggero in una gigantesca presa per il culo nei confronti dei
politicanti nazionali, dei loro accoliti e della cultura (!) attuale che più
vacua non si può.
Dico subito che mi è piaciuto, attirandomi così addosso
gli anatemi di tutti coloro, e non sono pochi, che lo hanno massacrato sulla
stampa (sapete già che vado a leggere anche le critiche degli altri, giusto per
rendermi conto del numero di coloro che non capiscono un caz non hanno i
miei stessi gusti in fatto di libri). Le critiche a questo romanzo si possono
spiegare facilmente, come se fosse un diktat
governativo: se sei renziano ne devi parlare male. Punto.
Il libro narra le vicissitudini
di un giornalista sportivo di mezza età praticamente fallito, il cui nonno e la
propria combriccola di amici novantenni, riscopertisi hacker di successo avendo inventato videogiochi dedicati alla terza
età, si preparano a mettere in atto una rivoluzione
informatica contro il governo dispotico della nazione di fantasia in cui
vivono. E contro la subcultura imperante, il nepotismo, i leccaculo, gli
arrivisti, i raccomandati e tutti coloro che sguazzano soddisfatti nella merda dilagante
della società contemporanea.
Surreali sono la trama e l’ambientazione, improbabili i nomi stessi dei
protagonisti e le loro particolarità caratteriali. Il gruppo di vecchietti
rivoluzionari ricorda quello del Bar
Lume per la simpatia e gli acciacchi senili, con in più la coerenza
rivoluzionaria di un Lenin e la fedeltà di un Labrador di nome Clarabelle, con la “e” finale, che
passa la vita a scodinzolare e a sbafare crocchette al gusto alchermes. L’attuazione del loro golpe risulterà entusiasmante. Il
protagonista, Stevie Vaughan, saprà
redimere il suo comportarsi da perfetta nullità con un mirabile colpo di reni
finale che farà passare il lettore sopra alla pancetta e alla calvizie
incipiente e al suo girare in un’ipotesi
di SUV (oltre al baciare male e allo scopare peggio).
Ma il consueto Scanzi si riconosce
negli attacchi al Governo romanzato e alla sua politica tanto simile al Nostro
attuale: “Stevie pensò che la propaganda
bacarozziana aveva davvero fatto un gran lavoro. Persino i disoccupati erano
contenti di esserlo. Prima o poi anche i morti, dall’oltretomba, avrebbero
chiesto una deroga a Satana in persona per votare Bacarozzi”, e
nell’esorbitante quantità di citazioni delle quali il romanzo è costellato:
letterarie e musicali, politiche e filosofiche (cosa che gli ha valso le
critiche più dure da coloro che lo hanno massacrato, accusandolo di essersi
ridotto allo stesso livello di coloro che condanna (!)).
Torno a ripetere che a me è
piaciuto e non solo, mi ha strappato spesso qualche risata sulle battute più ciniche, pur essendo permeato di un’amarezza
esistenziale di fondo che sta lì a ricordarci che quello sempre un romanzetto
è, e la vita vera è infinitamente peggiore.
E con questa perla di
saggezza vi saluto e vado a cuccarmi, da buon’ipotesi di vecchietto in un
empito di autoconservazione, una manciata di bacche di Gorky. Pardòn, Goji.
Il Lettore
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