Quando qualcuno mi chiede dei
libri in prestito non è che ne sia
molto contento. Come tutti gli amanti dei libri sono geloso di quelli che ho, e ogni volta che vedo un vuoto negli
scaffali sono preso dall’ansia fino a che non ritornerà a essere riempito dal
suo occupante. Di libri dati in lettura nel tempo me ne sono spariti diversi e, dal momento che non
posso non prestarli, ci mancherebbe altro, ho preso l’abitudine di segnare
titolo e destinatario della momentanea cessione in un piccolo taccuino per ricordarmi che fine abbia
fatto. Nero, guarda caso.
L’unica persona per la quale non segno i libri che le presto è una
mia cara amica che la pensa come me
sul fatto dei prestiti e se mai fosse possibile è anche più rigorosa di me sulle restituzioni. Tra
lei e me c’è un fitto traffico di passaggi
a suon di 4-5 volumi per volta e non c’è mai bisogno di segnarli, perché siamo
entrambi sicuri che ritorneranno al legittimo proprietario.
Nell’ultimo scambio mi ha
dato un paio di romanzi di Elizabeth George
― di cui sentirete parlare prossimamente su questi schermi ― e questo Il Predatore sul quale mi ha
preventivamente avvertito: “Non è
all’altezza degli altri, ma in fondo non è malaccio”.
Come amica sarà anche affidabile, ma come lettrice ha una bocca molto più buona della mia.
Non sarà neanche malaccio, ma proprio in fondo in fondo e
a patto di riuscire ad arrivarci, cosa che a me non è accaduta. Per poter
andare avanti nella lettura di questo primo romanzo di Ingrid Black bisognerebbe tenere a portata di mano infinite dosi di
caffeina da iniettarsi ripetutamente
per via endovenosa, direttamente
senza passare per una tazzina altrimenti non otterrebbero lo scopo desiderato.
“Una trama mozzafiato nel susseguirsi dei colpi di scena”,
strombazzano in copertina. Ma dove? Una noia
deprimente fin dall’inizio e per diverse decine di pagine, utilizzate per
descrivere pensieri e conoscenze di questa improbabile detective (un ex agente dell’FBI, cribbio!) che in una plumbea
Dublino (ma tu guarda! originale!) tenta di dare la caccia a un serial killer (e come avremmo potuto
farne senza?) che uccide una marea di prostitute (si parlava di originalità?)
lasciando citazioni bibliche sul luogo del delitto (e dagli con tutte queste
cose nuove di pacca!).
La repulsione nei confronti di una protagonista assolutamente
stereotipata e per niente credibile ― sempre per restare sull’originale è un ex
alcolista e fuma il sigaro ― è superata solo dal modo banale di narrare, questo
forse anche per colpa della traduzione, che non ti sprona minimamente nella
prosecuzione.
Dopo aver arrancato
faticosamente per una settantina di pagine, ieri sera ho deciso che non ne
valeva proprio la pena di continuare e l’ho rimesso sullo scaffale dei libri da rendere. Quindi ho addentato uno dei
due romanzi della George, e già dopo solo due pagine la differenza abissale
nello stile della scrittura è stato
come un sorso di limonata fresca in
una giornata afosa.
Il Lettore
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