Oltre che un’accanita lettrice, il mio editor è anche un raffinato (e insaziabile)
gourmet, ovvero una di quelle persone
alle quali risulta più economico regalare un vestito che invitarle a cena
fuori, ed è per questo che quando trovo un titolo promettente mi piace
riportarle libri che accomunino le due passioni.
Quando, nel solito negozietto
di libri usati, ho letto le prime pagine di questo Lezioni di francese, che in realtà non parla di lingue ma di cibo, mi sono sembrate talmente carine
che il prenderlo è diventato obbligatorio.
Con tutto ciò che si può dire
dei francesi, non si può certo
accusarli di non saper mangiare o bere. Di certo io sono d’accordo con
l’opinione che su questo tema nel mondo siano secondi solo agli italiani, anche
se loro, i francesi, questa cosa non la ammetteranno mai convinti come sono di essere loro, i primi.
In questo libro
autobiografico Peter Mayle racconta del suo incontro con l’universo
culinario ed enologico francese, di come un inesperto diciannovenne inglese abituato
al deserto gastronomico del suo paese dove “…l’abbinamento
delle pietanze pareva rigorosamente regolato in base al colore: grigia la carne, grigie le patate,
grigie le verdure, grigio il sapore. All’epoca pensavo che la cosa fosse assolutamente
normale”, si sia all’improvviso trovato di fronte l’esplosione di colori e
di sapori dei cibi francesi e ne sia rimasto talmente conquistato da
trasferirsi definitivamente a vivere a sud della Manica. Parecchio, più a sud.
Come molti altri inglesi prima di lui, vuoi per i cibi
vuoi per il sole (oh my god, what is
quella palla che brilla in cielo? Very piacevole, però…), Mayle ha preso
dimora stabile in Provenza da dove è poi partito in frequentissime escursioni fino agli angoli più remoti
della Francia alla scoperta dei cibi più gustosi e dei vini più meritevoli,
avventure che ha pubblicato in seguito in diversi libri di successo come Un anno in Provenza o Un’ottima annata.
Dalle escargots alla bouillabaisse,
dai ristoranti a cinque stelle alle trattorie di campagna, dal bordeaux al calvados, dal pollo “perfetto” al tartufo nero all’infinita varietà
di formaggi (be’ sì, riconosciamo pure che in quanto a formaggi ci sono superiori…), il libro stesso è un viaggio
attraverso una molteplicità di gusti
ai quali noi, in quanto italiani, siamo abituati e soddisfatti, ma che per un
inglese abituato al pudding o al fish and chips capisco come possano
sembrare concetti del tutto alieni.
Certo non è un libro per tutti: a un vegano
prenderebbe un coccolone a ogni
capitolo nel leggere della fiera delle vacche incinte messe all’asta o delle
tecniche di preparazione delle lumache quando ancora sono vive o del paese nelle
cui strade qualsiasi immagine che raffigura animali li rappresenta
rigorosamente sorridenti e felici di essere mangiati, per non parlare della tartare, ma che vuoi farci, non si può
mica accontentare tutti (l’altra sera ero a cena con un amico vegano e lo
vedevo rabbrividire ogni volta che
sentiva nominare la parola “burro”…
che vita grama la loro!).
Comunque, seppur carino, Lezioni di francese presenta anche dei difetti, il principale dei quali è
quello che dopo le prime pagine spumeggianti il tono si appiattisce un pochino
e in definitiva il tutto diventa una enumerazione di occasioni conviviali nelle
quali l’autore va nel tal posto e mangia le tali cose. Il che alla lunga
stanca, e anche se non mancano comunque spunti divertenti e particolarità
curiose la narrazione diventa un po’ monotona tanto da far pensare a una seduta
di slow food. Una soluzione possibile
per non farselo apparire noioso è adattarsi quindi a una slow reading, e leggerne un capitolo ogni quindici giorni
trovandosi di fronte nuovi cibi ad ogni ripresa.
Ho terminato la lettura di questa
escursione gastronomica poco fa, avvolto dall’odore del mio ragù bianco che stava finendo di cuocere mentre le tagliatelle aspettavano solo il bollore
dell’acqua.
I francesi saranno anche dei
maestri, ma vuoi mettere?
Il Lettore buongustaio
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