giovedì 7 luglio 2016

Lezioni di francese

Oltre che un’accanita lettrice, il mio editor è anche un raffinato (e insaziabile) gourmet, ovvero una di quelle persone alle quali risulta più economico regalare un vestito che invitarle a cena fuori, ed è per questo che quando trovo un titolo promettente mi piace riportarle libri che accomunino le due passioni.
Quando, nel solito negozietto di libri usati, ho letto le prime pagine di questo Lezioni di francese, che in realtà non parla di lingue ma di cibo, mi sono sembrate talmente carine che il prenderlo è diventato obbligatorio.




Con tutto ciò che si può dire dei francesi, non si può certo accusarli di non saper mangiare o bere. Di certo io sono d’accordo con l’opinione che su questo tema nel mondo siano secondi solo agli italiani, anche se loro, i francesi, questa cosa non la ammetteranno mai convinti come sono di essere loro, i primi.
In questo libro autobiografico Peter Mayle racconta del suo incontro con l’universo culinario ed enologico francese, di come un inesperto diciannovenne inglese abituato al deserto gastronomico del suo paese dove “…l’abbinamento delle pietanze pareva rigorosamente regolato in base al colore: grigia la carne, grigie le patate, grigie le verdure, grigio il sapore. All’epoca pensavo che la cosa fosse assolutamente normale”, si sia all’improvviso trovato di fronte l’esplosione di colori e di sapori dei cibi francesi e ne sia rimasto talmente conquistato da trasferirsi definitivamente a vivere a sud della Manica. Parecchio, più a sud.
Come molti altri inglesi prima di lui, vuoi per i cibi vuoi per il sole (oh my god, what is quella palla che brilla in cielo? Very piacevole, però…), Mayle ha preso dimora stabile in Provenza da dove è poi partito in frequentissime escursioni fino agli angoli più remoti della Francia alla scoperta dei cibi più gustosi e dei vini più meritevoli, avventure che ha pubblicato in seguito in diversi libri di successo come Un anno in Provenza o Un’ottima annata.
Dalle escargots alla bouillabaisse, dai ristoranti a cinque stelle alle trattorie di campagna, dal bordeaux al calvados, dal pollo “perfetto” al tartufo nero all’infinita varietà di formaggi (be’ sì, riconosciamo pure che in quanto a formaggi ci sono superiori…), il libro stesso è un viaggio attraverso una molteplicità di gusti ai quali noi, in quanto italiani, siamo abituati e soddisfatti, ma che per un inglese abituato al pudding o al fish and chips capisco come possano sembrare concetti del tutto alieni.
Certo non è un libro per tutti: a un vegano prenderebbe un coccolone a ogni capitolo nel leggere della fiera delle vacche incinte messe all’asta o delle tecniche di preparazione delle lumache quando ancora sono vive o del paese nelle cui strade qualsiasi immagine che raffigura animali li rappresenta rigorosamente sorridenti e felici di essere mangiati, per non parlare della tartare, ma che vuoi farci, non si può mica accontentare tutti (l’altra sera ero a cena con un amico vegano e lo vedevo rabbrividire ogni volta che sentiva nominare la parola “burro”… che vita grama la loro!).
Comunque, seppur carino, Lezioni di francese presenta anche dei difetti, il principale dei quali è quello che dopo le prime pagine spumeggianti il tono si appiattisce un pochino e in definitiva il tutto diventa una enumerazione di occasioni conviviali nelle quali l’autore va nel tal posto e mangia le tali cose. Il che alla lunga stanca, e anche se non mancano comunque spunti divertenti e particolarità curiose la narrazione diventa un po’ monotona tanto da far pensare a una seduta di slow food. Una soluzione possibile per non farselo apparire noioso è adattarsi quindi a una slow reading, e leggerne un capitolo ogni quindici giorni trovandosi di fronte nuovi cibi ad ogni ripresa.
Ho terminato la lettura di questa escursione gastronomica poco fa, avvolto dall’odore del mio ragù bianco che stava finendo di cuocere mentre le tagliatelle aspettavano solo il bollore dell’acqua.
I francesi saranno anche dei maestri,  ma vuoi mettere?
Il Lettore buongustaio

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